Giovanni Melosi

(Pisa)

Dal paradigma linguistico al realismo critico
Strategia di scrittura e statuto del personaggio
nella prima produzione in prosa di Peter Handke

[From linguistic paradigm to critical realism.
Strategies of writing and features of character in Peter Handke’s early prose production]

abstract. Recent studies on German literature have highlighted a trend towards recovering the registers of  realism. Previously discredited notions of literary theory have also been reconsidered, primarily that of character. In view of this, this work focuses on the strategies of writing and the features of the character in some selected novels from Peter Handke’s early production. It is shown how the experimental tendency of the author weakened in the ’70s, especially when Handke came to write about his mother’s suicide in Wunschloses Unglück. In order to make sense of such a loss, the writer is led to reconsider a tradition he had theoretically criticized and practically liquidated, though without abandoning entirely the aesthetic principles which had shaped his first works.

Studi recenti dedicati alla letteratura di lingua tedesca hanno evidenziato una chiara tendenza della narrativa contemporanea a recuperare registri tipici della tradizione del realismo[1]. D’altro canto, non si è mancato di rilevare come questo recupero sia fenomeno generale e diffuso oltre i confini nazionali. Già Mazzoni, in conclusione del saggio Teoria del romanzo (2011), aveva tracciato un profilo della letteratura europea caratterizzato da pluralità di stili narrativi, tuttavia sottolineando come alcune fra le opere più significative del XXI secolo riprendessero la grammatica del realismo, all’apparenza così indissolubilmente legata al genere romanzesco da risultarne quasi una prerogativa[2].

Tale graduale ritorno al realismo è stato parallelo a quella che, secondo la diagnosi di Compagnon (Le démon de la théorie, 1998), può essere definita una vera e propria crisi della teoria letteraria, con la quale la scrittura sperimentale secondo-novecentesca aveva invece intrattenuto un rapporto osmotico e proficuo. Che si voglia o meno ravvisare una relazione di reciproca influenza fra i due fenomeni, occorre quantomeno segnalare che questo “realismo di ritorno” si è sviluppato contemporaneamente al progressivo accantonamento, sul piano teorico, di modelli sviluppati soprattutto in Francia negli anni ’60 e ’70, in favore di un approccio ermeneutico più classico, o comunque maggiormente interessato al contesto storico e culturale della letteratura. Compagnon dimostra come, a dispetto della finezza di molte delle formulazioni teoriche di quegli anni, nozioni come quella di autore, di mondo, di lettore e di valore siano sopravvissute agli attacchi che quelle stesse formulazioni avevano inferto loro, e non siano dunque interpretabili come espressioni della doxa; mentre Todorov in La littérature en péril (2007) individua nello sclerotizzarsi della teoria, svuotata della sua linfa vitale e ormai divenuta metodo da applicare passivamente, una delle cause principali del diffuso disaffezionamento alla letteratura.

Il recupero di dispositivi narrativi della tradizione realista – unitamente alla dismissione di categorie teoriche spesso sviluppate in sintonia con una prassi letteraria che, in parte, sembrava aver archiviato per sempre quei dispositivi – ha inoltre contribuito al fiorire di analisi che hanno di nuovo posto al centro dell’attenzione nozioni letterarie in precedenza colpite da anatema, prima fra tutte quella di personaggio[3]. I personaggi letterari, precedentemente ridotti ad attanti e liquidati come effetti testuali[4], hanno così rivendicato quello statuto, che già Dostoevskij attribuiva loro, di «tipi che ben di rado s’incontrano bell’e compiuti nella realtà e che nondimeno sono quasi più reali della realtà stessa»[5].

Alla luce di tutto ciò, e considerata l’importanza strutturale che il personaggio (variamente inteso come effetto testuale oppure come homo fictus) comunque riveste in un testo narrativo, in questo studio si propone un’analisi della costruzione del personaggio nella prima produzione in prosa di Peter Handke, un autore che, in modo a un tempo personale ed emblematico, pratica un recupero di modelli narrativi tradizionali, pochi anni dopo aver esordito con opere più sperimentali, se non apertamente antirealistiche. Come è noto, è soprattutto con Wunschloses Unglück (1972) che egli compie questo tipo di recupero, in maniera tuttavia critica. Handke si confronta qui con il recente suicidio della madre. L’autore si trova perciò alle prese con un delicato processo di estetizzazione, e segnatamente con la trasformazione della madre da persona a personaggio. Questa operazione risulta ostica per uno scrittore dalla forte vocazione sperimentale, peraltro sostenuta da una corposa produzione teorico-saggistica (confluita nel volume, pubblicato nello stesso ’72, Ich bin ein Bewohner des Elfenbeimturms). Ora infatti il vincolo al dato (auto)biografico lo obbliga, quasi suo malgrado, a riconsiderare quegli stessi procedimenti narrativi che, in linea con le principali tendenze teoriche del periodo, aveva in precedenza screditato.

Si sa che il testo fu accolto proprio per questa ragione come segnale definitivo di un tale – per molti: rassicurante – recupero, peraltro auspicato da buona parte della critica. Tuttavia Handke, se è vero che per descrivere la vita della madre si serve di modelli classici, non abbandona i principi che avevano sostanziato la sua prima produzione letteraria[6]. Al contrario: ciò che contraddistingue l’opera è proprio l’utilizzo di strategie rappresentative tradizionali e la contemporanea, paradossale “messa a nudo” (per usare un’espressione cara ai formalisti) di quegli stessi meccanismi, contenuta in quei passi microsaggistici posti a commento della narrazione della biografia della madre. Tale miscela di storytelling e parti saggistiche conferisce al racconto quell’ambigua complessità che gli è propria, e ne fa un caso di studio significativo dal punto di vista della costruzione del personaggio, anche grazie alle questioni basilari che l’io-narrante pone e che tenta a suo modo di risolvere; questioni che, nel quadro letterario transnazionale attuale, sembrano ormai abbandonate o forse soltanto dimenticate.

Pur concentrandosi l’analisi in particolare su Wunschloses Unglück, nella prima parte del lavoro si delinea brevemente lo statuto, di natura essenzialmente linguistica, dei personaggi principali in testi scelti della seconda metà degli anni ’60. Tale ricostruzione è utile a comprendere la sofisticata operazione attuata in Wunschloses Unglück. Nelle pagine dedicate al racconto si analizzano quindi le modalità con cui il narratore costruisce il personaggio della madre, le difficoltà che questa operazione gli pone, e che sono in parte responsabili dello sviluppo del personaggio interno al testo, a fronte di svariati elementi di continuità che garantiscono al racconto un’evidente coerenza epica; essa è favorita non da ultimo dal ricorso a materiale (auto)biografico, che agevola il recupero di forme legate alla tradizione del realismo. Avendo cura di non sciogliere l’ambiguità consustanziale al testo (dovuta essenzialmente a una dialettica fra posizioni estetiche contrastanti), si vedrà come da un lato la figura della madre, a dispetto di ogni riserva, non risulti priva di stilizzazione; dall’altro come l’utilizzo di modelli narrativi tradizionali non sia acritico, ma, mediato dalla riflessione metaletteraria dell’io-narrante, trovi modo di compiersi in parziale consonanza con la poetica antirealistica che aveva improntato le prime opere dello scrittore. Di tale consonanza, la cui risultante è una forma di realismo critico, dà ragione l’ultima parte del contributo, tramite un raffronto tra le modalità di costruzione dei personaggi nei testi presi in analisi.

Il personaggio funzione linguistica: la prima fase sperimentale

Quando nel 1972 pubblica Wunschloses Unglück, Handke si è già esposto all’attenzione mediatica. Nel 1966, durante la conferenza del Gruppo 47 a Princeton, alla quale partecipava su invito di Ingeborg Bachmann, si era esibito in un lungo attacco in cui accusava gli autori lì riuniti di «Beschreibungsimpotenz», in tal modo intendendo criticare le forme di realismo largamente praticate dalla gran parte degli scrittori attivi in quegli anni[7]. Nello stesso anno pubblica presso Suhrkamp il romanzo Die Hornissen, in cui sono evidenti gli echi del nouveau roman francese e l’approccio sperimentale che lo accomuna ai colleghi del Gruppo di Graz, recentemente formatasi nella cittadina austriaca grazie soprattutto all’azione propulsiva di Alfred Kolleritsch[8].

Accomunato da una particolare attenzione ai fatti di linguaggio, il gruppo di Graz aveva inteso raccogliere l’eredità del Gruppo di Vienna, scioltosi nel 1964 dopo il suicidio di una delle sue voci più importanti, Konrad Bayer[9]. Gli esordi di Handke, in parte per le idiosincrasie dell’autore, in parte grazie anche a questo tipo di mediazione, subiscono dunque l’influenza del pensiero di Wittgenstein, le cui concezioni filosofiche avevano ottenuto una più ampia diffusione proprio grazie agli autori viennesi, a fronte di un tema, quello dello scetticismo linguistico, che in Austria aveva alle spalle una lunga tradizione, non soltanto filosofica[10].

Tenendo fede alle posizioni teoriche espresse nel saggio Zur Tagung der Gruppe 47 in USA[11]in cui l’autore, rifacendosi alla metafora utilizzata da Sartre della parola come vetro trasparente, e quindi come filtro invisibile fra la realtà e il soggetto che ne fa esperienza, oblitera ogni forma di scrittura che dia per scontata una tale visione, a suo dire ingenua, del linguaggio – Handke pratica nei suoi primi testi una sistematica decostruzione di generi letterari consolidati: dal poliziesco al Bildungsroman, dalla biografia alla Heimatliteratur.

Nella produzione alla soglia dei ’70 lo scrittore si dedica inoltre alla resa letteraria di forme alternative di appercezione, con evidenti ricadute sulla caratterizzazione dei personaggi principali. In Die Hornissen ciò avviene attraverso l’espediente di un personaggio narratore cieco, Gregor Benedikt, costretto a destreggiarsi in una realtà non più percepita sotto forma di immagini, ma esperita attraverso gli altri organi di senso. Non essendo cieco dalla nascita, egli può servirsi delle immagini immagazzinate nella sua memoria, ma il danno alla vista gli impone comunque una loro confusa risemantizzazione: «Ich teilte den Geräuschen, die ich hörte, die Bilder zu. Ich teilte den Bildern die Geräusche zu, die ich nicht hörte. Ich teilte den Geräuschen, die ich nicht hörte, die Bilder zu»[12].

Nondimeno anche il processo mnemonico, come quello percettivo, risulta disturbato dalla sovrapposizione fra due piani esperenziali differenti: quello biografico in senso stretto e un’esperienza di lettura fatta da Gregor tempo addietro. Come chiarisce il penultimo capitolo del romanzo, Die Ent­stehung der Geschichte, il personaggio narratore non rievoca direttamente il proprio trascorso, ma cerca di ricostruire la trama di un romanzo che aveva letto prima di perdere la vista, la cui storia gli ricorda da vicino la propria. La “storia”, già di per sé frammentata e priva di un qualsivoglia plot tradizionalmente inteso, risulta così ulteriormente complicata a causa della confusione fra livelli narrativi in origine distinti, ma fusi in maniera indistricabile dall’operazione, peraltro lacunosa, di Vergegenwärtigung del protagonista. È così che l’identità del protagonista risulta scissa fra quella del narratore e quella dell’eroe del libro in parte dimenticato, come dimostra la frequente alternanza di prima, seconda e terza persona pronominale, cui va aggiunto un utilizzo straniante e talvolta inconseguente dei tempi verbali. Gregor Benedikt appare anche per il resto scarsamente caratterizzato. Disseminato nelle diverse voci del testo, viene anzi ridotto a una funzione linguistica incorporea:

Wer blind ist, ist auch unsichtbar. In der fremden Mundart wird sowohl für einen, der blind ist, als auch für einen, der den andern nicht sichtbar ist, dasselbe Wort verwendet. Niemand kann ihn von draußen sehen, weil er blind ist. Niemand sieht das Gesicht des Blinden im Spiegel; wenn ein Geblendeter vor dem Spiegel steht, so steht niemand vor dem Spiegel.[13]

Non da ultimo tramite tale scarnificazione del personaggio a mero soggetto linguistico, l’autore pare volere impedire una lettura che sappia anche intrattenere, intendendo piuttosto liquidare il patrimonio ereditario realista che certa letteratura stava riportando in auge[14].

Pari effetto destabilizzante ebbero le prime rappresentazioni teatrali dell’autore, i cosiddetti Sprechstücke (fra cui Publikumsbeschimpfung e Kaspar, rispettivamente del 1966 e 1967), così come il secondo romanzo pubblicato da Handke, Der Hausierer (1967). In parte diversa fu invece l’accoglienza riservata a Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, uscito nel 1970 sempre presso Suhrkamp. Se infatti nel romanzo lo scrittore raffina ulteriormente le sue tecniche descrittive mutuate dall’école du regard di matrice francese, esso limita al contempo le spinte centrifughe presenti in Die Hornissen, in direzione di una semplificazione della struttura formale e narrativa del racconto. Tuttavia la vicenda, che si apre con l’assassinio, da parte dell’ex portiere Josef Bloch, di una donna con cui aveva trascorso la notte, non si dipana seguendo lo schema classico del giallo, ma procede piattamente verso una conclusione che è tale soltanto di nome. Il modello del romanzo poliziesco (di cui Handke aveva già tracciato la morfologia in Der Hausierer) funge così da mero pretesto, se non da vero e proprio depistaggio nei confronti del lettore. L’uccisione resta infatti priva di movente[15], frutto di un gesto irrazionale che sconvolge definitivamente il precario equilibrio psichico del protagonista, e niente viene rivelato neppure della sua futura sorte: dopo aver inizialmente tentato di sfuggire alla polizia, Josef, cui ormai tutto è divenuto indifferente, rimane impantanato in un villaggio di campagna vicino al confine.

Grazie anche a una narrazione in terza persona, il personaggio risulta maggiormente caratterizzato rispetto al protagonista del romanzo d’esordio. Se non altro in questo caso si ha la certezza di avere a che fare con un solo individuo: Josef Bloch, al contrario di Gregor Benedikt, non ha alter ego, è semplicemente se stesso. Ma il fatto che il narratore assuma spesso il suo punto di vista – e in alcuni casi, con effetti stranianti, persino la sua voce[16] – fa sì che al racconto, privato del telos tipico del genere (che si esprime essenzialmente mediante legami di causa ed effetto governanti le azioni dei personaggi[17]), si sostituisca la descrizione, quasi in forma di psicogramma, del rapporto compromesso fra il protagonista e la realtà che lo circonda. Essa viene rappresentata attraverso il filtro deformante di una coscienza dissociata, che altera il rapporto fra le cose e il sé che ne fa esperienza[18]. Tale alienazione è espressa attraverso una scrittura oggettivante, che per mezzo di una costante rinominalizzazione reifica il personaggio, riducendolo a soggetto grammaticale:

Die Kellnerin ging hinter die Theke. Bloch legte di Hände auf den Tisch. Die Kellnerin bückte sich und öffnete die Flasche. Bloch schob den Aschenbecher weg. Die Kellnerin nahm im Vorbeigehen von einem anderen Tisch einen Bierdeckel. Bloch rückte mit dem Stuhl zurück. Die Kellnerin nahm das Glas von der Flasche, auf die sie es gestülpt hatte, legte den Bierdeckel auf den Tisch, stellte das Glas auf den Deckel, kippte die Flasche in das Glas, stellte die Flasche auf den Tisch und ging weg. Es fing schon wieder an! Bloch wußte nicht mehr, was er tun sollte.[19]

Altrove[20] la resa del rapporto disturbato fra il personaggio e la realtà che lo circonda trova espressione in forme di prosa concreta, in cui il ricorso apparentemente obbligato al medium linguistico, sul quale ormai Bloch non può più fare affidamento, viene aggirato attraverso la sostituzione delle parole – ossia, in termini peirceani, di simboli – con quelle che, utilizzando lo stesso vocabolario, si definiscono icone[21]. Tuttavia alla fine neanche la maggiore immediatezza di queste ultime riesce a risolvere la crisi psichica (nonché linguistica) del protagonista. Come già aveva mostrato in Kaspar, Handke suggerisce che il rapporto con il mondo (sia che si tratti della Außenwelt, sia che si tratti della Innenwelt[22]) è sempre e comunque di natura linguistica: «Kaum hatte er die Augen geschlossen, waren ihm Blumen und Teekessel schon unvorstellbar geworden. Er behalf sich, indem er statt Wörtern für diese Sachen Sätze bildete, in der Meinung, eine Geschichte aus solchen Sätzen könnte ihm erleichtern, sich die Sachen vorzustellen. […] Es nützte nichts: Bloch machte die Augen auf, als es unerträglich wurde»[23].

Di nuovo quindi il personaggio è la risultante di un’istanza narrativa cui non preme tanto raccontare (telling) quanto semmai mostrare (showing)[24], o meglio ancora registrare. Alla «Beschreibungsimpotenz» che aveva imputato agli scrittori realisti del Gruppo 47, l’autore cerca di porre rimedio mediante forme di descrizione che pongono l’accento sui modi e sul mezzo della descrizione, il linguaggio, piuttosto che sul suo oggetto. In tal senso Handke si dimostra di nuovo coerente con le posizioni teoriche che aveva fatto proprie in quegli anni. L’esperienza dei personaggi principali, al pari della loro resa letteraria, mostrano che ogni tentativo finalizzato ad annullare la distanza fra le parole e le cose non fa altro che sancire la totale estraneità delle une rispetto alle altre, rimarcando l’arbitrarietà del legame che le unisce. Lo strumento di tale rappresentazione, il linguaggio, non è quel vetro tanto trasparente da non farsi quasi notare, ma semmai, con una metafora dello stesso autore, una lastra di ghiaccio che non regge il peso di chi vi cammina sopra, facendolo sprofondare nella neve sottostante[25]. In termini estetici ciò si traduce in un rifiuto radicale del realismo e del personaggio tradizionale, una volta ratificata l’impossibilità di qualsiasi forma di mimesis tradizionalmente concepita, di quella prassi rappresentativa che tenderebbe a scambiare erroneamente le designazioni degli oggetti con gli oggetti stessi[26], le azioni narrate in un testo letterario con azioni reali, i personaggi che le compiono con figure non poi così diverse da quelle chiamate a immedesimarvisi durante la lettura. Talché allo scrittore, per evitare tali automatismi, ossia per fare in modo che la letteratura non si limiti a essere un mero surrogato del cinema o della fotografia[27], non resta che sviluppare nuovi metodi per scrivere ciò che il personaggio avverte dentro di sé o ciò che d’esterno percepisce, sempre attraverso lo schermo della propria soggettività[28].

È sulla scia di queste considerazioni che Handke si professa, provocatoriamente, «abitante della torre d’avorio», inserendo nella raccolta di scritti così denominata un testo dal titolo parimenti emblematico, Die Literatur ist romantisch[29]. Al tempo, questo statement in favore di un’imprescindibile autonomia della letteratura contribuì non poco a renderlo inviso a coloro che pretendevano dallo scrittore un impegno politico o più genericamente morale. Come testimoniano le schermaglie fra Walser e Handke, e fra quest’ultimo e il critico Marcel Reich-Ranicki[30], segnatamente in Handke si videro personificate le tendenze giudicate regressive dei primi anni ’70, consistenti in un rifiuto della figura del letterato engagé e in un relativo ripiegamento verso un io che, questa una delle accuse maggiori a Handke, mostrava preoccupanti segni di narcisismo.

Nondimeno l’autore, almeno a partire dal Tormann, aveva già tracciato la via verso il recupero di forme letterarie che, detto con Roland Barthes, non fossero soltanto «scrivibili», bensì anche «leggibili»[31]. Tanto più grande fu quindi la soddisfazione di molti critici quando Handke, con la pubblicazione di Wunschloses Unglück e Der kurze Brief zum langen Abschied, parve, secondo una percezione diffusa, con ancor più evidenza rinnegare le premesse da cui era partito, attraverso un recupero di modi narrativi maggiormente legati alla tradizione. Le due opere del 1972 furono infatti interpretate come una svolta poetica decisiva che avrebbe indirizzato la produzione dello scrittore verso un tale recupero. Ciò valse soprattutto per Wunschloses Unglück: se infatti nel Brief, a fronte di un effettivo ricorso a pattern letterari tradizionali (derivati dal romanzo di formazione e di viaggio), Handke intende rielaborare la recente rottura con la compagna Libgart Schwarz, inserendo nel romanzo la descrizione di parte del viaggio compiuto negli Stati Uniti assieme all’attrice e all’amico Alfred Kolleritsch, in Wunschloses Unglück, seppur da una prospettiva parimenti autobiografica, lo scrittore pone al centro della sua opera la figura della madre, qualcuno cioè che, almeno in apparenza, non sia il puro e semplice «esterno» del suo «mondo interno»[32].

Wunschloses Unglück

A un primo livello di lettura, Wunschloses Unglück rappresenta il tentativo, da parte dell’io-narrante, di ricostruire la vicenda biografica della madre appena suicidatasi. L’aggancio è come detto autobiografico. La madre dello scrittore, Maria Handke, si era tolta la vita nella notte fra il 19 e il 20 novembre 1971 dopo avere ingerito una dose eccessiva di sonniferi, come recita il necrologio, che Handke ha leggermente (ma significativamente) riadattato[33], con cui si apre il racconto.

Il testo può essere suddiviso in tre blocchi distinti. A una prima e ultima parte in cui il narratore descrive le sue reazioni dopo la morte della madre, il bisogno di scrivere di lei, da un lato per farne un caso («Fall»; 13), dall’altro per superare lo stato di angoscia e mancanza di parola («Sprachlosigkeit»; 11) in cui versa, si contrappone il blocco centrale, il più ampio, in cui è inserita la biografia della madre. Questo blocco segue la scansione temporale della vita e, diversamente da quanto succede nei romanzi precedenti, la vicenda del personaggio fornisce al racconto una certa compattezza, tanto che può essere ricostruita di seguito a grandi linee.

Nata e cresciuta in un villaggio rurale della Carinzia, sottoposta a un’educazione mirante a reprimere ogni impulso di autoaffermazione, la ragazza tenta di sfuggire a un destino già segnato scappando di casa e imparando il mestiere di cuoca, che le permette di stabilirsi in un hotel distante dal villaggio. Il tentativo d’evasione ha comunque vita breve e la donna è costretta a fare ritorno nella casa paterna.

A seguito dell’Anschluss dell’Austria alla Germania nazionalsocialista si apre per la futura madre un’ulteriore prospettiva di cambiamento. La dittatura nazista rappresenta per lei l’occasione paradossale di liberarsi dalle angustie dell’ambiente in cui è cresciuta. Nonostante anche il fascismo abbia infatti come obiettivo l’irregimentazione del singolo a favore della collettività, l’estetizzazione della vita quotidiana messa in atto dal regime le fornisce il grande contesto («ein großer Zusammenhang»; 20) di cui ha bisogno[34]. Questo periodo le serve per uscire da se stessa e diventare autonoma (22). Nei primi anni di guerra si innamora e resta incinta di un ufficiale tedesco stazionante in Carinzia, ma essendo questi già sposato è costretta a un matrimonio riparatore con il futuro patrigno dello scrittore, anche lui ufficiale della Wehrmacht.

Dopo la separazione dal marito a causa della guerra, ha inizio un periodo particolarmente turbolento per la madre e il bambino appena nato. Dapprima i due si trasferiscono a Berlino, dalla famiglia del marito. Poi, al cadere delle prime bombe, fanno ritorno in Carinzia. Di nuovo immersa in quel contesto cattolico-contadino («in diesem ländlich-katholischen Sinnzusammenhang»; 26), di nuovo costretta a reprimere ogni moto di individualità, trascorre i restanti anni del conflitto nel villaggio natale, per poi, finita la guerra, trasferirsi nuovamente a Berlino. Insieme al marito e al bambino cerca di far fronte alle dilaganti condizioni di miseria del dopoguerra, ma il rapporto di totale incomprensione che la lega al marito da una parte, un figlio ancora troppo piccolo per recarle un po’ di conforto dall’altra, fanno sì che sprofondi sempre più in uno stato di totale isolamento. Diventata ormai un essere neutro (29), trasformatasi da comparsa d’anteguerra in comparsa del dopoguerra (30), trascorre gli anni berlinesi fra aborti clandestini e nuove gravidanze portate a termine.

Nel 1948 fugge dalla città insieme alla famiglia e si stabilisce di nuovo in Carinzia, dove inizialmente pare ritagliarsi uno spazio proprio. Tuttavia i principi morali interiorizzati prevalgono, costringendola a un’esistenza di pura facciata. Rinuncia a ogni ulteriore tentativo di fuga e si adopera nel suo compito principale di donna, tenere la famiglia unita almeno esteriormente (43).

Comincia anche a leggere, e la letteratura le fa prendere di nuovo contatto con se stessa. Questo contatto, se da una parte le assicura una sorta di seconda giovinezza, dall’altra la rende ancora più consapevole dell’irrecuperabilità della prima: «Die Literatur brachte ihr nicht bei, von jetzt an an sich selber zu denken, sondern beschrieb ihr, daß es dafür inzwischen zu spät war» (47). La letteratura le fornisce un nuovo linguaggio e un personale modo d’esprimersi finalmente depurato dai cliché della lingua ereditata[35], ed è ora in grado di raccontare di sé al figlio ormai grande tramite lettere in cui descrive i suoi stati d’animo, i rimpianti e le angosce, «als hätte sie versucht, sich selber dabei in das Papier zu ritzen» (55).

Ma sente che le è ormai preclusa ogni prospettiva futura; cessa di opporre resistenza a quel destino che la voleva «unglücklich» e «wunschlos» e ammutolisce di nuovo, stavolta in maniera definitiva. La minaccia di un cancro, i dolori alla testa, le lunghe passeggiate senza mèta; poi il crollo nervoso, una breve vacanza in Jugoslavia che funziona soltanto da palliativo, infine i primi pensieri suicidi: «Ich möchte wirklich gerne tot sein» (59).

La madre, una volta tanto, riesce a realizzare il proprio desiderio. Dopo aver scritto lettere d’addio ai parenti più stretti, trascorre la sua ultima sera davanti alla tv, in compagnia della figlia; poi va in camera e ingerisce tutti i sonniferi che si era procurata il giorno precedente, non senza essersi prima curata della forma esteriore (43) della sua morte, come d’altronde era stata abituata a fare fin dagli anni della scuola.

Alla meticolosa descrizione del suicidio segue, come anticipato sopra, il terzo e ultimo blocco narrativo, che è però tale soltanto parzialmente. L’io-narrante vi racconta le sue reazioni alla notizia della morte della madre, il viaggio verso l’Austria per assistere al funerale, la veglia funebre, poi il funerale stesso. Afferma di aver fallito almeno uno dei suoi due obiettivi, giacché dallo scrivere non è riuscito a trarre alcun beneficio. Tale fallimento non viene soltanto annunciato, ma espresso formalmente attraverso una frammentazione della materia narrativa in brandelli di testo giustapposti in modo alogico, oppure per associazione di idee. Vi si leggono aneddoti, ulteriori riflessioni sulla scrittura, versi di canzoni, stati d’animo del narratore, ricordi affiorati improvvisamente a una coscienza che non è più in grado (o più non si cura) di ordinarli in un contesto epico. Il testo si chiude con una frase, «später werde ich über das alles Genaueres schreiben» (68), che pare voler ulteriormente rimarcare il fallimento del narratore, conferendo all’opera un carattere provvisorio, aperto.

1. Sul problema del narrare: il piano della riflessione e della critica

Questo genere di considerazioni sulla scrittura sono una costante del racconto e dunque una delle sue caratteristiche principali. Al piano della narrazione propriamente detta si accompagna infatti sempre quello della riflessione sui modi del narrare e della “messa a nudo” dei suoi procedimenti. Il narratore, non senza amore per la simmetria, puntella la storia della madre con tre inserti parentetici a carattere metanarrativo (22, 32-35, 41), dei quali il secondo, quello centrale, occupa alcune pagine ed è il più esteso in assoluto. A essi si aggiungono diverse altre riflessioni dello stesso tenore contenute negli altri due blocchi testuali. Tali considerazioni tuttavia, invece di dare credito alla narrazione biografica, la rendono più fragile, pur essendo al contempo interpretabili come prove di quell’autenticità che pongono costantemente in dubbio[36].

Si citano qui soltanto alcuni passi a titolo d’esempio. Prima di cominciare a raccontare la storia della madre, l’io-narrante, con una buona dose di ironia, annota:

“es begann mit…”; wenn man so zu erzählen anfangen würde, wäre alles wie erfunden, man würde den Zuhörer oder den Leser nicht zu einer privaten Teilnahme erpressen, sondern ihm eben nur eine recht phantastische Geschichte vortragen.
Es begann also damit, […] (14)

Instillando nel lettore il dubbio che ciò che gli viene raccontato sia appunto una storia «assolutamente fantastica», inventata, e non la storia della madre per come essa si è davvero svolta e che, se narrata, toglierebbe libertà al lettore, costringendolo a un coinvolgimento personale.

Un simile dubbio il narratore lo rivolge, poco dopo, verso il medium fotografico, cui ricorre tuttavia sistematicamente per descrivere l’aspetto esteriore della madre nelle fasi salienti della sua vita. A proposito delle fotografie scrive:

Die Fiktion, daß Fotos so etwas überhaupt “sagen” können –: aber ist nicht ohnehin jedes Formulieren, auch von etwas tatsächlich Passiertem mehr oder weniger fiktiv? Weniger, wenn man sich begnügt, bloß Bericht zu erstatten; mehr, je genauer man zu formulieren versucht? Und je mehr man fingiert, desto eher wird vielleicht die Geschichte auch für jemand andern interessant werden, weil man sich eher mit Formulierungen identifizieren kann als mit bloß berichteten Tatsachen? Deswegen das Bedürfnis nach Poesie? “Atemnot am Flußufer”, heißt eine Formulierung bei Thomas Bernhard. (22)

L’incapacità esemplificativa delle fotografie viene qui presa come spunto per una riflessione sui limiti del linguaggio tout court, di ogni formulazione che si sforzi vanamente di ridire ciò che è accaduto. Il narratore, problematizzando la scrittura, e facendolo con tali argomenti, crea di fatto una barriera a una lettura troppo empatica, in qualche modo pre-saussuriana della vicenda narrata, una lettura che cioè, ingenuamente, non si curi di operare una distinzione fra il “significato” della storia (ciò che è realmente accaduto) e il suo “significante” (le formulazioni necessarie per raccontarla). Che poi, come si vedrà meglio, è il modo in cui la madre legge i romanzi e i loro personaggi. D’altra parte l’io-narrante è disposto a riconoscere la necessità di ricorrere a tali formulazioni, più o meno falsificanti, per privare la storia della sua contingenza[37] e renderla in tal modo «interessante»[38], cioè fruibile anche per coloro che possono farne esperienza soltanto nella dimensione del linguaggio. Tanto più ciò è rilevante se si tiene conto che il racconto della biografia materna è per il narratore figlio un racconto di secondo grado, solo in parte testimoniale. Lunghi spezzoni della vita della madre non stanno quindi al di qua della lingua, ma il narratore la recepisce già in forma di racconto o di lettera.

Il terzo passo su cui è opportuno soffermarsi ha un’importanza cruciale per l’interpretazione delle sezioni del racconto dedicate alla tematica linguistica. Esso coincide con il lungo inserto parentetico menzionato sopra (32-35). Il narratore giustifica di nuovo il ricorso a generalizzazioni che in fondo prescindono dalla madre intesa come «eine möglicherweise einmalige Haupt­person in einer vielleicht einzigartigen Geschichte»; riflette sul pericolo che tali astrazioni finiscano per rendersi autonome e che lui, a lungo andare, possa perdere l’equilibrio fra il puro e semplice riferire e ciò che definisce «das schmerzlose Verschwinden einer Person in poetischen Sätzen»[39]; infine illustra, alla luce di quanto affermato, la tecnica che sta utilizzando per raccontare la storia della madre: «Ich vergleiche also den allgemeinen Formelvorrat für die Biographie eines Frauenleben mit dem besonderen Leben meiner Mutte; aus den Übereinstimmungen und Widersprüchlichkeiten ergibt sich dann die eigentliche Schreibtätigkeit».

L’io-narrante risulta preso in questa contraddizione[40], che non riesce o non intende risolvere e che determina il fallimento della scrittura annunciato nel finale: da una parte vorrebbe fare di sua madre un «caso», dall’altra afferma di non volersene servire come se si trattasse di un rituale letterario, «in dem ein individuelles Leben nur noch als Anlaß funktioniert» (33). La dialettica fra le concordanze e le discordanze dei due modelli di riferimento principali (la biografia di una donna da un lato, la vita della madre dall’altro) risulta quindi negativa, non dando essa luogo a una sintesi in cui i due modelli possano fondersi armoniosamente, come testimonia il finale frammentario del racconto.

Il «Formelvorrat» cui l’io-narrante afferma di fare ricorso è segnalato, stilisticamente, dall’utilizzo delle maiuscole e dei corsivi. Il narratore se ne serve per ottenere un effetto di straniamento, che rappresenta, per il lettore, l’invito ad assumere una posizione critica nei confronti di quello stesso patrimonio linguistico così abusato. Ciò che l’uso ha reso familiare viene in tal modo defamiliarizzato. Anche in questo caso il pericolo è che tali espressioni linguistiche finiscano per rendersi autonome, cioè che, una volta cristallizzatesi nell’uso, ci si dimentichi della loro origine convenzionale[41].

L’io-narrante in questo modo ottiene, con grande economia di mezzi, il massimo risultato sul piano della critica[42]. Da una parte infatti, soddisfacendo la necessità di dare un senso al suicidio della madre, interpreta la sua vicenda biografica sottolineando l’azione coercitiva che la società, attraverso l’imposizione di determinati modelli di condotta, ha operato su di lei. La madre, pena l’esclusione dalla comunità d’origine, è stata costretta a introiettare valori etici, morali e religiosi che, per quanto anacronistici e per lei, in quanto donna, avvilenti, concorrono a tenere unita la comunità stessa. Così facendo ha dovuto rinunciare alla propria individualità e si è progressivamente annullata fino a diventare un niente (32). Dall’altra parte l’io-narrante assume un simile atteggiamento critico nei confronti dei registri letterari codificati. Per quanto infatti le due sfere di esperienza (quella della madre e quella del fruitore di letteratura) possano sembrare distanti, esse sono pur sempre accomunate dal linguaggio che per un verso le media, per l’altro le determina[43].

Come aveva d’altronde già rivelato l’esperienza di Kaspar nell’omonima pièce teatrale, Handke dimostra così di avere in comune con il Barthes di quegli stessi anni la convinzione che parlare significhi sempre sottomettere[44]. La madre non è stata in grado di sottrarsi alla violenza perpetuata su di lei attraverso un linguaggio per di più «ideologicamente saturato»[45]. Essa, almeno fino a un certo punto della sua vita, è stata costretta ad ammutolire, ha cioè rinunciato a un linguaggio che fosse soltanto suo e permesso che le espressioni del patrimonio linguistico condiviso finissero per rendersi autonome, che fosse la lingua stessa, per citare un noto verso di Schiller – riportato, non a caso, da Klemperer – a pensare per lei[46]. In alcune occasioni è sì riuscita a sfuggire a tale sistematica repressione attuata per mezzo del linguaggio: la guerra, il trasferimento in una grande città, la breve vacanza in Jugoslavia, sono tutti eventi che hanno rappresentato un temporaneo cambiamento di contesto (inteso dal narratore come «Sinnzusammenhang», universo di significato), e quindi anche di registro linguistico. Il narratore racconta di lei che, a Berlino, «nicht nur den andern Dialekt, sondern auch die fremden Redensarten nachsprach» (30); ma poi, di nuovo a casa, «sie nahm wieder der heimischen Dialekt an, wenn auch nur spielerisch» (36). La lingua, almeno in un’occasione, salva la vita a lei e all’intera famiglia: soltanto grazie allo sloveno riesce ad attraversare il confine della zona orientale di Berlino (35). Ma l’incontro con la letteratura le presenta una quantità tale di contesti differenti, da renderle ormai insopportabile la limitatezza del proprio[47].

La madre si presenta a questo incontro del tutto impreparata. Leggendo si identifica nelle vite dei vari personaggi di finzione in cui si imbatte, ciò che desta nuovamente in lei un desiderio mai del tutto sopito («Sie hätte eine Rolle spielen können»; 47), ma che poi, a lettura conclusa, rende l’obbligato ritorno a sé ogni volta più frustrante e doloroso. Ella si dimostra priva di mezzi per difendersi dalla malìa di un linguaggio, quello letterario, che la istruisce su se stessa e al contempo la umilia: «Sie las jedes Buch als Beschreibung des eigenen Lebens» (46), «sie nahm alles wörtlich» (56), «“So bin ich aber doch nicht”, sagte sie manchmal, als hätte der jeweilige Autor sie höchstpersönlich beschreiben» (46). Certamente è un merito della letteratura se la madre riprende contatto con se stessa; ma l’aver trovato un personale registro d’espressione le torna utile soltanto per manifestare, nelle lettere indirizzate al figlio, il proprio malessere, per descrivere quella che è, al contempo, lo schema della propria vita e del testo narrativo che la racconta: «Das ist ein unendlicher Teufelskreis» (59).

Lo stesso può essere detto a proposito dei codici letterari tradizionali. Di essi si può e talvolta – lo dimostra l’esperienza del narratore – si è persino costretti a fare uso, senza però scordare che il linguaggio può presto trasformarsi in un mezzo coercitivo, qualora ci si dimentichi della sua natura convenzionale, qualora lo si accetti senza sottoporlo a critica alcuna. Limitandosi all’esperienza della lettura, tale errore può essere evitato nel caso in cui si abbia la capacità di riconoscere i vari registri narrativi per ciò che essi realmente sono: giochi linguistici, basati su regole che risultano valide soltanto nel contesto in cui esse sono tacitamente accettate. Anche il realismo, per lungo tempo considerato il metodo in assoluto più adeguato alla rappresentazione di uno stato di cose, è esso stesso un gioco linguistico fra tanti, un gioco che però, a causa dell’uso e dell’abitudine, può erroneamente sembrare più naturale di altri[48]. Il che a ben vedere non porrebbe particolari problemi all’io-scrivente, se nel suo ragionamento non restasse invischiata la stessa figura della madre, resa inautentica dal linguaggio, tradita nella sua essenza di persona realmente esistita, fatta di parole dalla testa ai piedi.

2. Oltre la critica: autobiografia, biografia, realismo

Handke quindi non si discosta troppo dalla poetica delle opere precedenti. Wunschloses Unglück porta avanti la critica al linguaggio e alle convenzioni letterarie tradizionali già presente, in modo più o meno esplicito, nelle prose pubblicate durante la seconda metà degli anni ’60, negli Sprechstücke e in Kaspar.

Tuttavia in questo caso il ricorso a materiale autobiografico e soprattutto biografico costringe l’autore a essere qualcosa di più e qualcosa di diverso rispetto a «eine Erinnerungs- und Formuliermaschine» (13):

Dieses Mal aber, da ich nur der Beschreibende bin, nicht aber auch die Rolle des Beschriebenen annehmen kann, gelingt mir das Distanznehmen nicht. Nur von mir kann ich mich distanzieren, meine Mutter wird und wird nicht, wie ich sonst mir selber, zu einer beschwingten und in sich schwingenden, mehr und mehr heiteren Kunstfigur. Sie läßt sich nicht einkapseln, bleibt unfaßlich, die Sätze stürzen in etwas Dunklem ab und liegen durcheinander auf dem Papier. (34)

A differenza di quanto l’io-narrante afferma, la realtà del testo dimostra che egli riesce, in quanto «descrittore», a porsi a una certa distanza dal «descritto». Pur non raggiungendo quei livelli di automatismo che lo porterebbero a battere alla macchina sempre una stessa lettera (11), il narratore d’altro canto evita, almeno fino a quando lo ritiene necessario, che «die Sätze stürzen in etwas Dunklem ab und liegen durcheinander auf dem Papier». Seppur a fatica (come non si stanca di ripetere), esso trova una soluzione di compromesso che coincide, formalmente, con il recupero paradossale di procedimenti narrativi maggiormente legati alla tradizione letteraria del realismo[49].

Realistiche sono dunque le modalità con cui la storia della madre viene raccontata, giacché tali modalità sono quelle che più si prestano a narrare la biografia di un individuo. Il testo rispetta in effetti le caratteristiche principali degli scritti di natura autobiografica[50] e biografica[51], nonostante non sia possibile collocarlo definitivamente in uno soltanto dei due generi. Wunsch­loses Unglück è un racconto autobiografico perché, soprattutto nei due blocchi testuali che gli fanno da cornice, il narratore si rappresenta come parte dell’universo diegetico che produce, non soltanto in quanto voce che dice “io”, ma come personaggio che agisce. Come tipico di molti testi di questo genere, l’opera nasce in un particolare momento di crisi nella vita dell’autore e si propone come tentativo di superare tale crisi attraverso un’operazione retrospettiva di Sinngebung, di significazione del proprio passato e degli eventi che hanno generato le condizioni presenti. L’atto di scrittura assume quindi un valore terapeutico mirante a rafforzare il concetto riguardante la propria identità, in modo particolare quando essa appare minacciata da esperienze di natura traumatica. L’io che scrive, selezionando determinati eventi del proprio trascorso esistenziale, rielaborandoli esteticamente e disponendoli secondo una certa cronologia, interpreta quegli stessi eventi dalla prospettiva del presente, in base alla concezione che ha di sé o all’immagine che di sé intende rendere pubblica[52].

Diversi sono quindi stati i critici che, confrontandosi con il testo, lo hanno letto prestando particolare attenzione alla figura del narratore piuttosto che al personaggio della madre, e quindi ai meccanismi proiettivi messi in atto dal primo a discapito del secondo[53]. In questi studi si nota una tendenza ad annullare la distanza che separa l’io-narrante dall’autore del racconto, cui si unisce il ricorso a un lessico in parte mutuato dalla psicanalisi, utilizzato per illustrare il rapporto diadico madre-figlio e il valore che la morte della prima assume nella vita del secondo[54]. L’opera viene così recepita non tanto o non solo nella sua dimensione estetica, ma anche come documento che permette di accedere alla personalità dell’autore e ottenere informazioni sul suo passato[55].

Più evidente ancora è la componente biografica del racconto, dal momento che, seppur in uno spazio ridotto, vi è tracciata l’intera parabola esistenziale di un personaggio che ha realmente vissuto e che non coincide con la figura dell’io-narrante. È specialmente nella sezione centrale del racconto che si assiste alla transizione dalla forma autobiografica a quella biografica. Nonostante vi siano svariati passi in cui l’io-narrante ricompare direttamente come personaggio della storia che racconta, è infatti evidente la volontà di distanziarsi non soltanto rispetto alla figura della madre, ma anche rispetto al proprio sé bambino. All’interno del testo si assiste dunque a uno sdoppiamento del narratore in Ich-Erzähler e Ich-Objekt[56], come dimostra il fatto che esso, quando si rappresenta bambino, parla appunto del «figlio» o più generalmente dei «bambini», evitando di fare ricorso alla prima persona singolare. Sdoppiamento tuttavia sempre meno vistoso, quanto più ci si avvicina al racconto del suicidio della madre. Quando descrive le ultime fasi della vita di lei, l’io-narrante torna progressivamente a far parte del livello narrativo intradiegetico, come narratore omodiegetico piuttosto che eterodiegetico. Ciò può essere in parte spiegato nel modo più ovvio, tenendo presente che la vicenda biografica della madre viene ricostruita anche sulla base dei ricordi del figlio, ricordi che risulteranno tanto più puntuali e coerenti quanto più sviluppate saranno state le sue capacità psichiche (percettive, intepretative, mnestiche) nel momento in cui ha potuto prendere parte agli eventi che adesso racconta.

3. La madre: modalità di rappresentazione e sviluppo del personaggio

In tal senso è possibile parlare, in merito alla figura della madre, di un vero e proprio sviluppo che interessa la caratterizzazione del personaggio. A una prima parte in cui predomina una raffigurazione piuttosto impersonale, ne segue una seconda in cui il personaggio assume maggiore concretezza, diventa «fleischlich und lebendig» (53), come afferma il narratore in un passo decisivo su cui ci si soffermerà a breve.

Tale trasformazione risulta perfettamente riassunta in una frase contenuta in quel passo del racconto in cui, per l’appunto, si assiste al passaggio dal primo al secondo tipo di rappresentazione: «Allmählich kein “man” mehr; nur noch “sie”» (49). E difatti, se fino a quel momento il narratore si era servito per lo più di costruzioni impersonali e di uno stile tendenzialmente nominale, entrambi inclini a spersonalizzare la figura della madre per farne il prototipo della donna cresciuta e vissuta in quel determinato contesto sociale, da questo momento in avanti è la madre in quanto «einmalige Hauptperson in einer vielleicht einzigartigen Geschichte» a emergere con prepotenza all’interno del testo. Per usare la celebre definizione di Schiller, cui Handke sembra rifarsi parlando di «heitere Kunstfigur», si potrebbe dire che è la serietà della vita che irrompe nell’arte, turbandone la serenità.

È d’altronde lo stesso narratore a rendere conto di come, poco prima del suicidio, fosse mutata la natura del rapporto che lo legava alla madre. Di quella occasione in cui, un giorno d’estate, gli era capitato di sorprenderla distesa nel letto, l’io-narrante annota:

Wie in einem Zoo lag da die fleischgewordene animalische Verlassenheit. Es war eine Pein zu sehen, wie schamlos sie sich nach außen gestülpt hatte; alles an ihr war verrenkt, zersplittert, offen, entzündet, eine Gedärmeverschlingung. Und sie schaute von weitem zu mir her, mit einem Blick, als sei ich, wie Karl Rossmann für den sonst von allen erniedrigten Heizer in Kafkas Geschichte, ihr geschundenes herz. […] Seit dieser Zeit erst nahm ich meine Mutter richtig wahr. Bis dahin hatte ich sie immer wieder vergessen, empfand höchstens manchmal einen Stich bei dem Gedanken an die Idiotie ihres Lebens. Jetzt drängte sie sich mir leibhaftig auf, sie wurde fleischlich und lebendig, und ihr Zustand war so handgreiflich erfahrbar, daß ich in manchen Augenblicken ganz daran teilnahm. (52-53)

L’identificazione finalmente raggiunta corrisponde nel testo a una maggiore introspezione psicologica da parte del narratore nei confronti del personaggio della madre[57]. Così, se nella prima parte del racconto la formulazione delle motivazioni psicologiche alla base della condotta del personaggio aveva spesso assunto un tono dubitativo («Keine Vergleichsmöglichkeiten zu einer anderen Lebensform: auch keine Bedürftigkeit mehr?»; 18), a suicidio avvenuto, nonostante nell’ultima lettera la madre lo avesse assicurato di addormentarsi finalmente in pace, il narratore può perentoriamente affermare: «Aber ich bin sicher, daß das nicht stimmt» (62).

La madre in effetti, costretta per tutta la vita a coltivare la forma senza badare alla sostanza («“Das Fenster ist die Visitenkarte des Bewohners”»; 42), alla fine del racconto “si spalanca” (54). Non riesce più a calarsi nel ruolo della casalinga, a ripetere giorno dopo giorno lo schema di vita borghese, a conformarsi all’immagine tipizzata che si pretende da lei: «gross, schlank, dunkelhaarig» (30). Non riesce neanche più a tenere per sé ciò che prova realmente, e infatti, come si è visto, comincia a scrivere. Anche in questo caso il racconto si presenta come internamente scisso in due metà distinte: mentre nella prima parte della biografia il narratore aveva spesso inserito singole citazioni che però, valendosi del patrimonio linguistico condiviso, risultavano piuttosto anonime, interscambiabili, non così facilmente attribuibili al personaggio della madre, nella seconda parte ella si conquista un maggiore spazio di espressione grazie alle lettere indirizzate al figlio, lettere di cui questi riporta ampi stralci, restando per lo più fedele, com’è stato dimostrato[58], ai modelli originali.

L’io-narrante perciò utilizza, per esporre la vicenda biografica della madre, tecniche narrative differenti. La prima parte del racconto è caratterizzata da una maggiore distanza del soggetto che scrive rispetto al soggetto descritto e ai fatti che lo coinvolgono più o meno direttamente; l’obiettivo è quello di fare della storia della madre un exemplum, non tanto per la sua straordinarietà, quanto per il motivo opposto, per il fatto di rappresentare il tipo di esistenza eterodiretto di molte donne che avevano vissuto nelle sue stesse condizioni, nello stesso periodo storico. Per questa parte del racconto vale dunque quanto Handke, parafrasando Aristotele, aveva scritto all’inizio di Kaspar: «Das Stück “Kaspar” zeigt nicht wie es wirklich ist oder wirklich war mit Kaspar Hauser. Es zeigt, was möglich ist mit jemandem»[59].

Nella seconda parte il racconto presenta di nuovo quell’impasto di biografia e autobiografia che rende impossibile collocarlo in uno soltanto dei due generi. Non è solo il rapporto fra la madre e il figlio ad acquistare concretezza, ma la madre in quanto personaggio maggiormente individuato. Divenuta ormai accessibile al narratore, ella gli si mostra in tutta la sua creaturalità, non più o non esclusivamente come tipo, ma come «scaturigine biologica»[60], come essere umano che veramente cerca di incidere se stesso nella carta.

Diversi sono i passaggi, oltre a quello sopra citato, in cui a essere centrale è la descrizione del corpo della donna, nella sua sintomatica gestualità, nel suo starsene a letto «schamlos […] nach außen gestülpt», nei preparativi per il suicidio, infine, come salma, nel rigore cadaverico della morte. Si tratta di un corpo marchiato dai sistemi di potere cui ha dovuto soggiacere. Giustamente qualche critico ha fatto riferimento a Foucault per rendere conto della centralità della rappresentazione del corpo nel racconto di Handke[61]. E in effetti, ciò che nella prima parte viene tendenzialmente spiegato (grazie anche a diverse notazioni di carattere storico e sociologico), nella seconda parte viene mostrato direttamente attraverso la raffigurazione del corpo della madre. A informare il testo non è più il sapere del narratore, ma quello che, sempre con le parole di Foucault, può essere definito come un vero e proprio «sapere del corpo»: «Die frühere Lebenslust des ganzen Körpers zeigte sich nur noch manchmal, wenn an der stillen, schweren Hand verstohlen und schamhaft ein Finger zuckte, worauf diese Hand auch sofort von der anderen zugedeckt wurde» (46).

A fronte di tali differenze, la coerenza narrativa del racconto è assicurata da un certo numero di Leitmotive che lo percorrono dal principio alla fine[62]. Essi sembrano peraltro giustificare l’affermazione del narratore, contenuta nelle ultime pagine del racconto, secondo cui «oft habe ich bei der Arbeit an der Geschichte gespürt, daß es den Ereignissen besser entsprechen würde, Musik zu schreiben» (67). Va innanzitutto segnalata la contrapposizione fra moti interiori opposti che caratterizza la psicologia della madre e che la rende, avrebbe detto Forster, un personaggio «tondo»[63]: da una parte la tendenza ad adeguarsi alle norme sociali correnti, dall’altra il tentativo di infrangerle per affermare la propria individualità. Ciò è espresso formalmente già nel titolo Wunschloses Unglück, poi in maniera contrappuntistica dal ricorrere della stessa identica formula all’inizio del testo, una volta riferita al tema dell’adattamento («Es begann also damit, daß meine Mutter vor über fünfzig Jahren im gleichen Ort geboren wurde, in dem sie dann auch gestorben ist»; 14), un’altra a quello relativo al desiderio di ribellione («Es fingt damit an, daß meine Mutter plötzlich Lust zu etwas bekam»; 18). Altre antitesi, del pari riconducibili ai due motivi principali sopra esposti, sono poi da rintracciare nei vari trasferimenti del personaggio fra la Carinzia e Berlino; nella relazione extramatrimoniale col futuro padre del bambino e in quella matrimoniale col patrigno; nella serie di aborti clandestini e gravidanze portate a termine; nella descrizione della vita domestica come opposta a quella pubblica; infine nel suicidio stesso, che si presta a essere letto in parte come paradossale affermazione della propria individualità mediante la soppressione della stessa (il narratore non a caso parla di «freitod» piuttosto che di “Selbstmord”), in parte come débâcle esistenziale definitiva. Il motivo ricorrente del sorriso, la descrizione dell’aspetto della madre per come essa appare nelle fotografie possedute dal figlio, la sua inclinazione a parlare o ammutolire servono poi da cartine di tornasole dello stato psicofisico del personaggio, che risulta così efficacemente descritto attraverso un numero limitato di tratti essenziali.

Infine, pur tenendo conto dell’ambiguità che rende problematica un’interpretazione a senso unico della scena del suicidio, occorre fare menzione della propensione, da parte del narratore, a presentare la storia della madre come ineluttabile e determinata, fin da prima della sua nascita, dal milieu sociale e dal contesto storico di provenienza[64]. Il racconto può essere così letto come il rovescio di un Entwicklungsroman, da cui riprende la tradizionale suddivisione della vita del protagonista in tappe successive, le quali però non corrispondono ad alcuno sviluppo e non conducono alla agognata, in quanto valutata come auspicabile, «integrazione sociale [dell’individuo] in qualità di semplice parte di un tutto»[65]. Vi sono infatti alcune frasi del racconto che corrispondono ad altrettante micro-biografie, all’interno delle quali è contenuta in nuce l’intera vicenda biografica della madre, come testimonia quel passo del testo in cui l’io-narrante enumera «die Stationen eines Kinderspiels, das in der Gegend von den Mädchen viel gespielt wurde: Müde/Matt/Krank/Schwerkrank/Tot» (17).

4. «Una storia compiuta con una fine prevedibile, in un modo o nell’altro consolante»

Il racconto biografico risulta in questo modo caratterizzato da una progressione lineare piuttosto definita, piuttosto telica e quindi anche piuttosto classica, progressione che gli conferisce quella compattezza epica di cui le opere precedenti facevano difetto. Essa è in parte garantita anche dalla natura del testo, definibile, con le parole di Willi Huntemann, «Erzählbericht als memoria mortui»[66], per il fatto che esso ha già iscritta nel principio la sua fine, che la nascita del personaggio, parafrasando Novalis[67], non è altro che l’inizio della sua morte. L’io-narrante si trova quindi tra le mani una storia i cui estremi sono già stabiliti. Si tratta per lui, in sostanza, di riempire lo spazio fra questi due estremi, il che lo costringe a fare ricorso a dispositivi narrativi tradizionali.

Ciò nonostante il narratore non può del tutto voltare le spalle all’autore che era stato fino a quel momento. Di qui, da una prospettiva teorico-letteraria, la necessità di giustificare la «stilistische Integration»[68] posta in essere da questo racconto. Di qui dunque anche la necessità di interrompere la narrazione della storia della madre con quegli intermezzi saggistici presenti un po’ ovunque all’interno del testo, dal momento che la madre, persona concreta e attore prima ancora che attante, non può fungere da mero portavoce dell’autore, da teoria reificata, al pari di Gregor Benedikt e Josef Bloch nei romanzi degli anni precedenti.

Handke, a seguito di una sperimentazione formale che aveva coinvolto ogni genere letterario da lui praticato, si appropria in questo modo di concezioni estetiche che avevano già caratterizzato il modernismo di inizio secolo, tanto che in un punto del libro il narratore riprende quasi alla lettera uno dei passi più famosi del Mann ohne Eigenschaften di Musil: «Deswegen fingiert man die Ordentlichkeit eines üblichen Lebenslaufschemas, indem man schreibt: “Damals – später”, “Weil – obwohl”, “war – wurde – wurde nichts”, und hofft, dadurch der Schreckensseligkeit Herr zu werden. Das ist dann vielleicht das Komische an der Geschichte» (35).

Come risultato si ottiene un testo la cui contraddittorietà coincide con quella che è, secondo Benveniste, la natura di ogni negazione, che per essere tale deve in un primo momento affermare ciò che, in seconda istanza, nega[69]. In questo caso a essere negata è la grammatica del racconto tradizionale, la stessa che viene nondimeno utilizzata per narrare la vicenda biografica della madre[70], sopravvivendo in tal modo alla propria negazione. Ciò dà vita a un realismo critico, che è altra cosa rispetto alla critica del realismo dei romanzi precedenti. Si tratta di un realismo che, passato al vaglio della riflessione metaletteraria, è ormai del tutto consapevole del proprio statuto convenzionale. E cioè a tal punto consapevole, che non spetta più soltanto al teorico darne conto, ma direttamente allo scrittore, che pur vi ricorre. O almeno a quello scrittore imbevuto di teoria che è appunto Peter Handke. In Wunschloses Unglück egli può pertanto recuperare la lezione realista in modo mirato e critico, sfruttandone cioè le potenzialità ma attento a non travalicarne i limiti e a non cadere in quella «fallacia referenziale» che Eco andava teorizzando negli stessi anni[71], responsabile della confusione fra realtà e realismo esemplificata, in parte, dalle esperienze di lettura della madre.

Una simile inclinazione a fare della elaborazione teorica un momento della prassi letteraria non costituisce d’altra parte una novità assoluta per l’autore. Già in Der Hausierer, come accennato, Handke aveva scomposto il meccanismo della storia gialla per mostrarne il funzionamento. Ogni capitolo del libro si apre infatti con un breve preambolo in cui viene esposta la struttura stereotipica di quella porzione della storia contenuta nel capitolo in questione. Ma è poi evidente come quella struttura, una volta terminata la lettura del capitolo, risulti buona per qualsiasi altro giallo a eccezione di quello scritto dall’autore, che da essa parte, senza tuttavia applicarla alla vicenda che racconta.

Simile e tuttavia differente è l’operazione compiuta da Handke in Wunsch­loses Unglück. Se infatti anche in questo caso l’autore mostra di conoscere bene le regole del gioco, se addirittura assume una posizione critica nei confronti di quelle regole, nondimeno le applica per raccontare la storia della madre. Qui dunque Handke non arriva a scardinare un genere dal suo interno, come in Der Hausierer, e pure nel Tormann. Il vincolo referenziale glielo impedisce e anzi lo costringe a ricorrere a un registro, quello del realismo (auto)biografico, che aveva fino a quel momento rigettato. Ma lo fa, come si è visto, non oltre lo stretto necessario. E infatti il narratore, dopo aver terminato di raccontare la biografia della madre, al racconto quella conclusione che l’autore delle prose precedenti avrebbe maggiormente apprezzato: una conclusione che, per la sua natura frammentaria, può finalmente spezzare gli angusti vincoli imposti dall’unità di azione, dal rispetto che si deve a spazi e tempi non alterabili secondo l’arbitrio della propria fantasia creatrice.

La parte finale significa, per l’autore, l’effettivo fallimento della sua impresa, comunque destinata a fallire per principio, giacché è impossibile rendere a parole la complessità della vita. Come sottolineano Robert Halsall e Philipp Weiss[72], Handke è in questo senso molto vicino al Derrida teorico della différence. La frase con cui si chiude il racconto, «später werde ich über das alles Genaueres schreiben», indica l’impossibilità del linguaggio di aderire alla realtà e il conseguente differimento del senso in una catena di significanti (l’espressione stavolta è di Lacan[73]) potenzialmente senza fine. Al figlio non resta dunque che approssimarsi alla figura materna, a ciò che è stata e che ha significato per lui attraverso un ricordare che è però nuovamente di natura linguistica[74], così da superare la «Sprachlosigkeit» che lo colpisce dopo il suicidio della madre, l’horror vacui nella coscienza (68), la «Todes­angst, wenn man in der Nacht aufwacht, und das Licht im Flur brennt» (67).

Ma la sconfitta di uno coincide pur sempre con il successo di qualcun altro. Laddove dunque l’autore fallisce, il narratore plasma «eine beschwingte und in sich schwingende, mehr und mehr heitere Kunstfigur». E mentre afferma di voler scrivere «keine runde Geschichte mit einem zu erwartenden, so oder so tröstlichen Ende» (35), in realtà è proprio una storia di questo genere che scrive; al punto che, una volta ricevuta la notizia del suicidio della madre, non può esimersi da pensare: «das war es. das war es. das war es. sehr gut. sehr gut. sehr gut» (62).

Determinato a dare un senso a una vita che considera «idiota», il narratore cala di fatto il proprio personaggio in un mythos, ristabilendo quei nessi di causa ed effetto indispensabili alla creazione di un senso, foss’anche uno dei tanti possibili. E se proprio questo è forse – per riprendere la citazione precedente – il lato comico della storia, esso è d’altra parte anche il suo lato più serio. La storia di Gregor Benedikt e Josef Bloch, personaggi di finzione, poteva anche apparire assurda o insensata: nessuno ne avrebbe sofferto, se non forse quel certo lettore particolarmente empatico, particolarmente sensibile e magari anche particolarmente ingenuo, secondo il punto di vista dell’autore. Ma la storia della madre, morta suicida a 51 anni, non può apparire insensata: essa brucia nelle carni dello stesso scrittore, non più così disposto come un tempo a intendere ogni nuova opera alla stregua di un gioco linguistico.

Si tratta di uno scrittore costretto a superare le proprie resistenze, in parte rinunciando al rigore teorico che aveva caratterizzato i primi testi. Ma non ad abbandonarlo. Resta infatti la convinzione che ogni rapporto con il mondo sia inevitabilmente mediato dal linguaggio, e che tale mediazione comporti delle conseguenze che dipendono dalla natura del linguaggio stesso, uno strumento nient’affatto neutro, né tantomeno innocuo. Resta la convinzione che con le parole si possano compiere delle azioni ben precise, che parlare significhi già agire, e che spesso, parlando, si agisca a danno dell’altro. La possibilità di ritagliarsi uno spazio d’espressione personale, parlando la propria lingua anziché venire parlati dalla lingua dell’altro, non viene di certo negata; come esemplifica l’esperienza della madre, la letteratura, sempre che non la si scopra quando ormai è troppo tardi, può offrire proprio questo tipo di spazio. Ma si tratta di uno spazio che può essere conquistato, soltanto una volta ottenuta la consapevolezza di quale sia la vera natura del linguaggio, dell’effetto che può avere sugli altri, del modo in cui si è soliti servirsi di certe convenzioni per esprimersi, e di come queste convenzioni contrastino, reprimendolo, con il linguaggio privato di cui ciascuno dispone, anche qualora non si chiami Kaspar Hauser.

Con Wunschloses Unglück Handke non ha voluto rinunciare a raccontare una storia per i pericoli che il raccontare avrebbe comportato. Ha preferito raccontarla, al contempo riferendo di quei pericoli che lui stesso, o chi per lui, stava correndo. Con ciò ha scritto un racconto particolarmente interessante anche per il valore esemplare che gli può essere attribuito da un’angolatura teorico-letteraria, o più semplicemente storico-letteraria. Da un lato il tipo di personaggio «tondo» che è la madre sembra infatti offrire quella prospettiva di senso che nei testi precedenti veniva sacrificata, allo scopo di palesare la natura linguistica di ogni rappresentazione. Proprio questo diffuso bisogno di senso potrebbe in parte spiegare il fenomeno di “realismo di ritorno” (un realismo spesso e volentieri senza critica) cui si è assistito negli ultimi decenni: come a dire che le finezze della teoria debbono sempre fare i conti con le esigenze affatto diverse della vita.

D’altro canto la particolare resa letteraria del personaggio della madre mostra anche, e magari con forza maggiore, come le esigenze della vita non siano obbligatoriamente incompatibili con le finezze della teoria: come a dire che, in ogni caso, non si può che narrare attraverso il linguaggio e secondo le sue regole. Si tratta di una lezione oggi spesso fraintesa o del tutto ignorata, ma di tale importanza da proiettare il racconto oltre il tempo e le circostanze che lo hanno generato.

 

 

Bibliografia

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Sitografia

Intervento di Peter Handke alla seduta del Gruppo 47 a Princeton, aprile 1966: https://german.princeton.edu/department/about/resources/gruppe-47-recordings.

Tobias Klauk – Tilmann Köppe, Telling vs. Showing, in “the living handbook of narratology”: http://www.lhn.uni-hamburg.de/article/telling-vs-showing.



[1] Cfr. per es. Silke Horstkotte, Leonhard Herrmann (Hg.), Poetiken der Gegenwart. Deutschsprachige Romane nach 2000, de Gruyter, Berlin/Boston 2013; Brigitta Krumrey, Ingo Vogler, Katharina Derlin (Hg.), Realitätseffekte in der deutschsprachigen Gegenwartsliteratur. Schreibweisen nach der Postmoderne?, Universitätsverlag Winter, Heidelberg 2014; Søren R. Fauth, Rolf Parr (Hg.), Neue Realismen in der Gegenwartsliteratur, Wilhelm Fink, Paderborn 2015; Albert Meier, Postmoderne: Philosophie – Literatur, Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, Kiel 2017. La tendenza interessa anche la filosofia. È stato infatti proprio un filosofo, Maurizio Ferraris, a proporre la definizione di «Nuovo Realismo», presto diffusasi anche in Germania grazie al fondamentale contributo di Markus Gabriel (cfr. Markus Gabriel (Hg.), Der Neue Realismus, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2014).

[2] Cfr. Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 359-364.

[3] Si pensi, per citare alcuni esempi, a Ricœur (Temps et récit, 1983; Soi-même comme un autre, 1990), Phelan (Reading People, Reading Plots, 1989), Pavel (Fictional Worlds, 2003), Woloch (The One vs. the Many, 2003), in Italia, Stara (L’avventura del personaggio, 2004) e Testa (Eroi e figuranti, 2009).

[4] Nel modello semiotico proposto da Greimas e Courtés nel 1979, l’attante sostituisce la vecchia nozione di personaggio. Considerato alla stregua di puro effetto linguistico, viene paragonato a «un tipo di unità sintattica, di carattere squisitamente formale, priva di ogni investimento semantico e/o ideologico» (Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 17).

[5] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, Einaudi, Torino 2014, p. 455.

[6] Lo dimostra non da ultimo la produzione successiva di Handke, come anche quella a noi contemporanea.

[7] Gli interventi di Handke e degli altri conferenzieri possono essere ascoltati qui: LINK.

[8] Cfr. Wendelin Schmidt-Dengler, Bruchlinien, Residenz Verlag, Salzburg 1995, pp. 195 ss.

[9] Cfr. Wilfried Barner (Hg.), Geschichte der deutschen Literatur von 1945 bis zur Gegenwart, C. H. Beck, München 2006, p. 627.

[10] Per una veloce ricognizione sul tema v. Rainer Nägele / Renate Voris, Peter Handke, C. H. Beck, München 1978, pp. 14-21.

[11] Peter Handke, Zur Tagung der Gruppe 47 in USA, in Ich bin ein Bewohner des Elfenbeinturms, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2016, pp. 29-34.

[12] Peter Handke, Die Hornissen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, p. 74.

[13] Ivi, p. 244.

[14] Cfr. Wendelin Scmidt-Dengler, Bruchlinien, Residenz Verlag, Salzburg 1995, pp. 200 ss.

[15] Elemento che ha favorito il paragone tra il testo di Handke e L’étranger (1942) di Camus, nonché le successive dichiarazioni di Handke in difesa dell’originalità della sua opera (cfr. Russel E. Brown, Peter Handke’s Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, in «Modern Language Studies», Vol. 16, No. 3, Summer 1986, p. 288; Manfred Mixner, Peter Handke, Athenäum, Kronberg 1977, pp. 128-129).

[16] Per es. nel seguente passo: «Zurück im Ort; zurück im Gasthof; zurück im Zimmer. Ganze neun Wörter, dachte Bloch erleichtert» (Peter Handke, Die Angst des Totmanns beim Elfmeter, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, p. 70).

[17] O «ipercasualismo», come lo definisce Arrigo Stara nel suo studio dedicato al personaggio letterario (cfr. Arrigo Stara, L’avventura del personaggio, Le Monnier, Firenze 2004, pp. 114-116). Nel Tormann sono molte le situazioni in cui tale rapporto viene negato, o quantomeno problematizzato. Un solo brevissimo esempio: «War es möglich, daß sich niemand in dem Raum befand, obwohl das Fenster weit geöffnet war? Warum “obwohl?”» (Peter Handke, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, p. 36).

[18] In un’intervista del 1968, Handke aveva indicato come lettura preferita di quell’anno Die beginnende Schizophrenie del neurologo e psichiatra tedesco Klaus Conrad (cfr. Manfred Mixner, Peter Handke, Athenäum, Kronberg 1977, p. 124). L’autore citerà di nuovo questo lavoro come fonte di ispirazione del romanzo pubblicato nel 1970, tenendo però a precisare che la storia di Bloch non rappresenta una resa letteraria della psicosi, bensì la storia di un «eroe normale», cioè di un soggetto non patologico (cit. in Rolf Günter Renner, Peter Handke, J.B. Metzler, Stuttgart 1985, p. 14). Per un confronto fra le tesi di Conrad e il romanzo si rimanda alla già citata analisi di Mixner. Sul tema della schizofrenia si concentrano anche le più recenti riflessioni di Sebald (W. G. Sebald, Unterm Spiegel des Wassers – Peter Handkes Erzählung von der Angst des Tormanns, in Die Beschreibung des Unglücks. Zur österreichischen Literatur von Stifter bis Handke, Fischer, Frankfurt am Main 2012, pp. 115-130).

[19] Peter Handke, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, p. 33.

[20] Ivi, p. 105.

[21] Peirce definisce simboli tutti quei segni che intrattengono con il proprio referente un rapporto di natura convenzionale, dunque arbitrario; nelle icone (per es. fotografie o disegni) si ha invece un rapporto di somiglianza fondato su intrinseche proprietà comuni (cfr. Maurizio De Ioanna, Elementi di semiotica, Ellissi, Napoli 2002, pp. 71-72).

[22] I termini si riferiscono al titolo della raccolta di poesie Die Innenwelt der Außenwelt der Innenwelt (1965).

[23] Peter Handke, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972.

[24] Per la distinzione fra telling e showing v. la pagina online del «living handbook of narratology» a cura di Tobias Klauk e Tilmann Köppe (LINK).

[25] Peter Handke, Die Hornissen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, pp. 246-247.

[26] Peter Handke, Zur Tagung der Gruppe 47 in USA, in Ich bin ein Bewohner des Elfenbeinturms, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2016, p. 30. Per una trattazione approfondita della tematica relativa al rapporto tra linguaggio e letteratura si rinvia a Gunther Sergooris, Peter Handke und die Sprache, Bouvier, Bonn 1979, pp. 4-18.

[27] Ivi, p. 32.

[28] Sempre in Die Hornissen Handke aveva utilizzato, oltre all’immagine del ghiaccio su cui si conclude la narrazione, la già più volte menzionata metafora del vetro, tuttavia per indicare l’impossibilità di osservare la realtà esterna se non guardando attraverso (e oltre) l’immagine del proprio volto debolmente riflesso (cfr. Hans Höller, Kommentar, in Peter Handke, Wunschloses Unglück, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2003, p. 83).

[29] Peter Handke, Die Literatur ist romantisch, in Ich bin ein Bewohner des Elfenbeimturms, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2016, pp. 35-50.

[30] Su Walser e Handke cfr. Wilfried Barner, op. cit., pp. 584-585; in merito a Reich-Rancicki cfr. Marcel Reich-Ranicki, Die Angst des Peter Handke beim Erzählen, in «Die Zeit», 37, 1972; Peter Handke, Marcel Reich-Ranicki und die Natürlichkeit, in Ich bin ein Bewohner des Elfenbeinturms, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2016, pp. 203-207.

[31] Semplificando, Barthes definisce leggibili quei testi di facile consumo, che si inseriscono in una tradizione già consolidata; scrivibili quelli invece sovversivi, sperimentali, che hanno sul lettore un effetto straniante. La fruibilità dei secondi sarà dunque assai minore rispetto a quella dei primi (cfr. Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, pp. 40/232).

[32] Cfr. Manfred Durzak, Peter Handke und die deutsche Gegenwartsliteratur. Narziß auf Abwegen, Kohlhammer, Stuttgart 1982, p. 118.

[33] Rispetto al necrologio, Handke abbrevia i nomi dei luoghi e cambia quello relativo alla rubrica della «Volkszeitung Kärnten-Osttirol» su cui era apparsa la notizia: non più «Aktuelles kurz gemeldet» ma «Vermischtes» (cfr. Peter Handke, Wunschloses Unglück, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2003, p. 109. Tutte le indicazioni di pagina fanno riferimento a questa edizione). Ciò fa parte di una strategia retorica che intende evidenziare il processo di disumanizzazione della madre dopo la morte, di cui il giornale si rende inavvertitamente complice e a cui il narratore contrappone la propria versione della storia.

[34] Sul tema cfr. Regina Kreyenberg – Gudrun Lipjes-Türr, Peter Handke, Wunschloses Unglück, in Herbert Kaiser – Gerhard Kopf (Hg.), Erzählen, Erinnern. Deutsche Prosa der Gegenwart. Interpretationen, Diesterweg, Frankfurt am Main 1992, p. 134.

[35] Cfr. ivi, p. 136.

[36] Il fatto che l’io-narrante parli esplicitamente delle difficoltà che gli impediscono di raccontare ciò che è realmente accaduto non invalida infatti la sua pretesa di autenticità, bensì la ratifica. Sono dunque pienamente condivisibili le osservazioni di Basseler e Birke riguardo l’appropriatezza di utilizzare il concetto di unreliable narrator, soprattutto in merito a quei testi che, al pari di Wunschloses Unglück, si articolano mettendo in scena una «mimesi del ricordo». Cfr. Michael Basseler – Dorothee Birke, Mimesis des Erinners, in Astrid Erll – Ansgar Nünning (Hg.), Gedächtniskonzepte der Literaturwissenschaft. Theoretische Grundlegung und Anwendungsperspektiven, de Gruyter, Berlin 2005, pp. 140-141.

[37] Birgit Neuman, sulla scorta di Ricœr, individua una delle principali funzioni delle narrazioni basate sul ricordo nella «Kontingenzreduktion» che esse offrono a chi se ne serve per rielaborare eventi passati (cfr. Birgit Neuman, Literatur, Erinnerung, Identität, in Astrid Erll – Ansgar Nünning (Hg.), Gedächtniskonzepte der Literaturwissenschaft. Theoretische Grundlegung und Anwendungsperspektiven, de Gruyter, Berlin 2005, pp. 149-178).

[38] La scelta dell’aggettivo non è casuale (l’io-narrante lo utilizza due volte, qui e all’inizio del racconto; 13). Rimanda infatti a quella categoria estetica che, assieme al «pathos della vicinanza», secondo Mazzoni ha agevolato lo sviluppo del romanzo moderno (cfr. Guido Mazzoni, op. cit., pp. 169-174).

[39] Si potrebbe anche dire, con le parole di Edward Morgan Forster, lo scomparire (evidentemente non del tutto) indolore di homo sapiens in homo fictus. Cfr. il capitolo Persone in Edward Morgan Forster, Aspetti del romanzo, Garzanti, Milano 2011, pp. 55-73.

[40] Pare utile far notare che nella medesima contraddizione, prima che l’io-narrante, era caduto lo stesso Handke. Al testo, che in una prima stesura recava il titolo polemicamente anti-kantiano Interesseloses Entsetzen, era stato inizialmente imposto come sottotitolo l’indicazione di genere Erzählung. Handke poi la modificò in Eine Biographie, per tornare infine sui suoi passi e ristabilire la forma originaria.

[41] Un esempio di tale procedimento lo si trova in quel passo del racconto (44) in cui il narratore, enumerando diversi utensili dell’ambiente domestico, li definisce per mezzo di un’aggettivazione che nasconde la miseria della situazione reale mediante una raffigurazione falsamente idilliaca. Qui l’io-narrante intende demistificare i toni e il linguaggio, per l’appunto convenzionali, della tradizione degli Heimatromane.

[42] È un merito di Jakob Norberg l’avere dimostrato come il principio dello «Haushalten», oltre a governare le vite del nonno materno del narratore prima, della madre poi, stia alla base della narrazione racconto. Cfr. Jakob Norberg, «Haushalten»: the Economy of the Phrase in Peter Handke’s Wunschloses Unglück, in «The German Quarterly», Sep. 22, 2008.

[43] Linguaggio inteso, secondo la definizione che ne hanno dato i semiologi russi Jurij Lotman e Boris Uspenskij, come «sistema modellizzante primario», ossia come «fondamento e motore della costituzione di tutti gli altri sistemi componenti la struttura sociale e culturale (arti, scienze, politica, norme di convivenza, ecc.), che diventano di conseguenza per gli individui sistemi modellizzanti secondari». Cfr. Andrea Bernardelli, La narrazione, Laterza, Bari 1999, pp. 42-43.

[44] Così Barthes nel 1977, in occasione della sua Lezione inaugurale al Collège de France: «Il linguaggio è una legislazione, e la lingua ne è il codice. Noi non scorgiamo il potere che è insito nella lingua, perché dimentichiamo che ogni lingua è una sopraffazione e che ogni classificazione è oppressiva. […] Parlare, e a maggior ragione discorrere, non è, come troppo spesso si ripete, comunicare: è sottomettere» (cit. in Antoine Compagnon, op. cit., p. 133).

[45] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2015, p. 79.

[46] Cit. in Victor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 32.

[47] Come fa notare Zorach, non pare essere un caso, in questo senso, che tutti gli autori citati dall’io-narrante siano stranieri (cfr. Cecile Cazort Zorach, Freedom and Remembrance: The Language of Biography in Peter Handke’s Wunschloses Unglück, in «The German Quarterly», Vol. 52, No. 4, Nov. 1979, pp. 492-493).

[48] È ciò che Handke sostiene in vari scritti, per es. nel già citato Marcel Reich-Ranicki und die Natürlichkeit (p. 204). A proposito dell’utilizzo dei due termini mutuati rispettivamente dal «primo» e dal «secondo» Wittgenstein (Sachverhalt e Sprachspiele), esso risulta giustificato qualora si prenda per buona l’ipotesi di Schmidt-Dengler secondo cui l’evoluzione della poetica di Handke corrisponderebbe, in parte, a quella del pensiero filosofico del suo connazionale (cfr. Wendelin Schmidt-Dengler, «Wittgenstein, komm wieder!». Zur Wittgenstein-Rezeption bei Peter Handke, in Wendelin Schmidt-Dengler (Hg.), Wittgenstein und. Philosophie-Literatur, Edition S, Wien 1990, pp. 181-191).

[49] Il narratore li definisce utilizzando un termine che, intendendo descrivere nel modo più stringato possibile le condizioni di arretratezza della regione d’origine della madre, fa al contempo implicitamente riferimento a una fase ben precisa della storia della letteratura occidentale: «19. Jahrhundert» (41). L’espressione assume perciò due significati distinti: se riferita alla biografia della madre, indica come la regione della Carinzia sia stata esclusa da tutte quelle forme di progresso che, a partire dalla fine del secolo, hanno cambiato per sempre il volto dell’Europa; se riferita all’aspetto formale del racconto, indica invece che il narratore, volendo rappresentare una vicenda per lo più ambientata in uno scenario di questo tipo, ha dovuto adottare il registro letterario che a quel secolo ha impresso il suo marchio indelebile.

[50] Cfr. Ralph Gehrke, Literarische Spurensuche. Elternbilder im Schatten der NS-Vergangenheit, Westdeutscher Verlag, Opladen 1992, pp. 44-49. In merito al racconto vedi anche la voce Autobiography a cura di Barbara Kosta nella Encyclopedia of German Literature (Barbara Kosta, Autobiography, in Matthias Konzett (ed.), Encyclopedia of German Literature, Routledge, London 2000).

[51] Per uno studio del genere biografico si rimanda a Christian Klein (Hg.), Grundlagen der Biographik. Theorie und Praxis des biographischen Schreibens, J.B. Metzler, Stuttgart 2002. Cfr. soprattutto l’introduzione, pp. 1-22.

[52] Sul rapporto fra letteratura, ricordo e identità v. Birgit Neumann, Literatur, Erinnerung, Identität, in Astrid Erll – Ansgar Nünning (Hg.), Gedächtniskonzepte der Literaturwissenschaft. Theoretische Grundlegung und Anwendungsperspektiven, de Gruyter, Berlin 2005, pp. 149-178.

[53] Si segnalano, in modo particolare, gli studi di Wolfram Mauser (Wolfram Mauser, Peter Handke: «Wunschloses Unglück» – erwünschtes Unglück?, in «Der Deutschunterricht», 34, 1982, pp. 73-89) e Giuseppe Dolei (Giuseppe Dolei, Tra la torre d’avorio e il mondo della pubblicità. Gli esordi della malinconia handkiana, in «Studia austriaca», vol. II, 1993, pp. 9-28). Sullo stesso tema vedi anche le brevi considerazioni di Robert Halsall (Robert Halsall, Place, Autonomy and the Individual: Short Letter, Long Farewell, and A Sorrow Beyond Dreams, in David N. Coury – Frank Pilipp (ed.), The Works of Peter Handke: Internetional Perspectives, Ariadne Press, Riverside 2005, pp. 75-76).

[54] Cfr. Regina Kreyenberg – Gudrun Lipjes-Türr, op. cit., pp. 138-147, dove però viene mantenuta la distinzione fra la figura dell’autore e quella dell’io-narrante. Sul senso e l’appropriatezza di una tale distinzione cfr. Rainer Nägele, Peter Handkes «Wunschloses Unglück», in Paul Michael Lützeler (Hg.), Deutsche Romane des 20. Jahrhunderts. Neue Interpretationen, Athenäum, Königstein 1983, pp. 388-402.

[55] Così Höller nel suo commento al racconto: «Von der Geschichte des Sohnes ist in Wunschloses Unglück tatsächlich kaum die Rede. Und dennoch kann man indirekt an der Geschichte der Mutter ablesen, von wo der Author-Erzähler herkam und wie er wurde, was er ist» (Hans Höller, op. cit., p. 81). Lo stesso Handke, fin dai tempi di Ich bin ein Bewohner des Elfenbeimturms, ha d’altronde incoraggiato questo tipo di lettura delle sue opere. Famosa è la dichiarazione programmatica, contenuta nel saggio, in cui afferma di non avere alcun tema specifico su cui scrivere a eccezione di se stesso, al fine di conoscersi (cfr. Peter Handke, Ich bin ein Bewohner des Elfenbeimturms, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2016, p. 26). Qualche anno più tardi, in un’intervista rilasciata a Herbert Gamper, a proposito di Wunschloses Unglück avrebbe invece affermato che nessuno, fino a quel momento, aveva fatto caso a un particolare del racconto così evidente, che quella narrata nel libro non fosse cioè la storia della madre, ma la propria; che altrimenti non avrebbe potuto scrivere affatto e che di sua madre non sapeva proprio niente, che si era semplicemente servito del suo istinto e delle sue intuizioni (cfr. in Hans Höller, op. cit., p. 83).

[56] Cfr. Michael Basseler – Dorothee Birke, op. cit., p. 134.

[57] Anche nel Tormann, come si è visto, il narratore assume più volte il punto di vista del protagonista, ma con una partecipazione emotiva, con una sensibilità per l’aspetto creaturale affatto differenti, come dimostra il confronto fra la scena appena riportata e una molto simile nel romanzo precedente, in cui viene narrato un improvviso risveglio di Bloch: «Wehrlos, abwehrunfähig, lag er da; ekelhaft das Innere nach außen gestülpt; nicht fremd, nur widerlich anders. Es war ein Ruck gewesen, und mit einem Ruck war er unnatürlich geworden, war er aus dem Zusammenhang gerissen worden. Er lag da, unmöglich, so wirklich. Sein Bewußtsein von sich selber war so stark, daß er Todesangst hatte. Er schwitzte. Eine Münze fiel zu Boden und rollte unter das Bett; er horchte auf: ein Vergleich? Dann war er eingeschlafen» (Peter Handke, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972, p. 70-71).

[58] Cfr. Hans Höller, op. cit., p. 127.

[59] Peter Handke, Kaspar, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2017, p. 7.

[60] Giorgio Cusatelli, Nota, in Peter Handke, Infelicità senza desideri, Garzanti, Milano 2009, pp. 82-83.

[61] Per Foucault il corpo è «direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni» (Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, p. 29). In merito a Wunschloses Unglück cfr. Philipp Weiss, Die Grenzen des biographischen Körpers – Peter Handkes Wunschloses Unglück, in Wilhelm Hemecker (Hg.), Die Biographie – Beiträge zu ihrer Geschichte, de Gruyter, Berlin 2009, pp. 317-318. Sul tema del corpo v. anche Chloe E. M. Paver, «Die verkörperte Scham»: The Body in Handke’s Wunschloses Unglück, in «The Modern Language Review», Vol. 94, No. 2, Apr. 1999, pp. 460-475.

[62] Cfr. G. M. Stoffel, Antithesen in Peter Handkes Erzählung Wunschloses Unglück, in «Colloquia Germanica», Vol. 18, No. 1, 1985, pp. 40-54.

[63] Cfr. Edward Morgan Forster, op. cit., pp. 76-86.

[64] L’ipercasualismo del racconto risulta esplicito fin dalle prime considerazioni del narratore sul personaggio della madre: «Als Frau in diese Umstände geboren zu werden, ist von vornherein schon tödlich gewesen» (16). Il fatto stesso che il narratore si sforzi di ricostruire la situazione in cui la donna è nata e ha vissuto, per poi mostrare come essa si riveli per lei nefasta, avvicina ulteriormente il testo alla tradizione del realismo (cfr. Andrea Bernardelli, op. cit., pp. 109 ss.).

[65] Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999, p. 18.

[66] Huntemann se ne serve per descrivere la situazione narrativa di alcune opere di Thomas Bernhard che presentano una struttura simile al testo handkiano. Cfr. Willi Huntemann, Artistik & Rollenspiel. Das System Thomas Bernhard, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990, pp. 65-66.

[67] Si fa riferimento al noto aforisma (14) di Novalis contenuto in Blutenstaub (1798): «Leben ist der Anfang des Todes. Das Leben ist um des Todes willen. Der Tod ist Endigung und Anfang zugleich, Scheidung und nähere Selbstverbindung zugleich. Durch den Tod wird die Reduktion vollendet» (Novalis, Polline, in August Wilhelm Schlegel – Fried­rich Schlegel, Athenaeum 1798-1800, Bompiani, Milano 2009, p. 51).

[68] Cfr. William H. Rey, Provokation durch den Tod. Peter Handkes Erzählung «Wunschloses Unglück» als Modell stilistischer Integration, in «German Studies Review», Vol.1, 3, Oct. 1978, pp. 285-301.

[69] Cfr. Jean-François Lyotard, Discorso, figura, Mimesis, Milano 2008, p. 167. Esprime un parere simile David H. Miles nel suo articolo sui vari tipi di realismo che hanno caratterizzato la tradizione letteraria di lingua tedesca. Cfr. David H. Miles, Reality and the Two Realisms: Mimesis in Auerbach, Lukács, and Handke, in «Monatshefte», Vol. 71, No. 4, Winter 1979, pp. 371-378.

[70] Perciò vi è chi ha visto nel testo una critica al genere biografico. Cfr. Petra Perry, Peter Handke Wunschloses Unglück als Kritik der Biographie: Geschichte und Geschichten, in «Orbis Litterarum», 39, 1984, pp. 160-168.

[71] Il riferimento è al famoso Trattato di semiotica generale del 1975.

[72] Cfr. Robert Halsall, op. cit., pp. 78-79; Philipp Weiss, op. cit., pp. 333-335.

[73] Cfr. Alex Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad, Giulianova 2011, pp. 94-95.

[74] Il legame tra ricordo e linguaggio è materia di una delle ultime annotazioni del narratore: «Das Schreiben war nicht, wie ich am Anfang noch glaubte, eine Erinnerung an eine abgeschlossene Periode meines Lebens, sondern nur ein ständiges Gehabe von Erinnerung in der Form von Sätzen, die ein Abstandnehmen bloß behaupteten» (65). Che si tratti di un legame ambiguo lo dimostra la frase, di poco successiva, ma di significato opposto: «Natürlich ist das Beschreiben ein bloßer Erinnerungsvorgang».