Giuliano Lozzi

(Roma)

Dalle Baccanti all’Ibiza-Gate
«Schwarzwasser» di Elfriede Jelinek

[From the Bacchae to the Ibiza-Gate
Elfriede Jelinek’s «Schwarzwasser»
]

abstract. Taking studies on deconstruction, performance theories, and pragmatics as my point of departure, I investigate Elfriede Jelinek’s last political play Schwarzwasser (2020), where the so-called Ibiza-gate – which in 2018 involved the former Vice Chancellor of Austria – is represented. In her interpretation, Jelinek refers to René Girard’s Violence and the Sacred and Euripides’ Bacchae in an intertextual dialogue. This contribution aims to show how and why Jelinek recalls and employs The Bacchae in her play and to establish a connection between the political function of Greek theatre and Jelinek’s view of Austrian populism.

Nel 2008 Elfriede Jelinek pubblica per il «Magazin der Bayerischen Staatsoper» Schamlos: die Zeit[1], un articolo nel quale attacca esplicitamente Johann Gudenus, rampollo del partito dell’ultradestra austriaca (FPÖ – Freiheitliche Partei Österreichs) che, all’epoca, occupava un posto di consigliere nel comune di Vienna. È lui, scriveva Jelinek più di dieci anni fa, ad incarnare i principi di una destra populista “svergognata”, che la scrittrice critica con lucidità e toni d’invettiva. In questo articolo si disegna già, con precisione e consapevolezza, il prototipo dell’uomo di quelle “nuove” destre che, com’è noto, avrebbero dominato lo scenario politico europeo: irriverente, nostalgico di un paese purificato dagli stranieri, orgoglioso di mostrare i muscoli e di essere coerentemente sempre uguale a se stesso. Quasi dieci anni dopo, nel 2017, lo stesso Johann Gudenus, divenuto nel frattempo esponente di spicco della destra populista, è il protagonista, assieme al vicecancelliere Heinz-Christian Strache, del cosiddetto Ibizia-Affäre, uno scandalo che ha costretto i due rappresentanti politici a dimettersi e a costringere Sebastian Kurz a far cadere la coalizione di governo. Ai due politici, infatti, fu tesa una trappola da parte di una presunta ereditiera russa vicina a Vladimir Putin, Aljona Makarova, che, fingendosi nipote di un potente oligarca suo connazionale, si presentò nella villa di Strache ad Ibiza e si dichiarò interessata ad appoggiare il partito dell’ultradestra austriaca: promise lauti finanziamenti per la campagna elettorale e soprattutto per l’acquisto di una testata giornalistica di cruciale importanza come la «Kronen-Zeitung». La conversazione, che si tenne in una villa dell’isola tra bottiglie di vodka, red-bull e sigarette, moderata da Gudenus che conosce il russo, fu ripresa da una telecamera nascosta. Il video di quella serata, reso poi pubblico dallo «Spiegel» e dalla «Süddeutsche Zeitung», fu un vero caso giornalistico, fece il giro del mondo e scatenò la più grande crisi politica austriaca dal secondo dopoguerra[2]. Il protagonista dell’ultima opera teatrale di Jelinek, intitolata Schwarzwasser[3]– letteralmente acque nere, è proprio quel video.

Nel febbraio del 2020, pochi giorni prima dello scoppio della pandemia di Covid 2019, al Burgtheater di Vienna è andata in scena la prima di Schwarzwasser per la regia di Robert Borgmann e Sabrina Zwach[4]. Nel testo, definito «ein furioser, ausufernder, vielstimmiger, auch redundanter Text ohne fest zugeschriebene Rollen»[5], Jelinek, come di consueto, non cita i nomi delle persone coinvolte ma, nel rileggere i fatti di Ibiza, si avvale, come indica alla fine del testo, di due opere di riferimento: Baccanti di Euripide[6] e «un po’» di René Girard[7]. Numerosi sono i rimandi intertestuali che Jelinek propone nella complessa trama testuale di Schwarzwasser, intertestualità che è fondamento della sua letteratura: il testo jelinekiano è, infatti, il risultato di un processo di montaggio, di una costruzione di collegamenti e di citazioni dirette e indirette che da una parte puntano alla messa in discussione della tradizionale centralità e del “mito” dell’autorialità[8] e dall’altra testimoniano un rapporto sempre nuovo, sempre mutevole, sempre in evoluzione con il linguaggio.

Sul teatro post-drammatico di Elfriede Jelinek, sulla sua attitudine alla sperimentazione e alla decostruzione, sui suoi virtuosismi linguistici, è stato scritto molto e la ricerca sulla sua opera è, anche in Italia, autorevole e in continua crescita[9]. Dato che è stata Jelinek stessa ad affermare di «non volere un teatro, ma di volere un altro teatro» («Ich will kein Theater, ich will ein anderes Theater»[10]), è lecito asserire che il suo concetto drammaturgico si fondi su una sperimentazione continua e permanente, sia finalizzato ad una restituzione insieme speculare e deformante del reale e proponga una scena spesso cruda e crudele mista ad un sapiente uso dell’ironia. «Nel senso di un teatro postdrammatico», scrive Lucia Perrone Capano, «i testi di Jelinek, a partire dagli anni ’90, rifiutano sempre più una drammaturgia basata sull’unità di corpo e voce, sullo sviluppo dell’azione drammatica e sul dialogo»[11].

Il processo di decostruzione del teatro – che in Jelinek corre parallelo a quello del mito e che include un profondo lavoro di “ri-significazione” – si serve dei meccanismi di quello stesso teatro che vuole mettere in crisi, dei suoi strumenti, dei suoi luoghi e dei suoi mezzi[12]. In questa visione di un teatro che «rinuncia alla trama, all’azione e alla narrazione»[13], non viene mai meno il lavoro che coinvolge i diversi piani del linguaggio (fonologico, semantico, retorico, pragmatico), il quale ricopre un ruolo talmente centrale da divenire l’assoluto protagonista della scena: «a esibirsi», scriveva Luigi Reitani nella sua indispensabile introduzione a Sportstück, «è solo il linguaggio, o meglio la langue nel senso di de Saussure, gli schemi espressivi storicamente e socialmente determinati, dai quali nessuno può prescindere, il grande calderone delle frasi fatte, delle formulazioni preordinate, degli stereotipi e dei luoghi comuni»[14].

Grazie alla profonda conoscenza dei meccanismi che sottendono al linguaggio, al come l’essere umano se ne serve e al come, di converso, si impone alla penna dello scrittore e della scrittrice, è possibile introdursi, a servizio della lingua, nelle sue stratificazioni, operare al suo interno per avviare così un lavoro di radicale decostruzione che è anzitutto critica espressiva e di conseguenza, come vedremo, atto politico. L’aggancio tra la pratica di decostruzione del teatro e l’essere politicamente engagiert viene ben colto da Bärbel Lücke, tra le più acute studiose jelinekiane. Lücke dichiara che il teatro postmoderno dell’autrice, in virtù della sua costante e intenzionale messa in discussione delle ben radicate strutture dicotomiche di stampo patriarcale, è un teatro politico a tutti gli effetti[15]. Nel processo di decostruzione, che mira a scardinare quelle dicotomie e a smascherare i sistemi di subordinazione nei rapporti uomo-donna, Jelinek s’inserisce con il suo certosino lavoro, spesso ludico e autoironico, sui significati e sui significanti. Le recensioni negative ai lavori di Jelinek e le molteplici censure ai suoi spettacoli, scrive Uta Nyssen, non sono dunque da ricondurre solo al suo essere donna quanto piuttosto alla raffinatezza del sarcasmo che la sua scrittura riserva alle dinamiche connesse al potere nelle sue più disparate forme[16], analisi che già Ingeborg Bachmann, scrittrice con la quale l’opera di Jelinek dialoga costantemente, aveva enucleato nella sua prosa[17].

I personaggi dei suoi drammi, da Jelinek stessa definiti del «post-Ich»[18], sono monodimensionali, «fantocci»[19], maschere carnevalesche sovente estremizzate e ridicole, tanto intrise di una malsana sessualità e di un nero sarcasmo da ricordare i toni amari e grotteschi del carnevalesco di bachtiniana memoria. Anche il concetto di burlesque, richiamato da Schenkermayer[20] proprio in relazione a Bachtin, sembra adattarsi ai personaggi jelinekiani, con quei profili fissi, apparentemente persi, privi d’identità, macchine in balìa degli eventi. Il concetto di “altro teatro” elaborato da Jelinek vuole infatti che gli attori non siano interpreti di personaggi fittizi ma si facciano piuttosto carico del linguaggio, con le sue distorsioni, le sue sfumature ma anche del potere che esercita su di noi:

Ich will, dass die Sprache kein Kleid ist, sondern unter dem Kleid bleibt […] Wie unter dem Pflaster der Strand, so unter dem Pflaster die nie heilende Wunde Sprache […]. Die Schauspieler SIND das Sprechen, sie sprechen nicht.[21]

Il linguaggio del teatro jelinekiano si muove in parallelo all’azione drammatica, potremmo anzi dire che il linguaggio è l’azione drammatica. Un’equivalenza che assume un peso anche politico in una pièce come Schwarzwasser, che racconta le propaggini della destra populista analizzata da Jelinek negli anni Novanta e nei primi anni Duemila.

Se molto è stato scritto sull’inquadramento del teatro post-drammatico di Jelinek nel contesto dello sperimentalismo novecentesco, ancora poco, di converso, si è discusso della relazione che esiste tra questo teatro e la tradizione della tragedia greca che l’autrice richiama in molte sue opere. Pur non essendo, quello greco, l’unico riferimento di Jelinek, sorprende notare come la sua drammaturgia, considerata tra le più importanti del teatro post-moderno, si riallacci al teatro antico. In realtà, come cercherò di dimostrare, ciò che può collegare i due emisferi teatrali risiede nel ricorso di Jelinek sia ad alcuni elementi strutturali di quella drammaturgia sia nella pregnanza politica che riguardava il teatro greco. Come ha affermato Brigitte Jirku in una recente conferenza[22], Jelinek ha per anni portato il suo messaggio politico “fisicamente” fuori dal palcoscenico, partecipando personalmente alle manifestazioni contro il governo Haider e mettendo in campo, soprattutto dagli anni Settanta ai Novanta[23], una militanza costante nonché indicando una strada di continuità tra il suo chiaro posizionamento e una pratica di costruttiva e sempre coerente Selbstinszenierung: «die Autorin [exponierte sich] auch als Person und [setzte] ihre immer größer werdende Bekanntheit für politiche Anliegen [ein]»[24]. Dichiaratamente marxista e anticapitalista, Jelinek è stata membro del partito comunista austriaco (KPÖ) e del movimento femminista, ha tenuto discorsi pubblici prendendo posizione sulla guerra dei Balcani, a favore delle minoranze etniche, a favore dei diritti degli omosessuali, a sostegno dei diritti del lavoro degli artisti e delle artiste, ha rilasciato interviste, ha scritto saggi esplicitamente schierati a sinistra e talmente avversi nei confronti della società austriaca da valerle, oltre al famigerato nomignolo di Nestbeschmutzerin, innumerevoli contestazioni da parte di colleghi per via del suo ostentato Faschismus-Geschrei. Anche in seguito al conferimento del Nobel e al conseguente ritiro dal pubblico, Jelinek ha continuato ad essere attiva e politicamente schierata lasciando che la sua protesta “fisica”, sempre secondo Jirku, si de-materializzasse nella scrittura.

Tra i testi critici che ritengo più adeguati a leggere la complessità della figura di Jelinek, della sua Selbstinszenierung[25] e, dunque, della sua drammaturgia c’è un “classico” degli studi sul teatro come Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte[26] di Erika Fischer-Lichte. Partendo dall’analisi di alcune performances teatrali di grandi autori contemporanei come Marina Abramović, Jerzy Grotowski e diversi esponenti del Living Theatre, la teatrologa definisce gli aspetti principali del teatro di fine Novecento nel contesto della cosiddetta “svolta performativa”. Centrale è il concetto di Aufführung, termine difficilmente traducibile in italiano (viene reso con “spettacolo” o, meglio, con “esecuzione’) che raccoglie diversi orizzonti semantici legati al momento teatrale: non solo la messinscena ma anche la definizione dell’identità di genere, lo studio della spazialità, l’interazione corporea, gli elementi sonori e musicali, il nesso con il rito. Per Fischer-Lichte lo spettacolo non è un evento spazialmente e temporalmente determinato bensì un processo di costituzione al quale contribuiscono tutti coloro che vi prendono parte. Il fondamento del pensiero di Fischer-Lichte è la teoria degli atti linguistici con la quale John Austin, in How to Do Things with Words[27], conia il termine “performativo”. Nell’ambito delle sue note lezioni sul linguaggio Austin apre un filone ormai canonico ma sempre foriero di nuove accezioni in seno alla pragmatica, alla filosofia del linguaggio, alla psicolinguistica. Egli dimostra, sostenendosi su teorie già orientate agli Sprechakte di Bühler ma anche sul secondo Wittgenstein[28], che, quando parliamo, non esprimiamo soltanto significati ma svolgiamo un’azione all’interno di un determinato contesto. Questa azione determina, secondo Austin, anche un cambiamento di stato nel parlante e nel ricevente: dire qualcosa non è semplicemente “asserire” ma è “fare” qualcosa. Laddove la locuzione, da una parte, allude al significato puro di un enunciato, l’illocuzione, invece, racchiude l’intenzione, l’azione, la “forza” che il parlare (oppure lo scrivere) porta con sé e che è in grado di cambiare uno stato di cose; la perlocuzione, infine, concerne l’effetto, psicologico e comportamentale, che quella forza esercita sul ricevente, dunque sul lettore o sullo spettatore.

Tale meccanismo, che Austin indaga sul piano comunicativo e su quello pragmatico, viene esteso da Fischer-Lichte alla pratica teatrale con un’attenzione particolare allo studio del corpo e a quella intelaiatura che lega le diverse dimensioni che imprimono la performance teatrale. Questa si fonda su una corrispondente e reciproca influenza tra azione corporea e parola intesa come atto sociale e politico:

Quanto avviene in uno spettacolo tra attori e spettatori o anche tra gli spettatori, si compie sempre anche come uno specifico processo sociale, costituisce una specifica realtà sociale. Questi processi diventano poi politici, quando entra in gioco la negoziazione delle posizioni e la definizione.[29]

Fischer-Lichte cita anche Judith Butler che, da studiosa di genere e da esperta di retorica, fa propria la teoria austiniana e, volgendosi all’antico, la accosta ad una tragedia greca di capitale importanza anche per il pensiero filosofico, come l’Antigone di Sofocle. Nel suo La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte[30] Butler analizza il conflitto tragico tra Creonte ed Antigone assegnando ad alcune parole di quest’ultima una forza performativa “maschile” pensata per essere pubblica e, dunque, con effetti anche di stampo politico nonché con conseguenze illocutorie e perlocutorie diradate nel tempo:

le parole, infatti, esercitano qui un certo potere, che non si palesa immediatamente. Esse agiscono, esercitano una forza performativa di un certo tipo, a volte sono manifestamente violente nelle loro conseguenze, come parole che costituiscono o generano violenza. In realtà, le parole sembrano allora agire in modo illocutorio, mettendo in atto l’azione stessa che nominano, nel momento stesso in cui la nominano.[31]

Il teatro di Jelinek ha, dunque, molto a che vedere con le letture di Fischer-Lichte e di Butler poiché il nesso tra linguaggio e azione che loro postulano presuppone un’esposizione fisica, un engagement e un chiaro posizionamento politico di cui le tre autrici, seppur in ambiti differenti, si fanno strenue sostenitrici: «parlare possiede una forza capace di cambiare il mondo e può operare delle trasformazioni», scrive Fischer-Lichte[32].

La Selbstinszenierung di Jelinek è, dunque, un’esposizione prima fisica e poi testuale che rimanda a quella che Jacques Derrida, riferendosi ad Antonin Artaud e al suo “teatro della crudeltà”, chiama la re-sponsabilità (Ver-antwortung) della scrittura[33].

Alla luce di queste riflessioni preliminari, ci concentriamo principalmente su due aspetti inerenti a una pièce di taglio politico come Schwarzwasser: da una parte si vuole indagare in che misura e tenendo conto di quali snodi tematici Baccanti, che Jelinek stessa pone come tragedia con cui la propria opera dialoga, possa annodarsi alla vicenda dell’Ibiza-gate; dall’altra si vuole comprendere con quale chiave Jelinek rilegga la tragedia euripidea con l’obiettivo di fare luce non tanto sulla vicenda in sé ma, soprattutto, di svelare alcune delle dinamiche che la sottendono: il populismo, il consumismo scellerato, i meccanismi violenti. S’intende dunque individuare un punto di raccordo tra la prospettiva politica, l’estetica teatrale e le modalità di rielaborazione dell’antico che l’autrice austriaca mette in atto e, in conclusione, avanzare alcune considerazioni sull’impatto che un testo come Schwarzwasser può esercitare sul dibattito politico contemporaneo.

Per indagare il nesso tra la tragedia greca e il teatro post-drammatico occorre, seppur brevemente, richiamare cos’era per i greci la tragedia. Nel ricordare che il teatro greco superstite era un fatto principalmente ateniese, Del Corno ne sottolinea la triplice funzione: era un evento religioso – legato alle celebrazioni estive in onore proprio di Dioniso –, agonistico – le tragedie e le commedie erano oggetto di giudizio e, dunque, in competizione – e, soprattutto, politico: nella cornice della democratica Atene del V secolo, l’evento tragico rispecchiava, soprattutto nel dialogo tra l’eroe e il coro, la dialettica tra il cittadino della polis e la comunità[34]. Più recentemente Sotera Fornaro, riallacciandosi a Hans-Thies Lehmann e alla stessa Fischer-Lichte, ne ha sottolineato il carattere più propriamente “performativo”, asserendo che:

La tragedia era uno spettacolo totale a cui concorrevano parola, musica (strumentale e vocale), gesti, movimenti, danza, e ancora altri elementi, i costumi, le maschere, i fenomeni naturali, la luce, il vento, il caldo, il freddo, le condizioni fisiche ed emotive degli spettatori, gli apparati di scena e gli spazi performativi: tutte componenti di un unico “evento”, nei termini dell’estetica del performativo.[35]

Un’esperienza di ampio respiro, dunque, che molto conteneva degli eventi intesi proprio da Fischer-Lichte, eventi che non s’intendono cristallizzati nell’antico ma «richiedono di ripensare dalle fondamenta il rapporto tra etico ed estetico e di concettualizzarlo in modo radicalmente nuovo»[36] e si situano in «un confine, quello tra il passato mitico del testo, il presente della messa in scena, il futuro delle possibili e infinite altre messe in scena e del ripetersi, in altre situazioni, della stessa esperienza, estetica, percettiva, corporea»[37].

Il teatro di Jelinek si pone chiaramente su questa linea di “ri-significazione” e, da un punto di vista formale, riprende almeno due elementi della drammaturgia greca[38]: anzitutto l’elemento corale che, come nella tragedia greca, rappresenta la voce collettiva e funge da contraltare a quella del protagonista. In Jelinek le voci del coro sono plurali, contraddittorie, diverse, spesso dissonanti; al coro possono poi allacciarsi diverse funzioni: il gruppo degli anziani (per esempio i vecchi nostalgici del nazismo), un commento dell’autrice, dei richiami provenienti dal mondo del subconscio. La compattezza che caratterizza il coro greco viene, però, sistematicamente smontata da Jelinek, che di quel processo di smontaggio, mette in scena proprio la dimensione frammentaria e polifonica: si muove, scrive Janke, «come corpo polivoco, come corpo sonoro, senza rappresentare in sé qualcosa»[39]. Lücke sottolinea inoltre il ricorso alla parabasi, ossia a quel meccanismo teatrale, tipico della commedia greca, nel quale un componente del coro si distacca dal gruppo per rivolgersi direttamente al pubblico con l’intento di esprimersi, in modo satirico, su fatti politici[40]. Un espediente che Jelinek utilizza in una pièce “corale” come Sportstück – come riporta Fischer-Lichte – e riprende, seppur in maniera diversa, in Schwarzwasser.

Nella nostra pièce è difficile identificare i singoli personaggi poiché il militaresco coro del “wir” può ricondurre sia ai cittadini di Tebe sia alle baccanti, le cui voci sembrano sovrapporsi. In Baccanti, Euripide metteva in scena tre grandi nuclei tematici: il culto per Dioniso, la conversione di Penteo al dionisismo e il suo cruento sacrificio finale. Siamo a Tebe, dove Penteo, sovrano della città e figlio di Agave, che delle Baccanti fa parte, si oppone al culto di Dioniso. I riti dionisiaci consistono, tra le altre cose, nel sacrificio di animali sul monte Citerone da parte delle donne devote a Dioniso, preda di attacchi di estasi e follia. Questa usanza affascina molti e contamina tutta la città, persino vecchi e autorevoli personaggi come l’indovino Tiresia e Cadmo. Il fulcro della tragedia è il conflitto tra due visioni contrapposte: quella conservatrice e convenzionalista di Penteo e quella folle di Dioniso, che ha già sedotto l’intera città. Penteo, spinto dal coro, cede alla seduzione del culto, si fida del dio e si traveste da baccante. Pagherà cara, però, la sua iniziale reticenza: Penteo viene raggirato da Dioniso, portato sul Citerone e fatto letteralmente a pezzi dalle Baccanti, Agave compresa. Il racconto del “dilaniare vivo”, dello sparagmòs, è estremamente dettagliato e crudo. Sarà proprio Agave, senza rendersene conto, a torturare il proprio figlio e a mostrare, soddisfatta, il prodotto del massacro: la sua testa. La presa di coscienza finale da parte della madre, informata dal padre Cadmo, è un momento di tragica solitudine.

Baccanti è un testo drammatico ricorrente nella cultura contemporanea poiché pone interrogativi ai quali è complicato dare una risposta unilaterale: se Giorgio Ieranò parla di un «rompicapo»[41] e René Girard di un «problema» delle Baccanti, Massimo Fusillo vede nella tragedia del dionisismo «un modello culturale mobile e metamorfico»[42]. Vero è che, analogamente ad altre tragedie come Antigone, Medea ed Edipo Re, soprattutto a partire dal Sessantotto e dalla celebre messinscena di Dionysus in 1969, Baccanti ha conosciuto un grande interesse poiché evoca tematiche care alla modernità: il travestimento e la fluidità dell’identità di genere, il rapporto con l’estraneità, la psicanalisi[43] e la recente questione del contagio che tanto da vicino ci tocca hanno reso la figura di Dioniso, con la sua identità ambigua, non solo il dio del «modernismo e della sperimentazione espressiva»[44], ma anche una sorta di icona della ribellione, della liberazione delle emozioni. La lettura di Jelinek sembra, però, prendere una direzione diversa.

Il capolavoro euripideo sembra starle particolarmente a cuore dato che vi ricorre già nel 2004, quando in Rechnitz (der Würgenengel) propone e, in qualche misura, attualizza il tema dello sparagmós. La pièce si ispira ai fatti di Rechnitz, una piccola città austriaca conosciuta per una strage che nel 1945 costò la vita a 165 ebrei, letteralmente “dilaniati vivi” durante un festino organizzato dalla contessa Thyssen-Bornemisza. I responsabili della strage furono nazisti, giovani delle SS e della Gestapo, ormai prossimi alla sconfitta, con l’intento specifico di divertirsi, ubriacarsi e “uccidere qualche ebreo”. I fatti di Rechnitz sono rimasti occulti a lungo e, ancora oggi, le circostanze non sono state chiarite fino in fondo, a conferma di quella attitudine, tipicamente austriaca secondo Jelinek, a rimuovere ipocriticamente il passato[45]. Oltre al filo dello sparagmós l’opera, sulla quale qui non possiamo soffermarci, eredita da Baccanti alcuni nodi tematici che, seppur in modo radicalmente diverso, tornano in Schwarzwasser: i motivi del cannibalismo, dell’orgiastico, della caccia.

Mettendo Schwarzwasser a paragone con Baccanti e Rechnitz (der Würgen­engel) notiamo il ritorno di alcuni punti: da una parte persiste il motivo del rito della festa, e dall’altra vengono coinvolti uomini dell’ultradestra. Tuttavia diversi sono gli aspetti che Jelinek sceglie di “estrarre” dal nucleo tragico di Baccanti. Se in Rechnitz è lo spagarmós a costituire il filo rosso tra l’antico e il contemporaneo, in Schwarzwasser è la costante e incondizionata adorazione del giovane dio, vale a dire di quel Dioniso che veste i panni dell’attuale cancelliere austriaco – Sebastian Kurz – da parte dei suoi adepti, ad essere ripresa e rimodulata: le baccanti, insieme alla città di Tebe, sono le giovani leve della FPÖ. Dioniso, che «da tutti vuole essere adorato, in un culto comune, non sta a distinguere chi lo magnifica» (B 19), viene tutelato dai suoi adepti, pronti a scovare chi osi negare l’assoluta superiorità del dio:

Wer leugnet noch seine Göttlichkeit? Wer traut sich das? Ein Gott, von einem Mann empfangen, eine Frau kann man sich gar nicht vorstellen, obwohl sie ständig verlangt wird. Der macht uns Feuer unterm Hintern, der kann das, er würde sich auch ganz verbrennen für uns, er würde sich persönlich als Opfer bringen, nein, doch nicht, lieber bringt er andre Opfer, aber Opfer müssen gebracht werden, wenn es eine Steuererniedrigung geben soll (SW, 151).[46]

Kurz è il dio adorato, ha un linguaggio semplice e da tutti comprensibile, è perennemente idolatrato e circondato dai giovani astri nascenti della nuova destra. Entusiasti della propria divinità, cadono preda di quell’epilessia che ricorda l’estasi dionisiaca. Riconosciamo le parole di Penteo-Strache che, rivolgendosi a sua madre Agave, si abbandona al fascino del “dio dell’estasi” e, girando gli occhi, perde la dimensione razionale alla quale si era inizialmente affidato:

Ich bin es, Mutter, bin dein eignes Kind, so ähnlich würden wir mit ihr reden, wir werden vernünftig mit ihr sprechen, wir werden Vernunft für alle Bürger walten lassen, uns steht der Schaum vorm Mund, woher kommt dieser Schaum?, unsere Blicke sind ganz verdreht, wie kriegen wir das wieder auf die Reihe? Zu spät, wir schaffen es nicht. Besessen vom Verzückungsgott, hören wir nicht, die Mutter hört nicht, die Menge hört nicht, sie hört nicht auf uns, nur auf diesen Gott, den blöden, die Leute hören nur noch auf den, doch er wäre nichts ohne uns (SW, 209).[47]

La visione di Dioniso che Jelinek propone si discosta dalla più comune ricezione novecentesca del dio del teatro: non lo ritrae come il dio dell’ordine “nuovo”, né gli assegna quella carica liberatoria, alternativa e rivoluzionaria a cui è stato spesso assimilato negli ultimi decenni. Viene invece inteso come un ipocrita, un violento, un sadomasochista e un accentratore, «un dio che mette in opera una vendetta con violenza distruttiva e iperbolica»[48]. Jelinek sposa così il pensiero di Girard che, nella divinità del teatro, vede piuttosto «il dio del linciaggio riuscito»[49] e, nella celebrazione delle Baccanti, la «festa che prende una brutta piega»; Girard interpreta così una celebrazione nella quale la dimensione rituale, che nella cultura greca costituisce il nesso tra l’essere umano e il divino ed è volta ad «incanalare il naturale impulso umano alla violenza in direzioni socialmente accettabili e costruttive»[50], scompare del tutto lasciando che dilaghi una celebrazione cieca, un turbine di violenza gratuita e di distruzione, in cui la sospensione delle differenze di età, di genere, di classe sociale si traduce in una continua offesa reciproca[51]. Così Girard:

Via via che si cancellano gli aspetti rituali, la festa si limita sempre più a quella grassa licenza di svago che tanti osservatori moderni hanno deciso di vedere in essa. La perdita graduale del rito e il misconoscimento sempre aggravato non sono che una sola e medesima cosa […]. Dietro alle apparenze gioiose e fraterne della festa de ritualizzata, priva di qualsiasi riferimento alla vittima espiatoria e all’unità da essa rifatta, non vi è più in verità altro modello che la crisi sacrificale e la violenza reciproca. […] Più le vacanze sono insulse, fiacche, volgari, più si indovinano in esse lo spaventoso e il mostruoso che affiorano.[52]

Proprio l’ultimo passaggio sembra aver ispirato profondamente Jelinek la quale, nella scrittura di Schwarzwasser, dissemina frammenti e “indizi mitici” a là Roland Barthes[53] che il lettore può divertirsi a individuare: si identificano per esempio l’edera, i bellissimi riccioli di Dioniso, gli atti violenti del sacrificio rituale. Affiora allora la decadenza e la “fiacchezza” delle vacanze e, accanto ai lustrini della movida di Ibiza, l’elemento mostruoso che sottende alle ferie dei politici le cui folli notti nei locali aperti 24 ore su 24 ricordano le danze orgiastiche:

Diese Lokale sind alle geöffnet, dort können Sie 24 Stunden am Tag alles machen, was Gott verboten hat. Ja, sich mit Efeu bekränzen, wenn Sie welchen finden. Dort können wir jauchzend abfeiern, dort können wir alles mit unseren Bränden abfackeln, dort können wir den Himmlischen jauchzen, sobald ihr Bild in der Zeitung erscheint, sobald wir wissen, wie die aussehen (SW, 195).[54]

L’adorazione che si riserva a Dioniso-Kurz è, in maniera analoga alla follia delle Baccanti – Penteo-Strache: «Non mi toccare! Vai a danzare per Bacco, ma non contagiarmi con la tua follia» (B27) –, assimilata ad un contagio:

Was dieser Mensch verbreitet hat, ist eine Krankheit. Die Krankheit beweist, daß wir nie an etwas anderem erkrankt sein konnten als an ihm. Der Mensch ist ein Schädling, egal, obs hinauf- oder hinuntergegangen ist mit ihm. Nur so lebt man fröhlich. Nur so lebt man über­haupt (SW, 164-64).[55]

Il “noi”, ossia la voce principale di un coro onnipresente in Schwarzwasser che spesso si rivolge a un “Sie” assimilabile ad un elettorato da intercettare nella cornice di un’incessante campagna elettorale, sono le baccanti, sono i tebani ma sono anche i tanti Penteo sedotti e traditi dallo stile di vita dionisiaco, contaminati dalla festa, da un amore perverso per il concetto storpiato di Volk e per una scellerata libertà: «Joschi, steig ein! We make party now! Wir können alles machen. Wir können mit allen alles machen» (SW, 193)[56]. Libertà di essere a tutti i costi affascinanti, alla moda, sportivi con i bicipiti ben in bella vista e, allo stesso tempo, di farsi le proprie leggi e di urlarle:

wir haben gar nichts gemacht, machen wir uns eben andere Gesetze, neue!, bald gelten sie vielleicht auch nicht mehr, dann gelten halt andre, dann machen wir eben wieder andere, und plötzlich schreit er, ein Mensch schreit, ein ganzer rasender Schwarm schreit jetzt. Dann schreien plötzlich alle. Alle schreien mit. Das ist Musik in unseren Ohren, in andren nicht. Sie rufen uns, sie wollen uns, sie trinken uns, sie brauchen uns! (SW 196).[57]

In linea con la natura ambivalente e “duale” tipica del dionisismo e della tragedia euripidea[58], il coro dei giovani adoratori si muove, in modo uniforme e massificato («Man sieht uns nicht. Man sieht nur eine graue Masse, die nicht Gehirn ist»[59] – SW, 231), da carnefice a vittima. Un’omologazione tipica dell’ultradestra austriaca ma la cui retorica è comune a molti movimenti della destra europea, dalla Lega al movimento per la Brexit, come la messinscena viennese di Robert Burgmann mette bene in luce e che si riallaccia, nota Pełka, al concetto di “massa” che Elias Canetti esplicita in Masse und Macht[60]. In perfetta continuità con il passato («eine wunderbare Zeit, die derzeitige Zeit, im jubelnd Wechsellied mit der Vergangenheit»[61] – SW, 201) il “wir” si auto-rappresenta ora come incensatore, ora come vittima dello stesso dio adorato dato che, in seguito alla divulgazione del video e delle conseguenti decisioni politiche di Dioniso-Kurz, da “lui” si sono sentiti traditi e abbandonati:

Dieser Mann will von allen ohne Wahl unbedingt gefeiert sein. Das ist so seine Eigenheit. Das ist seine Artigkeit. […] die Menschen sind verzückt von diesem jungen Gott, dem wir das Zepter gaben, da hat er sich so gefreut, und jetzt kennt er uns nicht mehr, jetzt braucht er uns nicht mehr. Doch er sagt, er braucht uns alle, wirklich alle. Wir feiern also diesen Gott, und er?, er feiert nicht uns, er feuert uns, oh, das war tief, macht nichts, wir sinds ja auch, auch das Meer ist es, wir genieren uns nicht, was sind wir dann so aufgeregt, was sagen wir Neues nur? (SW, 200)[62]

Il secondo, grande fulcro tematico intorno al quale ruota la pièce è lo sfruttamento del patrimonio naturale e, nello specifico, dell’acqua pubblica. Anche l’acqua qui rappresentata racchiude il carattere ambiguo delle Baccanti: da una parte, infatti, il titolo dell’opera allude alle acque scure delle fogne e al putrido che richiama, metaforicamente, le oscure dinamiche del populismo; dall’altra, l’acqua pubblica è fonte di vita e, insieme, oggetto di aggressione. Lo sfruttamento della natura, tema ricorrente nella poetica jelinekiana, viene qui delineato non tanto in termini di denuncia ideologica quanto piuttosto come cartina di tornasole delle dinamiche di potere capitalistiche che tendono all’appropriazione. L’oro blu, protagonista della pièce, viene dunque “annerito” poiché degradato da ricchezza a merce, ad oggetto di controversia economica e politica, e, in quanto tale, ferocemente sfruttato:

Was drinnen ist, muß raus. Wasser muß raus, Wasser marschiert und muß bezahlt werden, sobald es in Bewegung gerät. Wenn es irgendwo steht, muß man sofort reinspringen, falls man bis zum Ufer vordringt. Umsonst ist der Tod, und der kostet das Leben. Wasser wird nicht die Welt kosten, aber es wird immerhin was kosten. Er muß was kosten, das kostbare Gut, sonst wäre ja das Böse. Zeitungen werden was kosten. Deshalb müssen sie uns gehören. Frauen werden was kosten. Dann wird man sich ihren Gebrauch zweimal überlegen müssen, sie werden jedoch immer vorrätig sein, verfügbar wie die Natur, was sagt mein Denker dazu, mein persönlicher Berater?[63] (SW, 162).

La privatizzazione dell’acqua, lo sfruttamento delle donne, l’acquisto di «die Kronen» per la diffusione della campagna elettorale della FPÖ, gli appalti per la costruzione di strade private sono temi dei quali Strache, Gudenus e la sedicente oligarca parlarono a lungo durante il loro incontro ad Ibiza. Di svendita, di corruzione, di giro di denaro Strache disserta con grande agio volendo risolvere in breve e con facilità questioni dirimenti – «zack, zack, zack» è un’espressione che ripete durante il video e per la quale è divenuto famigerato.

La voracità, impulso che attraversa l’intera pièce, si contrappone drammaticamente e allo stesso tempo ironicamente al mito dell’apparenza e della mondanità estiva e riecheggia il cannibalismo di un potere corrotto, la dimensione metaforica del “mangiare” tutto ciò che è acquistabile, uno sparagmós della dignità dell’essere umano e, di conseguenza, della natura che lo circonda. Proprio un atto di cannibalismo chiude Schwarzwasser dove, come in Baccanti, domina uno spargimento di sangue pronto per essere immediatamente pulito, dimenticato, rimosso: «Entstellt vom Blut, so sehe ich, nein, das Blut ist abgewaschen worden, in der Auslage dieser Schweinerei herrscht Sauberkeit»[64] (SW, 234).

Alla fine della pièce si ha la sensazione di vedere Penteo-Strache e Penteo-Gudenus come due discepoli traditi dal proprio dio adorato ed improvvisamente trasformati in animali satolli ed abbandonati; sorpresi, si chiedono che fine farà tutta la violenza profusa e trovano la risposta in una sorta di conversione religiosa:

Mit der Luft, mit dem Boden, mit der Zeitung können wir auch alles machen. Ist das wirklich unser Antlitz? Das hier angenagelt ist? Nein, das gehört uns nicht, unterlassen Sie Ihre Beschuldigungen! Es ist so rasch passiert, daß wir selbst in Tiere verwandelt wurden, wir haben das gar nicht richtig mitgekriegt. […] Was machen wir jetzt mit unserer Gewalt? Gibt es eine Religion, die uns unsere Gewalt entzieht, damit sie sie dann selber ausüben kann. Ja, die gibt es. Es ist jede, jede kann so sein, jede und ihre Schwester können auch töten (SW 235-236).[65]

Riuscire ad individuare quelle diverse voci del testo che s’intersecano l’una con l’altra per dare vita a una complessa polifonia è un’operazione complicata. L’intero testo, ha affermato Sabrina Zwach in una recente intervista, è intrinsecamente “bacchantisch” perché impregnato di musica, scandito dal ritmo, continuamente disturbato da rumori di sottofondo: «kein Anfang, kein Ende, Rythmus. Sich verlieren. In der Zeit bohren. Genderfluide Figuren»[66]. Difficile, d’altra parte, suggeriva Maria Fancelli già qualche anno fa, è «non cadere nella trappola del citazionismo e non farsi prendere dal desiderio di decifrare passaggi linguistici più o meno familiari che si insinuano continuamente nell’orecchio del lettore-spettatore»[67]. Si rende dunque superfluo ricostruire una trama associabile ai fatti di Ibiza e cercare di associare ai singoli passaggi i personaggi di Baccanti. Abbiamo appurato la presenza di ragguagli sul video, sull’acquisto della testata giornalistica, sulla privatizzazione dell’acqua; si tratta però di riferimenti rapidi, intesi in senso parodico, passaggi brevissimi che, come flash passati in rassegna, risultano inseriti in un flusso ininterrotto di un’intricata trama testuale.

Ciò che sta a cuore a Jelinek non è, allora, una ricostruzione dei fatti: da un’analisi strutturale del testo e dal suo “dialogo” con Baccanti in chiave girardiana, affiorano piuttosto la violenza che Elfriede Jelinek assegna alla “droga” del populismo e il disgusto che lo spettatore o il lettore deve provare nel prendere atto delle dinamiche di un potere che indossa «den Trach­tenjanker und die Lederhose […] und geht jetzt aus, sie geht jetzt von uns aus, sie geht auf Urlaub, und sie geht sogar dort noch aus»[68] (SW, 177). Entra in gioco qui l’effetto perlocutorio, ossia l’effetto che un atto linguistico – allargato nel senso del performativo inteso da Fischer-Lichte – esercita sullo spettatore: è qui che le parole non “dicono” soltanto, ma “performano” su chi legge o su chi assiste all’esecuzione. Nello spazio tra il divertimento dei parties e la mostruosità della “festa finita male” Jelinek dischiude un gesto ben delineato, una denuncia neanche troppo sottesa che ricorda, per pregnanza e per sostanza parodica, quella degli antichi greci che, attraverso il teatro, con il potere dialogavano e, spesso, del potere si burlavano. Schwarzwasser è dunque «eine kalte Dusche»[69], una «chiamata in causa»[70] poiché rende drasticamente visibile, e per bocca di quella stessa destra sovranista, l’amara fine della politica impegnata e la negazione del posizionamento impegnato che Elfriede Jelinek, come molti e molte altre, ha costruito, ha difeso e coltivato negli anni:

Wir müssen sie der Politik, so nennt man jetzt unser Handeln, früher war es einfach nur Handeln und Wandeln, es war Fleisch, Industrie und Auto, jetzt ist es Politik, wir müssen uns also anpassen, was uns noch nicht paßt. Die Gesetze müssen schon zu uns passen, so wie auch unsere Politik zu uns paßt, sonst nehmen wir sie nicht. Wir würden sie gar nicht wahrnehmen, wenn sie uns nicht passen (SW, 185).[71]

Analogamente ad Euripide, che scrisse Baccanti in esilio e lontano dalla polis, anche Jelinek osserva le fogne stando fuori dalla città, intesa, in senso greco, come fulcro politico. Come Atene ieri, Vienna oggi è, dalla prospettiva di Jelinek, il centro dal quale la scrittrice prende le distanze ma sul quale “deve” continuare a scrivere stando “in disparte’[72].

Riferimenti

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[1] Elfriede Jelinek, Schamlos: Die Zeit, in «Max Joseph. Magazin der Bayerischen Staatsoper», 2, 2009, pp. 20-24.

[2] Cfr., per una ricostruzione dei fatti dal punto di vista giornalistico, Frederik Obermeier – Bastian Obermayer, Die Ibiza-Affäre. Innenansicht eines Skandals, Kiepenheuer & Witsch, Köln 2019.

[3] Elfriede Jelinek, Schwarzwasser. Am Königsweg. Zwei Theaterstücke, Rowohlt, Hamburg 2020 (segnalato nel testo con la sigla SW).

[4] Cfr. «Ein Ozean aus Sprechblasen». Zur Uraufführung von Schwarzwasser am Burgtheater. Robert Borgmann und Sabrina Zwach im Gespräch mit Andrea Heinz, in «JELINEK[JAHR]BUCH», 2020-2021, pp. 88-98.

[5] Wolfgang Kralicek, Parodie zwecklos. Elfriede Jelineks Ibiza-Satyrspiel «Schwarzwasser» im Wiener Akadamietheater, in «Theater heute», 4, 2020, p. 23.

[6] Si farà qui riferimento a Euripide, Baccanti, a cura di Giorgio Ieranò, Mondadori, Milano 1999 (segnalato nel testo con la sigla B).

[7] Fa riferimento a René Girard, La violenza e il sacro, trad. di Ottavio Fatica – Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980.

[8] Cfr. Rita Svandrlik, «Die Autorin ist weg. Sie ist nicht der Weg». Vom vergeblichen Verschwinden der Autorin (Gier und Im Abseits), in «Machen Sie was Sie wollen!». Autorität durchsetzen, absetzen und umsetzen. Deutsch- und französischsprachige Studien zum Werk Elfriede Jelineks, hrsg. v. Delphine Klein – Aline Vennemann, Praesens Verlag, Wien 2017, pp. 85-95.

[9] Molte delle opere di Jelinek sono tradotte in italiano – tra le ultime segnaliamo: Jackie, a cura di Luigi Reitani, La nave di Teseo, Milano 2017; Gli esclusi, trad. di Nicoletta Giacon, La nave di Teseo, Milano 2018; nell’ambito degli studi di germanistica i seguenti volumi: Rita Svandrlik (a cura di), Elfriede Jelinek. Una prosa altra, un altro teatro, Firenze University Press, Firenze 2008; Lia Secci (a cura di), Il teatro di Elfriede Jelinek in Italia, Aracne, Roma 2012.

[10] Elfriede Jelinek, Ich will kein Theater – Ich will ein anderes Theater, in «Theater heute», 1989, 8, pp. 30-32, qui p. 31.

[11] Lucia Perrone Capano, Superfici linguistiche e visive: i testi per un “altro teatro” di Elfriede Jelinek, in Una prosa altra, un altro teatro, cit., pp. 105-120, qui p. 107.

[12] Anna Babka – Peter Clar, Elfriede Jelinek – Positionen zu Leben und Werk, in Liu Wie – Julian Müller (hrsg. v.), Frauen.Schreiben. Österreichische Literatur in China, Präsens, Wien 2014, Band 2, pp. 51-77, qui p. 68 («Das “strong statement”«Ich will kein Theater» wird sogleich abgeschwächt, wie auch Jelineks Theater selbst, «das Theater» zwar in Frage gestellt, es aber trotzdem braucht, um ebendies zu tun»).

[13] Pia Janke, Danno ai nervi, i testi!, in Il teatro di Elfriede Jelinek in Italia, cit., pp. 7-16, qui p. 8.

[14] Luigi Reitani, Il teatro delle voci, in Elfriede Jelinek, Sport. Una pièce; Fa niente. Una piccola trilogia della morte, trad. di Roberta Cortese, Ubulibri, Milano 2005, pp. 9-27, qui p. 9.

[15] Barbel Lücke, Jelineks Gespenster. Grenzgänge zwischen Politik, Philosophie und Poesie, Passagen Verlag, Wien 2007. La studiosa si è recentemente occupata di Schwarzwasser in un saggio pubblicato per l’ultimo «Jahrbuch» jelinekiano in concomitanza con il presente saggio. Nell’indagare i diversi raccordi tra le Baccanti, il pensiero girardiano e la drammaturgia di Jelinek, Lücke individua nel motivo della “festa” intesa dal filosofo francese e, nello specifico, nella perdita dell’oggetto da sacrificare, il fondamento della “macchina della violenza” a cui la pièce, come viene spiegato anche nel presente contributo, dà voce e spazio. Inoltre identifica la figura di Dioniso con quella di Kurz e quella di Penteo – «sedotto e abbandonato» – con Strache (Barbel Lücke, Die heilige und die profane Gewaltmaschine, in «JELINEK[JAHR]BUCH», 2020-21, pp. 64-87).

[16] Uta Nyssen, Nachwort, in Elfriede Jelinek, Theaterstücke, Rowohlt, Reinbek b.H. 2018, pp. 266-285.

[17] Cfr. per es. Rita Svandrlik, «Ich spreche nicht Menschen». Von der Ermordung der Wirklichkeit im Werk: Jelinek mit Bachmann gelesen, in «Zeitschrift des Verbandes Polnischer Germanisten», 3, 2012, pp. 342-355.

[18] Elfriede Jelinek, Ich will kein Theater – Ich will ein anderes Theater, cit., p. 31.

[19] Luigi Reitani, Altrove, in Elfriede Jelinek, Jackie, cit., p. 16.

[20] Christian Schenkermayr, Ende des Mythos? – Beginn der Burleske? Versuch einer Annäherung an das Verhältnis von Mythendekonstruktion und burlesker Komik in einigen Dramen Elfriede Jelineks, in Felix Austria – Dekonstruktion eines Mythos in Leyko M. – Pełka A. – Prykowska-Michalak K. (hrsg. v.), Felix Austria – Dekonstruktion eines Mythos? Das österreichische Drama und Theater seit Beginn des 20. Jahrhunderts, Litblockin, Fernwald 2009, pp. 344-363.

[21] Elfriede Jelinek, Sinn egal. Körper zwecklos in Stecken, Stab und Stangl. Raststätte. Wolken. Heim, Neue Theaterstücke, Rowohlt, Reinbek b.H. 1997, pp. 8-9.

[22] Faccio riferimento al Vortrag tenuto da Jirku dal titolo Zur Kunst politischen Schreibens. Provokation ade in ambito del convegno Kunst. Politik. Moral tenuto il 4 e il 5 maggio 2021 (LINK).

[23] Cfr. Pia Janke – Stefanie Kaplan, Politisches und feministisches Engagement, in Jelinek-Handbuch, hrsg. v. Pia Janke, Metzler, Stuttgart 2013, pp. 9-20.

[24] Ivi, p. 13.

[25] Cfr. Peter Clar, Selbstpräsentation, in Jelinek-Handbuch, cit., pp. 21-26.

[26] Erika Fischer-Lichte, Ästhetik des Performativen (2004), ed. it.: Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, trad. di Tancredi Gusman – Simona Paparelli, Il Mulino, Roma 2004.

[27] John L. Austin, How to Do Things with Words: the William James Lectures Delivered at Harvard University in 1955 (1955), ed. it.: Come fare cose con le parole, a cura di Carlo Penco – Marina Sbisà, trad. di Carla Villata, Marietti 1820, Bologna 2019.

[28] Ne parlano Penco e Sbisà nell’introduzione a Come fare le cose con le parole, in ivi, p. IX.

[29] Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo, cit., p. 294.

[30] Judith Butler, Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death (2000), ed. it.: La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, trad. di Isabella Negri, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[31] Ivi, p. 85.

[32] Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo, cit., p. 42.

[33] Cfr. Jacques Derrida, Die Stimmen Artauds (die Kraft, die Form, die Furche), in Joachim Gerstmeier – Nikolaus Müller-Scholl (hrsg. v.), Politik der Vorstellung. Theater und Theorie, Theater der Zeit, Berlin 2006, pp. 12-17.

[34] Dario Del Corno, Letteratura greca, Principato, Milano 1988, pp. 149-150.

[35] Sotera Fornaro, La tragedia greca, nostra contemporanea, in «Visioni del Tragico», 1, 2020, pp. 7-11, qui p. 8.

[36] Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo, cit., p. 296.

[37] Sotera Fornaro, La tragedia greca, cit., p. 9.

[38] Cfr. Monika Meister, Bezüge zur Theatertradition, in Jelinek-Handbuch, cit., pp. 68-73.

[39] Pia Janke, Danno ai nervi, i testi, cit., p. 9.

[40] Barbel Lücke, Jelineks Gespenster, cit., pp. 277ss.

[41] Giorgio Ieranò, Introduzione, in Baccanti, cit., p. V.

[42] Massimo Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le «Baccanti» nel Novecento, il Mulino, Roma 2006, p. 13.

[43] Cfr. ivi, pp. 27-28.

[44] Massimo Fusillo, Il dio ibrido, cit., p. 10.

[45] Cfr. Pia Janke – Teresa Kovacz – Christian Schenkermayr (hrsg. v.), Die unendlose Unschuldigkeit. Elfriede Jelineks Rechnitz der Würgeengel, Praesens Verlag, Wien 2012.

[46] «Chi nega ancora la sua divinità? Chi osa? Un dio, accolto da un uomo, una donna non se lo può neanche immaginare, per quanto le venga chiesto costantemente. Questo ci mette il pepe in culo, lui lo sa fare, si darebbe anche fuoco per noi, si sacrificherebbe personalmente, no, e invece no, preferisce portare altre vittime, ma le vittime devono essere portate se ci deve essere un taglio delle tasse» (le traduzioni sono di chi scrive).

[47] «Sono io, mamma, sono tuo figlio, parleremmo più o meno così con lei, con lei parleremo in modo razionale, faremo esercitare la ragione per tutti i nostri cittadini, abbiamo la schiuma davanti alla nostra bocca, da dove viene questa schiuma? I nostri sguardi sono tutti strambi, come facciamo a rientrare nei ranghi? È troppo tardi, non ci riusciamo. Posseduti dal dio dell’estasi, non sentiamo, la madre non ascolta, la folla non ascolta, non ascolta noi, non ascolta questo dio, il cattivo, la gente ascolta solo quello, eppure lui non sarebbe niente senza di noi».

[48] Massimo Fusillo, Il dio ibrido, cit., p. 28.

[49] René Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 190.

[50] Manuela Mari, La violenza nella religione greca antica. Azione rituale e sacra rappresentazione, in La grammatica della violenza. Un’indagine polifonica, a cura di Alessandra Sannella – Micaela Latini – Alfredo M. Morelli, Mimesis, Milano 2017, pp. 19-29, qui p. 20.

[51] Cfr. anche Barbel Lücke, Die heilige und die profane Gewaltmaschine, cit., pp. 74-75.

[52] René Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 178.

[53] Mythologies di Roland Barthes (1957) è uno dei riferimenti più significativi per la lettura del mito di Elfriede Jelinek.

[54] «Questi locali sono tutti aperti, lì può fare tutto ciò che dio ha proibito, 24 ore su 24. Sì, anche inghirlandarsi con l’edera, se la trova. Lì possiamo festeggiare giubilando, lì possiamo bruciare tutto con i nostri incendi, lì possiamo celebrare il divino, non appena la sua immagine compare sul giornale, non appena sappiamo come sono fatti».

[55] «Ciò che quest’uomo ha diffuso è una malattia. La malattia è la riprova del fatto che noi non potevamo ammalarci di nulla se non di lui. Quell’uomo è un parassita, non importa se con lui si sale o si scende. Solo così si vive con gioia. Solo così si vive e basta».

[56] «Joschi, Sali! We make party now! Noi possiamo fare tutto. Possiamo fare tutto, con tutti».

[57] «Non abbiamo fatto proprio niente, facciamoci delle nuove leggi, nuove! Presto non saranno neanche più valide, e allora ne facciamo delle altre, e all’improvviso urla, un uomo urla, un’intera folla rabbiosa urla. Tutti urlano improvvisamente. Tutti urlano insieme. È musica per le nostre orecchie, non per altre. Ci chiamano, ci vogliono, ci bevono, hanno bisogno di noi!».

[58] Precisa Massimo Fusillo: «Come Eros, [Dioniso] è un dio di straordinaria ambivalenza, a cui si ricollegano le esperienze più dolci e più terribili: un’incarnazione dell’alterità in tutte le sue forme dirompenti e perturbanti. […] da un lato la visione, la forma, il sogno […]; dall’altro il suono, il corpo, la dissoluzione violenta di ogni gerarchia e categoria; due modalità espressive pienamente simboleggiate da due arti, la scultura e la musica […]» (il dio ibrido, cit., p. 15).

[59] «Nessuno ci vede. Si vede solo una massa grigia, e non è un cervello».

[60] Cfr. Artur Pełka, «Unser Dasein ist kurz». Schwarzwasser als existentialistisches Politdrama, in «JELINEK[JAHR]BUCH», 2020-2021, pp. 55-61.

[61] «Un’epoca meravigliosa, l’epoca attuale, in un giubilante canto corale con il passato».

[62] «Quest’uomo vuole essere festeggiato da tutti, indifferentemente e assolutamente. Questa è la sua peculiarità. Questa è la sua galanteria. […] gli uomini sono incantati da questo giovane dio, colui al quale abbiamo dato lo scettro, e lui era così contento, e ora non ci conosce più, ora non ha più bisogno di noi. Eppure dice di aver bisogno di tutti noi, veramente di tutti noi. Noi allora celebriamo questo dio, e lui? Non ci celebra, lui ci incenerisce, oh, questa era un colpo basso, non fa nulla, in fondo bassi lo siamo, anche il mare lo è, non ci vergogniamo, come siamo agitati, cosa diciamo di nuovo alla fine?».

[63] «Tutto ciò che è dentro deve uscire fuori, l’acqua deve uscire fuori, l’acqua marcia e deve essere pagata quando si mette in movimento. Quando si ferma da qualche parte occorre saltarci subito dentro nel caso in cui ci si spinga fino alla riva. Gratuita è la morte e costa la vita. L’acqua non costerà il mondo ma costerà comunque qualcosa. Deve pur costare qualcosa, questo bene prezioso, altrimenti sarebbe il male. I giornali costeranno qualcosa. Per questo devono appartenerci. Le strade costeranno qualcosa. Per questo devono appartenerci. Le donne costeranno qualcosa. Penseremo due volte se usarle oppure no, saranno comunque sempre a disposizione, disponibili come la natura, cosa ne dice il mio pensatore, il mio consigliere personale?».

[64] «Sfigurato dal sangue, così lo vedo, il sangue è stato lavato via, nella vetrina di questa porcata domina pulizia».

[65] «Con l’aria, con la terra, con il giornale possiamo fare tutto. È proprio il nostro viso? Questo qui appeso? No, non è il nostro, lasciate le vostre accuse. È successo così in fretta che ci siamo trasformati subito in animali, non ce ne siamo neppure accorti. […]. Che facciamo ora con la nostra violenza? C’è una religione che ci toglie la nostra violenza così può esercitarla da sola? Sì, ce n’è una. È ogni religione, ognuna può essere così, ognuna e sua sorella possono anche uccidere».

[66] Robert Borgmann und Sabrina Zwach im Gespräch mit Andrea Heinz, cit., p. 93.

[67] Maria Fancelli, Una mummia egizia al Burgtheater di Elfriede Jelinek, in Una prosa altra, un altro teatro, cit., pp. 43-58, qui p. 47.

[68] «la giacca tradizionale e i pantaloni bavaresi e ora va fuori, se ne va fuori da noi, va in vacanza, e persino lì esce».

[69] Artur Pełka, «Unser Dasein ist kurz», cit., p. 61.

[70] Maria Fancelli, Una mummia egizia, cit., p. 56.

[71] «Lo dobbiamo alla politica, ora la chiamano così il nostro agire, prima era semplicemente fare e disfare, era carne, industria e auto, ora è politica, ci dobbiamo allora adeguare e fare in modo che le leggi si abituino a noi. Dobbiamo adeguare tutto ciò che ancora non si adegua a noi. Le leggi devono adeguarsi a noi, esattamente come la politica si è già adeguata a noi, altrimenti non la scegliamo. Non la prenderemmo neppure in considerazione se non si adeguasse a noi».

[72] Riprendo il titolo del discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Nobel: Elfriede Jelinek, Im Abseits, trad. di Rita Svandrlik, In disparte, in Una prosa altra, un altro teatro, cit., pp. 153-164.