Maurizio Pirro

(Bari)

«Die Ehre bleibt allein des Herzens Eigenthum». La definizione del carattere tragico nella teoria estetica e nella scrittura drammatica di Johann Elias Schlegel

[«Die Ehre bleibt allein des Herzens Eigenthum»
The definition of the tragic character in the aesthetic theory
and in the dramatic writing of Johann Elias Schlegel
]

abstract. Johann Elias Schlegel’s writing for the theatre always pairs up with theoretical reflection. In his essays, Schlegel often takes an original stance with respect to his background as a member of the Gottsched circle. At no time does he ever set aside the mimetic principle; instead, he deploys it on behalf of an aesthetic of affects firmly anchored to a lucid understanding of the political and social situation surrounding the reception of his work. This study mainly focuses on how this intertwining finds expression in his essays and in his major tragedy Canut (1746).

Molto al di là di quella funzione di cerniera tra due epoche differenti nella cultura estetica del Settecento, in cui per diverso tempo si è identificato il suo carattere precipuo (ma anche, evidentemente, il suo limite principale)[1], Johann Elias Schegel è una figura di notevole rilievo nella storia della drammaturgia tedesca. Alcune circostanze legate alla sua breve esistenza hanno contribuito a fissarne l’identità riducendola entro contenitori di senso abbastanza angusti, privi di legami con gli aspetti più meditati della sua poetica. Il destino di una morte prematura, a soli trent’anni, ha indotto, per esempio, a includerlo in un gruppo di contemporanei colpiti dalla medesima sorte (Johann Friedrich Cronegk e Ewald Christian von Kleist, tra gli altri), rispetto ai quali Schlegel spicca invece molto chiaramente per l’energia della spinta teoretica che è alla base delle sue opere letterarie. La precocità della morte, certo, riguarda verso la metà del Settecento una porzione così ampia di giovani letterati da diventare una sorta di infausto stigma generazionale, imponendosi per questo come una vera e propria rudimentale categoria ermeneutica. Nell’Idea della poesia alemanna, con cui di fatto inaugurava in Italia la storiografia riguardante la letteratura di lingua tedesca, Aurelio de’ Giorgi Bertola dedicava non a caso un capitolo, il sesto, ai «poeti più celebri già morti»[2], accompagnandolo significativamente con un’espressione modellata su un verso di Petrarca, e cioè che «morte fura i migliori, e lascia stare i rei»[3]. Altre contingenze, inoltre, hanno spinto a semplificare la posizione di Schlegel, schiacciandola sulla particolarità della sua biografia. La relazione di parentela fra il nostro autore e due degli ingegni più brillanti sul confine tra Sette e Ottocento (August Wilhelm e Friedrich Schlegel, figli di Johann Adolph, fratello di Schlegel e noto come traduttore e commentatore di Batteux), ha ulteriormente distratto da una considerazione distaccata della sua attività di intellettuale, conformemente a quell’irragionevole paradigma – oramai superato, va da sé – secondo il quale la gran parte della cultura del Settecento si esaurirebbe nella pura e semplice preparazione degli esiti più maturi (classicismo e romanticismo)[4]. Un paradigma che nelle due generazioni degli Schlegel pareva trovare una singolare conferma. Più veritiera, benché altrettanto banalizzante, è la collocazione dello scrittore nel contesto delle relazioni interculturali fra Germania e Danimarca, alle quali effettivamente egli presta un contributo ingente, in una stagione di notevole rilancio delle arti nel paese scandinavo, garantito dal sostegno del re Federico V e alimentato dal lavoro di un operoso gruppo di intellettuali tedeschi migrati nella nazione confinante[5]. È noto come Schlegel si trasferisca a Copenhagen nel 1743, a ventiquattro anni, al servizio del rappresentante diplomatico sassone von Spener. Nella capitale si dedica a una infaticabile attività di collegamento tra le due culture, curando in proprio, tra l’altro, la pubblicazione di un periodico, intitolato Der Fremde, destinato a favorire la conoscenza reciproca[6], e interessandosi alla fondazione del Teatro nazionale danese, un’impresa portata avanti sotto gli auspici dello stesso Federico V e a sostegno della quale, nel 1747, Schlegel compone un atto unico, Die Langeweile[7], e scrive un importante testo programmatico, i Gedanken zur Aufnahme des dänischen Theaters.

Nel profilo di Schlegel colpisce, accanto all’ampiezza della produzione di opere teatrali (distribuite in modo pressoché uniforme fra i generi della tragedia e della commedia), la costanza della riflessione teorica che si dispone parallelamente al cantiere finzionale. Non c’è dubbio che, come è stato rilevato, «Schlegels literarische Produktion wird beständig von einer theoretischen Diskussion begleitet»[8]. Tale accompagnamento segue fonda-mentalmente una partitura gottschediana, che resta intimamente incardinata nel disegno speculativo di Schlegel dopo gli anni di formazione all’università di Lipsia. È vero che, soprattutto quando deve trarre dalla propria attività di drammaturgo conclusioni di carattere generale in fatto di estetica, lo scrittore finisce per eccedere la misura del classicismo di scuola, inclinando a una lettura anche spregiudicata dei meccanismi addetti alla produzione dell’effetto nella ricezione di opere d’arte. È tuttavia non meno vero che questi accenti di consapevole eterodossia sono pur sempre ricondotti a un accordo di massima con i fondamenti delle teorie di Gottsched, o meglio da quegli stessi fondamenti sono desunti in modo sistematico, spesso non senza qualche forzatura.

Inconfondibilmente gottschediana è tutta la teoria cognitiva che Schlegel pone alla base del diletto generato dall’arte. Nel trattato Von der Nachahmung, che è pubblicato in tre sezioni fra 1742 e 1745, la buona riuscita di una pratica mimetica è subordinata alla capacità del destinatario di riconoscere a colpo sicuro il legame di equivalenza morfologica fra l’oggetto reale e la sua riproduzione finzionale. Come Gottsched aveva riportato l’insieme delle attitudini sollecitate nel giudizio estetico alla verifica di una piena corrispondenza sensibile fra l’opera d’arte e il suo modello materiale, senza ipotizzare alcuna possibile apertura del “verosimile” nella direzione dell’immaginario e del fantastico, così Schlegel si cura di restringere drasticamente il margine di discrezione concesso all’artista e all’interpretante, chiarendo che per imitazione non si deve intendere altro che «eine Handlung, da man die Absicht hat, etwas einer andern Sache ähnliches hervorzubringen»[9]. La procedura di imitazione dispiega il proprio effetto in modo ottimale quando chi è posto a contatto con un oggetto d’arte si trova nelle condizioni di intuire sinotticamente e poi di ricostruire nel dettaglio il tessuto delle relazioni di analogia che intercorrono tra il Bild e il Vorbild, secondo la terminologia schlegeliana. Va da sé che lo scrittore non intende l’insieme di queste associazioni come sottoposto a una logica combinatoria libera e non preordinata. Il lavoro di decostruzione analitica a cui l’interpretante è solle-citato, al contrario, si esplica mediante il puntuale accertamento dell’esistenza di rapporti di proporzionalità esattamente normati fra le parti del modello e i loro equivalenti nell’oggetto di finzione. L’ottenimento di un’armonica disposizione di queste stesse parti non è visto come uno scopo in sé, ma come il risultato necessario dell’applicazione di una rigorosa tecnica di ordinamento e assemblaggio. Il talento plastico dell’artefice è chiamato a esercitarsi entro il limite di questa misura obbligata, definita nei termini di una lineare geometria della costruzione immaginale, sottoposta alla disciplina di un corpo vincolante di norme inderogabili:

Insonderheit ist es nöthig, den Begriff der Aehnlichkeit auf eine solche Art zu erklären, daß man theils deutlich sehen könne, wie das Vergnügen, so aus der Nachahmung kömmt, entspringe; theils desto leich­ter merke, wie es anzufangen sey, wenn man Dinge nachahmen will. Hierzu scheint mir derjenige Begriff am bequemsten, welchen die Lehrer der Meßkunst angenommen haben: und wir wollen denselben nur so viel erweitern, daß er sich auf andere Dinge, als auf die Größen und die Verhältniß derselben, bezieht. Dasjenige nämlich ist einer Sache ähnlich, dessen Theile eben das Verhältniß unter sich haben, welche unter den Theilen des andern ist.[10]

Il corretto ordinamento delle parti chiama in causa sia la disposizione interna all’oggetto di finzione, sia – a maggior ragione – la corrispondenza mimetica fra tale disposizione e quella esistente nel paradigma reale. Con ciò Schlegel pone evidentemente il diletto estetico all’ombra di un inflessibile sistema normativo e al riparo da ogni possibile arbitrio da parte del soggetto interpretante, il quale è così destinato a svolgere un mero lavoro di verifica circa l’esatta applicazione delle regole di ben temperata proporzionalità che presiedono a tutti gli atti formativi. Il primato della dispositio sulle altre modalità alla base della comunicazione estetica colloca Schlegel con notevole chiarezza ancora al di qua di quell’ampio movimento di ridefinizione della categorie retoriche tradizionali che stava già interessando la cultura estetica del Settecento, raggiungendo una prima forma di coagulazione nelle teorie degli Svizzeri. L’esclusione categorica di ogni infrazione al paradigma della verosimiglianza («Eine Unähnlichkeit […] in denenjenigen Stücken, worinnen man gleichwohl den Endzweck hätte, eine Sache nach­zuahmen, würde wider die Absicht der Nachahmung streiten»)[11] qualifica Schlegel come un teorico di impianto eminentemente gottschediano e obbliga a misurare su questa base la portata dei suoi scarti e delle correzioni apportate al sistema di riferimento.

Un punto importante su cui Schlegel appare spingersi a conclusioni autonome riguarda l’appropriatezza del medium adoperato nelle operazioni di rappresentazione finzionale. Il fondamento di queste considerazioni, è chiaro, resta quello messo a punto nella definizione della categoria di imitazione. A Schlegel preme che tutti i segmenti che concorrono a costituire l’oggetto d’arte stiano tra loro in una relazione di ponderato equilibrio, perché questa è l’unica condizione in grado di produrre diletto nella psiche dell’osservatore. Quando, tuttavia, l’accertamento di tale relazione si estende dall’ambito del contenuto a quello delle forme, l’autore è portato a ragionare secondo una logica semiotica non priva di spregiudicatezza, in particolare lì dove l’apprezzamento della coerenza tra l’oggetto e il medium della sua riproduzione estetica viene collegato al grado di distinzione delle rappresentazioni mentali di cui un destinatario può disporre in ragione del suo posizionamento sociale. La natura di un oggetto, così Schlegel, fa sì che esso sia riproducibile solo tramite strumenti mediali conformi a tale natura, in grado cioè di restituire con esattezza le peculiarità sensoriali dell’oggetto stesso e le modalità attraverso le quali esso si imprime nel sistema percettivo del destinatario. «Wenn ein Subject zur Nachahmung geschickt seyn soll», così nel settimo paragrafo del trattato Von der Nachahmung, «so muß in demselben eben die Beschaffenheit seyn, in deren Betrachtung man das Vorbild nachahmen will»[12]. Schlegel guarda qui soprattutto all’efficacia cognitiva dell’oggetto d’arte e pensa a un modello semiotico nel quale le facoltà umane coprono domini del tutto separati e indipendenti fra loro, secondo la classica distinzione wolffiana tra obere e untere Seelenkräfte[13]. L’adeguatezza del medium alla struttura sensibile dell’oggetto d’arte, inoltre, deve essere verificata non sulla coerenza interna della rappresentazione finzionale, bensì unicamente sulla costituzione morfologica del modello. Siamo ancora lontani, voglio dire, dalla ridefinizione della semiotica delle opere d’arte che Lessing, nel Laokoon, condurrà non sulla base del modo in cui singoli oggetti vengono trasferiti in un sistema di segni, e nemmeno di una supposta equivalenza tra gli oggetti e la loro riproduzione, ma, al contrario, a partire dall’ordine di funzionamento del dispositivo finzionale, rispetto al quale il medesimo oggetto può svolgere funzioni simboliche differenti e variabili. Il riconoscimento di un legame tra la forza del diletto e la capacità sensoriale dell’opera d’arte apre nondimeno una prospettiva nella direzione di una logica dell’effetto alla quale lo Schlegel drammaturgo sarà tutt’altro che indifferente, in particolare là dove aspirerà a trasferire nelle proprie opere alcuni elementi ricavati dalla lezione shakespeariana. Non manca del resto, nella seconda parte del saggio, un pronunciamento esplicito circa l’insostenibilità di una concezione estetica meramente fondata sul freddo perfezionamento morale del pubblico[14]. Un pronunciamento a cui non è estranea, certo, l’attribuzione all’arte di un ambito cognitivo di portata ancora inferiore rispetto a quello della speculazione astratta, ma che in ogni caso si spinge a ritrovare nel diletto ottenuto tramite l’apprezzamento dell’oggetto d’arte una autonoma capacità di perfezionamento e umanizzazione:

Alles Vergnügen gehöret zu den Sachen, die man um ihrer selbst willen suchet. Denn da unsere Glückseligkeit in der Zusammenkunft alles möglichen Vergnügen besteht, so hat jegliches Vergnügen einen unmittelbaren Einfluß in dieselbe; und es ist ungereimt, wenn uns etwas vergnüget, noch weiter zu fragen, warum man dieses Vergnügen suche? Alles Vergnügen, also, das aus dem Wesen einer Sache fließt, hat die Vermuthung vor sich, daß es der Endzweck derselben sey; und es hat vor allen andern Dingen ein Recht, als die Absicht betrachtet zu werden, warum die Sache, die ihrem Wesen nach vergnügt, in der Welt ist. Diese Vermuthung ist so kräftig, daß man jemanden nicht glauben würde, der uns bereden wollte, daß der vornehmste Endzweck einer solchen Sache etwas anders, als das Vergnügen sey, wenn nicht die deutlichsten Proben vor Augen liegen, daß der Urheber und Schöpfer derselben etwas anders, als dieses, gewollt habe. Man giebt sonst zum Endzwecke der Dichtkunst zwey Dinge zugleich an, nämlich Vergnügen und Unterrichten. Dieses geschieht auch nicht ohne Grund […]. Wenn wir aber fragen, welches von beyden der Hauptzweck sey; so mögen die strengen Sittenlehrer sauer sehen, wie sie wollen, ich muß gestehen, daß das Vergnügen dem Unterrichten vorgehen, und daß ein Dichter, der vergnügt und nicht unterrichtet, in so fern er als ein Dichter betrachtet word, höher zu schätzen sey, als derjenige, der unterrichtet und nicht vergnügt.[15]

Questa concentrazione sull’atto della risposta estetica porta Schlegel a soffermarsi in particolare sugli elementi di variabilità e contingenza che influenzano la dinamica della ricezione. Tra questi, occupa un notevole rilievo il senso comune, vale a dire la disponibilità di rappresentazioni condivise nel sistema delle relazioni sociali in cui il destinatario è inserito. Se, così Schlegel, la predisposizione delle condizioni più favorevoli alla produzione del diletto non può fare a meno di un calcolo attento delle inclinazioni particolari che caratterizzano la psiche del destinatario stesso, tale previsione deve orientare l’attività formativa dell’artista tanto da indurlo a rinunciare, nel caso, al proprio sistema di rappresentazioni[16]. Il raggiungimento del fine, la promozione del piacere estetico, presuppone un accurato sondaggio delle strutture immaginali operanti nella comunità entro la quale l’opera d’arte è chiamata a dispiegare il proprio effetto. La priorità dell’accordo fra la prospettiva dell’autore e quella mediamente diffusa nei gruppi sociali di riferimento è talmente vincolante da legittimare, ove sia necessario, un’alterazione del principio di verosimiglianza. L’aspetto più significativo di questa increspatura a cui va soggetto il disegno teoretico di Schlegel sta nel fatto che lo scrittore si premura di ancorare tale scarto a una categorizzazione rigorosa, per quanto concettualmente ancora oltremodo primitiva, dell’indice di distinzione delle rappresentazioni mentali attive nella comunità dei destinatari, articolando tale comunità in «Kluge» e «Thoren» e individuando come elemento precipuo dei primi l’esistenza di un accordo preliminare circa i requisiti essenziali del buon gusto e del raziocinio. Schlegel chiarisce che l’artista di genio deve tendere a raccogliere il massimo possibile del consenso presso i propri contemporanei, impegnandosi in un delicato gioco di equilibri tra il soddisfacimento dei bisogni già formati del pubblico colto e l’innalzamento del gusto incerto dei gruppi non educati al commercio estetico, in modo da intraprendere una via mediana nella quale l’opera d’arte «so beschaffen seyn solle, daß es einen allgemeinen Eindruck auf alle Menschen machen könne, und daß es weder für Leute von geübtem Verstande zu schlecht, noch für diejenigen, die wenige Uebung des Verstandes gehabt, zu hoch sey, sondern für beyde auf einmal dienen könne»[17].

L’oscillazione tra un’interpretazione inflessibilmente mimetica della categoria di verosimiglianza, secondo il limite posto da Gottsched contro ogni possibile lettura estensiva, e un’apertura nella direzione di forme di dissimiglianza dotate della capacità di incrementare il diletto del pubblico senza compromettere l’effetto di verità dell’opera d’arte, è un’attitudine che Schlegel mette alla prova di preferenza nel laboratorio teorico riguardante la scrittura drammaturgica. Se nella Abhandlung, daß die Nachahmung der Sache, der man nachahmet, zuweilen unähnlich werden müsse, elaborata nel 1741 e poi pubblicata quattro anni dopo nei «Bremer Beiträge», mette in chiaro i fondamenti generali della questione, e teorizza che un’infrazione alla verosimiglianza è opportuna quando mira a rafforzare la verità complessiva dell’oggetto d’arte, a renderla comprensibile a quanti hanno un concetto errato o incompleto dell’oggetto stesso, oppure ancora quando serve a contrastare un’impressione sgradevole generata da una riproduzione eccessivamente fedele del brutto e del disgustoso, nello Schreiben über die Komödie in Versen (1740) Schlegel lumeggia il vantaggio che al poeta drammatico deriva dall’applicazione di alcuni rudimentali espedienti di straniamento. Il saggio prende forma come risposta alle posizioni che sullo stesso tema erano state espresse da un gottschediano di stretta osservanza, Gottlob Benjamin Straube, e finisce per svilupparsi come una difesa dell’impianto complessivo della speculazione gottschediana dagli eccessi di fervore dei discepoli più zelanti. La riduzione della verosimiglianza in alcuni frangenti della scrittura teatrale, così Schlegel, lungi dall’indebolire il diletto del pubblico, ha l’effetto di rafforzare la sensazione di unità e omogeneità che il pubblico stesso ricava dall’esperienza della finzione. L’uso del verso in particolare, se da un lato corregge gli aspetti ordinari e triviali inerenti a una rappresentazione mimetica della realtà, dall’altro potenzia l’ordine e la proporzione del dispositivo estetico, inducendo il destinatario a un tipo di apprezzamento che include la consapevolezza distinta del carattere finzionale del dispositivo stesso. La fedeltà al paradigma della verosimiglianza non è minimamente compromessa dal ricorso alla forma del verso, poiché la sua adozione non produce alcun divario tra la condizione dei personaggi e il modo della sua traduzione estetica, nel senso che «das Sylbenmaß verhindert gar nicht, weil es nur etwas zufälliges von den Worten ist, daß nicht die Worte mit den wahrscheinlichen Gedanken derjenigen, der sie vorbringet, die genaueste Uebereinstimmung haben könnten: und alle Worte in der Komödie können die größte Wahrscheinlichkeit haben, indem dieselbe nicht in ihrem Ver­hältnisse unter einander selbst, sondern in ihrer Uebereinstimmung mit den Gedanken, und in der Wahrscheinlichkeit der Dinge, die sie ausdrücken sollen, zu suchen ist»[18]. Le osservazioni di Schlegel sono su questo punto di particolare raffinatezza e prefigurano visibilmente le conclusioni alle quali un paio di decenni più tardi giungerà Lessing circa l’opportunità di calibrare l’artificio e il suo disvelamento per intensificare ulteriormente l’effetto della macchina drammatica.

Anche come teorico della tragedia, Schlegel guarda alla possibilità di un accordo fra il canone della verosimiglianza e la strategia di ordine wirkungsästhetisch alla quale si sente in ogni caso vincolato come drammaturgo. Nei Gedanken zur Aufnahme des dänischen Theaters, in particolare, la promozione di una finalità morale, che gottschedianamente è coordinata in modo indissolubile alla veridicità dell’azione e dei caratteri rappresentati sulla scena, appare come una funzione necessaria del diletto suscitato nell’animo dello spettatore. Il fondamento edonistico che Schlegel pone senza riserve alla base di una riuscita risposta estetica si dimostra tanto più pervasivo quanto più limpidamente l’autore di teatro riesce a fornire un’immagine completa delle questioni morali chiamate in causa dai personaggi, dalle loro condotte individuali e dalle loro relazioni reciproche. La persuasività dell’imitazione è di per sé fonte di divertimento, poiché pone lo spettatore a contatto con una forma risolta, nella quale si rende distintamente percepibile una sensazione di totalità che soddisfa un bisogno antropologicamente connotato, e poiché mette a disposizione dello spettatore stesso un quadro sintetico della realtà comune, ulteriormente potenziato dalla mancanza di qualunque appendice non strettamente coerente con il nucleo profondo e veritiero di quella realtà. «Das Theater», così Schegel, «würde seine Natur verändern, und nicht mehr unter die Ergetzlichkeiten gehören, wenn man nicht festsetzte, daß der Haupt­zweck desselben in demjenigen Vergnügen beruht, welches die Nachahmung der menschlichen Handlungen erwecket»[19].

Tale diletto, peraltro, viene identificato come il prodotto della sollecitazione congiunta di ragione e affetti, saldati in una concezione unitaria dell’umano che è visibilmente in accordo con uno degli assi più resistenti della speculazione settecentesca. Dove traccia il perimetro riservato all’interazione fra la sfera razionale e quella emotiva, il teorico chiarisce in ogni caso che l’evocazione delle passioni è il mezzo elettivo del discorso estetico, e che la capacità precipua del poeta drammatico sta nell’orientare il pubblico a confrontarsi con le passioni in modo che da tale confronto maturi una ferma disposizione al compimento del bene. Schlegel guarda con tutta evidenza a quel paradigma di morale incentrato sulla forza del common sense che diventerà centrale di lì a qualche anno nelle teorie di Lessing e nell’antropologia della Popularphilosophie. Il tragediografo, scrive Schlegel, non può ripromettersi alcun vantaggio dalla promozione esplicita delle norme morali che intende avvalorare con la propria opera; lungi dall’ammaestrare lo spettatore mettendo a sua disposizione un prontuario non discutibile di regole di buona condotta, il poeta deve cogliere con abilità l’occasione di promuovere l’attitudine morale del pubblico «durch eine genaue und feine Abschilderung der Gemüther und Leidenschaften»[20], incorporando nella scrittura drammatica il dato di fatto che «die Kenntniß des Menschen macht einen sehr wichtigen Theil der Sittenlehre aus» e che, a chiusura del cerchio, «diese Kenntniß besteht größtentheils in der Kenntniß der Charaktere und Leidenschaften»[21].

Come si vede, Schlegel è senz’altro assai lontano dal credere che l’effetto elettivo della rappresentazione drammatica consista nel contagio emotivo del pubblico. Egli pensa semmai a favorire un’inclinazione cognitiva nei confronti delle passioni, accesa dalla coerenza e dall’interesse della rappresentazione estetica, nonché corroborata dall’appropriatezza degli strumenti formali adoperati per dare corpo alla finzione scenica. L’impiego di retoriche adeguate al carattere dei personaggi è un requisito essenziale per il buon esito della messinscena drammatica. Schlegel dedica a questo argomento l’introduzione all’edizione dei Theatralische Werke che pubblica nel 1747, un testo palesemente orientato verso un campo di attuazione pragmatico (il teatro nella sua concreta medialità e nelle sue strutture effettive, in un’epoca di crescente professionalizzazione e di stabilizzazione del personale nel corpo di organismi, come il Teatro Nazionale di Copenhagen, concepiti per offrire a una comunità un riferimento culturale di lungo periodo), che a partire dall’edizione definitiva degli scritti di Schlegel, quella curata dal fratello Johann Heinrich per il Verlag der Mummischen Buchhandlung tra 1761 e 1770, si ritrova sotto l’intitolazione di Von der Würde und Majestät des Ausdrucks im Trauerspiele. Qui Schlegel osserva come il registro espressivo dei personaggi tragici debba essere calibrato sul carattere dei personaggi stessi, sull’orientamento generale dell’azione, nonché sulla finalità perseguita dal dramma. Sono di particolare interesse, in questo saggio, i rilievi che l’autore formula sulle modalità nelle quali il temperamento dell’eroe drammatico debba assumere una configurazione materiale attraverso il linguaggio attribuitogli dal poeta.

La necessità di un registro sublime viene sostenuta da Schlegel non sulla base della convenzionale equivalenza tra l’elevatezza del genere tragico e la collocazione sociale dei personaggi ammessi a farne parte, ma a partire da un obbligo di coerenza fra il temperamento dell’eroe, che prende corpo innanzi tutto nel modo in cui costui osserva un inflessibile contegno dinnanzi ai rovesci della fortuna, e la manifestazione di tale temperamento tramite il linguaggio. L’esemplarità del protagonista si rende percepibile innanzi tutto nella coerenza delle sue attitudini, le quali appaiono evidentemente definite sul modello di una stoica imperturbabilità di fronte all’imperversare di passioni eccedenti. La superiorità dell’eroe tragico non è legittimata dal tipo di materie delle quali è chiamato a occuparsi in virtù del suo posizionamento nella comunità, ma dalla sua capacità di serbare e rendere tangibile il pieno controllo sulle sollecitazioni affettive alle quali è sottoposto, corroborando il dominio materiale che esercita sui vicini attraverso l’esercizio di una sapiente sprezzatura, che non annulla gli effetti delle emozioni, ma, per così dire, li normalizza subordinandoli alla primazia di una morale superiore. «Die Gemüthsbewegungen lehren den Menschen kennen», scrive Schlegel evocando l’immagine di quell’individuo armoniosamente sviluppato in tutte le componenti della propria umanità nel quale troverà espressione il disegno di totalità a fondamento dell’antropologia settecentesca; «ein wohlerzogenes Gemüth läßt sich nirgends edler finden, als in den Leidenschaften, so wie eine pöbelhafte Seele sich nirgend niederträchtiger sehen läßt»[22]. Non si tratta, dunque, di sottrarsi all’influenza degli affetti, congelando le proprie disposizioni nella simulazione di un decoro inaccessibile, secondo i codici della décence propria del classicismo francese, ma di esporsi a tale influenza dando prova mediante il linguaggio del possesso di una dignità alimentata esattamente dalla conoscenza degli affetti.

È in questo senso assai significativo il disaccordo dello scrittore in merito al giudizio espresso da Gottsched nell’ambito di un confronto fra Dido e Herrmann, due tragedie di Schlegel composte rispettivamente nel 1739, nel periodo conclusivo del ciclo di studi compiuto a Schulpforta, e nel 1741. Nell’introduzione alla quinta parte della Deutsche Schaubühne, nel 1744, Gottsched si era espresso a favore della prima, vedendovi soddisfatto quello che gli appariva come il requisito dirimente del genere tragico: la rappresentazione della rovina dell’eroe. In Herrmann, al contrario, la scelta di incentrare il dramma su un personaggio destinato a imporre la propria volontà e ad avere il sopravvento sull’opposizione dei suoi antagonisti avrebbe indirizzato l’opera nella direzione antitragica di una pura e semplice raccolta di massime esemplari, costellata di «erhabene Sittensprüche», «schwülstige Gedanken» e una «tiefsinnige Metaphysik in Gegensätzen und Spitzfindigkeiten»[23]. In realtà per Schlegel la caratterizzazione del personaggio tragico prescinde completamente dall’estremità del suo destino e, di conseguenza, anche dall’uso di un linguaggio degli affetti iperconnotato. Se Schlegel non mette in discussione il presupposto classicistico della teoria gottschediana, per cui l’efficacia della rappresentazione drammatica si misura in primo luogo sulla pervasività del sentimento di ammirazione che il protagonista genera nel pubblico, è tuttavia altrettanto evidente che questo sentimento è alimentato con la massima intensità possibile dalla saldezza del carattere del protagonista stesso, e prescinde per questo dallo sviluppo dell’intreccio, il quale può dunque non prevedere affatto una conclusione catastrofica. Nella parte finale del trattato sul linguaggio della tragedia, Schlegel rivendica apertamente la piena sostenibilità tragica di un personaggio come Herrmann, collegandola non tanto al contenuto delle sue affermazioni (che è ovviamente determinato dagli accadimenti che hanno luogo nel dramma), quanto alla saldezza d’animo e all’energia interiore di cui queste stesse affermazioni appaiono intrise:

Gedanken, die mit ihrem gehörigen Nachdrucke vorgetragen sind, sind kein Orakel, und an einander hängende Reden, welche einen Verstand verrathen, der lebhafte Vorstellungen von den Dingen hat, sind keine Sinngedichte. Es geht nirgends leichter an, die Namen der redenden Personen hinzusetzen, wohin man will, als in denenjenigen Trauerspielen, wo die Helden nichts, als gleichgültige Erzählungen, und mit gezwungenen Ausrufungen vermischte gemeine Dinge vorbringen. Diese schicken sich für einen Charakter so gut, als für den andern. Hingegen da ein jeder Mensch eine Sache auf eine andere Art betrachtet, so kann es nur sehr selten und fast niemals gleichgültig seyn, wem ich eine Rede, die voll Gedanken ist, in den Mund legen will.[24]

Il rapporto fra personaggi e azione è un argomento costante nei saggi di Schlegel sul genere tragico. Anche a questo riguardo, lo scrittore assume posizioni non completamente coincidenti con quelle di Gottsched, il quale aveva privilegiato la consolidata tradizione aristotelica, attribuendo alla linearità dell’intreccio un primato non discutibile rispetto all’interesse suscitato dai singoli caratteri. Senza spingersi a ribaltare le conclusioni di Gottsched, Schlegel si concentra sul modo in cui un carattere tragico provvisto di per sé di energia e piena coerenza emotiva interferisca con il corso generale dell’intreccio, potenziandone l’effetto sullo spettatore. La discussione di questi aspetti va di pari passo con gli interessi critici dell’autore, i quali trovano nei momenti apicali della storia del teatro un terreno di coltura adatto anche al chiarimento delle prerogative e dei compiti di un teatro moderno, capace di soddisfare i bisogni spirituali degli uomini del presente. Pensando ai tempi di sviluppo nella storia delle teorie teatrali del diciottesimo secolo, colpisce la precocità con la quale Schlegel liquida il classicismo francese in favore dei Greci e di Shakespeare, che vede sostanzialmente accomunati da un ideale di naturalezza riflesso al grado più alto nella forza dei caratteri rappresentati, nonché nella loro capacità di guidare l’azione senza lasciarsene determinare.

Dei Greci, Schlegel apprezza appunto la riluttanza a subordinare il destino dell’eroe al meccanismo preordinato di un intreccio geometrico. Nel Filottete di Sofocle, che è al centro delle brevi, serrate annotazioni elaborate nel 1739 come Auszug eines Briefs, welcher einige kritische Anmerkungen über die Trauerspiele der Alten und Neuern enthält, Schlegel vede realizzato il modello di una corrispondenza virtuosa fra i moventi individuali del personaggio e la contingenza nella quale è chiamato a operare: «alle Zufälle», si legge, «fließen aus den Charakteren der Personen»[25]. L’importanza del carattere spinge Schlegel a correggere il paradigma di derivazione aristotelica, secondo il quale la scrittura tragica saprebbe attingere a un livello di verità più profonda rispetto alla narrazione storiografica, per la sua capacità di rivelare la logica generale dei fatti e di presentare in una sintesi suggestiva il quadro delle motivazioni, delle aspirazioni e delle attitudini che hanno animato la condotta dei protagonisti della storia. Schlegel ritiene, al contrario, che l’eccesso di convenzionalità che intride il teatro francese, oscurando qualunque comprensione prospettica delle vicende rappresentate e banalizzando la sostanza di tali vicende con il ricorso a stereotipate soluzioni di argomento sentimentale, obblighi il poeta tragico a risalire alle fonti della tradizione storiografica: «es ist die Natur der Menschen, daß sie nach ihren Charakteren handeln. Diejenigen also, die uns die Ursachen der Handlungen entdek­ken wollen, wie solches die Pflicht eines Geschichtschreibers ist, müssen uns nothwendig die Charaktere derer entdecken, welche Theil daran gehabt haben»[26]. Un vincolo, quello del teatro nei confronti del racconto storico, che Schlegel ribadirà introducendo il Canut (1746), quando chiarirà che, se le due scritture sono collocate su piani differenti, la storiografia è portatrice di una visione sinottica e complessa delle cause che presiedono al dinamismo dell’azione, mentre il poeta drammatico deve concentrarsi su «Neben­umstände», dilatandoli molto oltre la loro portata reale, secondo una tecnica di amplificazione che in ogni caso non turberà chi della storia possieda gli «Hauptbegriffe»[27].

L’apprezzamento di Shakespeare ha ugualmente a che fare con l’efficacia del drammaturgo nella definizione dei caratteri tragici. Schlegel osserva come in generale le tragedie degli inglesi contengano «mehr Nachahmungen der Personen, als Nachahmungen einer gewissen Handlung»[28], il che tra l’altro risulta con particolare chiarezza dalla frequenza con cui, in Shakespeare, la scrittura tragica ricorre al mezzo (del tutto antidrammatico in una prospettiva aristotelica) della presentazione di un personaggio da parte di una delle altre figure impegnate nell’azione. L’accumulo di denotazioni descrittive, se da una parte rimanda alla cura e alla ponderazione che lo scrittore ha riservato all’elaborazione dell’eroe, dall’altra finisce chiaramente per spezzare la continuità dello sviluppo drammatico, concentrando l’interesse dello spettatore su una digressione di ordine narrativo. La strutturazione di personaggi lineari nelle loro motivazioni e interessanti per la suggestione prodotta dalle peculiarità del loro carattere appare peraltro a Schlegel come una procedura intesa a soddisfare un principio di verità intimamente connaturato all’ambito della rappresentazione estetica. Sempre nella prospettiva di quell’accordo fra storiografia e finzione che ritiene prioritario per la buona riuscita di un’opera drammatica, Schlegel riconosce a Shakespeare il merito di aver variato l’immagine storicamente documentata dei suoi personaggi in modo sufficientemente incisivo da tutelare la loro verità poetica,

 

Johann Elias Schlegel, Canut. Ein Trauerspiel, Copenhagen, Mumme, 1746.
Frontespizio della prima edizione. Esemplare presso l’autore del saggio.

e tuttavia senza distorcere il loro aspetto reale, adempiendo così a un requisito di coerenza che viene invece sistematicamente disatteso nel gusto romanzesco che sarebbe tipico del classicismo francese. «Man kann den Charakter einer Person, die in der Historie bekannt ist», così Schlegel, «zwar in etwas ändern, und entweder höher treiben, oder etwas weniger von seinen Tugenden und Lastern in ihm abbilden, als die Geschichte ihm zuschreibet. Aber wenn man weiter gehen wollte, so würde man mit seiner Menschenmacherey mehr zum Romanenschreiber, als zum Dichter werden»[29]. La tutela di questo equilibrio di fondo permetterebbe a Shakespeare di operare sui caratteri del dramma con una libertà di invenzione sempre funzionale alla plausibilità dell’intreccio. L’inclinazione del drammaturgo a «seine Menschen selbst zu bilden»[30] sarebbe in ogni caso corroborata dall’esercizio di un fermo controllo sulla tradizione storica avvalorata dalle fonti, il che permetterebbe a Shakespeare, in conclusione, di connettere nella forma più trasparente il singolo personaggio alla comunità che lo circonda, realizzando quell’ideale di conformità fra il poeta e il sentimento diffuso della propria nazione che nei Gedanken zur Aufnahme des dänischen Theaters Schlegel avrebbe indicato come il fondamento necessario di ogni nuova impresa teatrale.

Questa implicita politicità della scrittura drammatica si ritrova al centro del Canut, la tragedia di Schlegel che, per l’ampiezza della sua ricezione, fissa più saldamente l’immagine dell’autore nella storia del teatro del Settecento. L’opera segna un momento di revisione radicale del modello di tragedia eroica che aveva caratterizzato il Trauerspiel barocco[31]. Il presupposto della sovranità in capo all’eroe eponimo – il quale è modellato sul personaggio storico di Knut il Grande, il re che nell’XI secolo riunì sotto il proprio dominio Danimarca, Norvegia, Inghilterra e Svezia meridionale, portando a compimento la cristianizzazione della Scandinavia – non risiede nella tradi-zione e non poggia sul diritto di successione, ma coincide con l’esercizio attivo, da parte del sovrano, di un vasto corredo di requisiti di umanità che temperano l’assolutezza del potere, rinsaldano i legami all’interno della comunità e indicano alla comunità stessa un orizzonte futuro lungo il quale costruire in modo attivo forme più avanzate di convivenza collettiva. Al tradizionale eroismo dell’intrapresa, sul quale si fondava una rappresentazione del personaggio tragico tutta incentrata sul dinamismo del desiderio e sulla capacità di affermare il proprio volere superando la resistenza degli antagonisti, subentra un eroismo della mitezza e della sopportazione, che ha come obiettivo la difesa del contratto sociale mediante la tutela del diritto su cui poggiano l’uscita dallo stato di ferinità e la cessione al sovrano del monopolio della forza[32].

Questa disposizione umanitaria che permea senza soluzione di continuità la condotta di Canut si esercita in particolare nel rapporto con Ulfo, il nobile che, dopo aver ottenuto con l’inganno di sposare la sorella del re, Estrithe, cerca con ogni mezzo di impadronirsi del potere, distinguendosi per una instancabile propensione alla frode e alla menzogna. A ogni nuova nefandezza di Ulfo segue l’offerta della clemenza del sovrano, regolarmente respinta dal rivale, il quale appare dominato da un’irrefrenabile aspirazione alla gloria individuale, perseguita fuori da ogni possibile sistema di ordinamento civile. Il rapporto tra Canut e Ulfo polarizza il conflitto alla base della tragedia e al tempo stesso lo rende visibile. Le relazioni reciproche tra gli altri personaggi, infatti, anche dove prendono la piega del disaccordo e dell’inimicizia, rispondono in realtà a una motivazione contingente e destinata a essere superata dal chiarimento dell’intreccio. Così è, per esempio, nel caso di Estrithe e Godewin; dopo la separazione determinata dal raggiro di Ulfo, che oltre a ingannare Estrithe suggestionandola con una falsa interpretazione di un messaggio di Canut ha anche diffuso voci malevole sul conto di Godewin, la donna ha parole di sdegno («Ich schäme mich noch itzt, daß du mein Herz besessen, / Mich kränkt noch diese Schmach; und du hast sie vergessen? / Du trittst nach solcher That noch kühn vor mein Gesicht?»)[33] che riflettono tuttavia non un dissidio di principio, ma una lesione limitata e come tale componibile. Nell’irredimibile discordia che oppone il sovrano e il suo antagonista, al contrario, prende corpo l’opposizione cruciale del dramma, vale a dire il contrasto fra natura e diritto.

È vero, come è stato sostenuto[34], che l’opera di Schlegel chiama in causa la privatizzazione di alcune procedure convenzionalmente legate all’ambito pubblico, e in questo modo segna il dissolversi della teologia politica che aveva sorretto la concezione di sovranità al di qua del Moderno, annunciando il nuovo dominio dell’assolutismo illuminato. Questo cambio di paradigma si manifesta, oltre che nella nuova interpretazione del fondamento di legittimità del regnante, anche e soprattutto nella definizione, esplicitamente sostenuta dallo stesso Canut, di un perimetro degli affetti al riparo dall’esercizio del potere, nel quale la benevolenza del sovrano è libera di dispiegarsi senza che ne derivi una limitazione di sovranità, poiché obbedisce a un impulso universalmente umano. «Estrithe, fürchte nichts! Er ist durch dich beschützt. / Den fällt kein Zorn von mir, den deine Liebe stützt. / Er soll, ist nicht sein Herz der Menschheit ganz entrissen, / Da ihr mich ehren lernt, zugleich mich lieben müssen»[35] – così, all’inizio del terzo atto, Canut prova a vincere la ritrosia di Estrithe, che vorrebbe intercedere per Ulfo, ma teme in questo modo di venir meno agli obblighi di lealtà nei confronti del marito, del quale fino a quel momento ha in un modo o nell’altro appoggiato la causa. Il consolidamento della sfera privata, tuttavia, non implica affatto una perdita di politicità della scrittura drammatica. Sulla valorizzazione degli affetti individuali, intesi non come un principio di resistenza nei confronti della pervasività del potere, ma – al contrario – come il terreno sul quale promuovere processi di umanizzazione del potere stesso, si gioca una partita di senso decisiva per la modernizzazione delle condotte sociali e delle pratiche politiche, e tale partita prevede necessariamente la stigma-tizzazione del malvagio come portatore di un impulso contrario all’ordinata costruzione dell’edificio comunitario[36].

Ulfo, che solo una anacronistica forzatura può spingere a leggere come un precursore della tipologia del ribelle tipica della drammaturgia dello Sturm und Drang (nel senso che su questo personaggio, da parte dell’autore, ricade un giudizio negativo privo di qualunque ambiguità, se egli non è perfino l’oggetto, come ha provato a dimostrare Georg-Michael Schulz[37], di una articolata strategia intesa a depotenziarne ogni capacità suggestiva con i mezzi del ridicolo e del grottesco), è nella logica complessiva del dramma l’irriducibile antagonista del sovrano non tanto perché aspiri a impadronirsi del potere rovesciando gli equilibri esistenti, quanto perché la sua azione è alimentata da una invincibile diffidenza nei confronti di quei meccanismi – la cessione della forza, la mediazione dei conflitti e la rappresentazione della sovranità intesa come prodotto di un mandato di rappresentanza da parte di tutta la comunità – che costituiscono l’ossatura dello stato moderno e impongono di ridefinire non soltanto la figura del sovrano, bensì anche l’identità e le competenze dei cittadini. In questo senso, coerentemente con le posizioni dello Schlegel teorico del dramma, le caratteristiche individuali del personaggio, prima ancora che venire illuminate dall’andamento dell’intreccio, imprimono a loro volta un segno indelebile sull’intreccio stesso e finiscono per determinarne il corso fondamentale[38]. L’appartenenza di Ulfo a un orizzonte di valori arcaico e primordiale[39], voglio dire, non può che trovare espressione in un sistema di affermazioni, comportamenti, inclinazioni prossemiche – per farla breve, in uno stile – che orienta lo sviluppo dell’azione in modo assai più incisivo che le vicende legate ai fatti che si snodano nel dramma.

Tali fatti, del resto, vengono così sistematicamente contraddetti dal modo in cui i personaggi provano a riassorbirli, riconducendoli alla loro logica privata, da apparire assai poco significativi. Gli intrighi e i tradimenti di cui Ulfo è responsabile non sono semplicemente accolti dagli altri personaggi con inflessibile spirito di compostezza, il che rimanderebbe alla morale stoica connaturata all’estetica dell’ammirazione, ma diventano anche l’oggetto di una terapia attiva di conversione del malvagio talmente insistente che lo stesso Ulfo, in vari segmenti del dramma, è portato a indicare la chiave del proprio fallimento non tanto nel concreto insuccesso dei propri progetti, quanto nell’inesauribile propensione al perdono che gli viene manifestata dalle vittime delle sue malefatte. Anche quando Ulfo progetta un attentato ai danni di Canut, che viene sventato solo grazie alla fedeltà del principe Godschalk, il re si affretta a prospettargli un atto di clemenza in cambio – è il punto decisivo – non di una riparazione materiale o di una manifestazione di sostegno politico, ma di una dichiarazione di penti-mento[40]. Canut ragiona cioè secondo un paradigma di sovranità per il quale la subordinazione dei sudditi non è il risultato della loro debolezza, ma è l’espressione di una volontà positiva che si rende riconoscibile, molto prima che nella dimensione pubblica e nella pratica collettiva, nella privatezza della sfera affettiva[41]. Nel quinto atto della tragedia, Estrithe e Godewin, che vorrebbero indurre Ulfo a riconoscere l’indegnità del suo comportamento accettando la benevolenza del sovrano, ricorrono appunto al linguaggio delle lacrime, inequivocabile nella prospettiva dell’Empfindsamkeit. Ulfo, che è incapace di condividere la simbologia mobilitata dagli altri due, e si attiene senza cedimenti a una logica pragmatica, tutta incentrata su relazioni di forza materialmente misurabili, non può che respingere con indignazione le sollecitazioni alle quali è sottoposto:

Godewin. Verehr die Macht, zu der ihn Recht und Gott erheben.
Der Himmel konnte sie nie einem Größern geben.
Zum herrschen braucht man mehr, als Ruhmbegier und Muth.
[…]
Freund, dessen Unglücksfall zuerst mich weinen lehrt!
Sprich, daß es dich gereu, und leb und sey geehrt!
Wenn dir es rühmlich scheint, nicht der Gewalt zu weichen:
Durch Huld besiegt zu seyn ist ja der Großmuth Zeichen.
Ulfo. Spar deine Thränen nur! Man führe mich zurück!
[…]
Mein Herz, das, wer ich bin, auch sterbend nicht vergißt,
Weis, welchen Schluß es nun sich selber schuldig ist.
Das Glück haßt meinen Ruhm, und will mich nicht erheben.
Was dieses mir versagt, will ich mir selber geben,
Und zeigen, was es mir für Unrecht angethan,
Und daß man auch durch Muth das Schicksal trutzen kann.[42]

La condotta di Ulfo poggia sul presupposto eminentemente premoderno in base al quale il valore dell’individuo si dimostra attraverso la forza delle sue conquiste in un regime di non disciplinata concorrenza con un gruppo di antagonisti[43]. La mancanza di moderazione del personaggio è strettamente correlata al suo desiderio di vedere pubblicamente riconosciuta l’efficacia della propria volontà di potenza. Il suo ostinato vitalismo («Kein Unglück ist so groß, als lebend todt zu seyn. / Wenn unsre Thaten uns nicht aus dem Dunkeln heben; / Was für ein Unterschied ist leben, und nicht leben?»)[44] aspira a esercitarsi nello spazio non regolato di un conflitto perenne, entro il quale possa trovare soddisfazione un impulso al possesso che è chiaramente connotato in termini primari e biologici. Quando, nel secondo atto, Godewin gli chiede conto delle calunnie diffuse circa la sua presunta mancanza di coraggio in occasione di uno scontro militare, Ulfo non ha difficoltà a rivendicare la responsabilità di quelle menzogne, poiché esse, dal suo punto di vista, non sono che lo strumento pienamente legittimo tramite il quale dare corpo al suo diritto di dominio[45]. La sua continua ricerca di sostenitori disposti ad appoggiarlo nel suo disegno di rovesciare Canut non si basa mai su un istinto libertario o sulla denuncia dei limiti del governo del sovrano, bensì soltanto sull’affermazione del proprio vigore virile e della propria prontezza a carpire il vantaggio del più forte. Questa è la logica che adombra allo stesso Godewin nel momento in cui gli propone di associarsi a lui nella sfida a Canut:

Find ich denn überall, so eifrig ich hier suche,
Kein Herz, das edel sey, und das der Herrschaft fluche?
Rühmt mir denn jeder nur des Königs Gütigkeit?
Ist keiner, der sich nicht ihm zu gehorchen freut?
[…]
Sind diese Zeiten denn so ganz von Helden leer?[46]

L’idealizzazione di un’epoca passata, nella quale l’energia degli individui di eccellenza poteva dispiegarsi senza alcuna limitazione, va di pari passo con la svalutazione del presente, nel quale la volontà dei forti sarebbe inibita dalla fiacchezza del carattere di tutti gli altri. L’eroismo propugnato da Ulfo si disegna lungo questo orizzonte elementare e privo di mediazioni, nel quale i singoli soggetti affidano l’affermazione della propria identità alla pura e semplice realizzazione dei propri disegni, in un sistema di bellum omnium contra omnes ancora non contrastato da alcuna forma di patteggiamento o di vincolo sociale. Ulfo evoca in modo esplicito una situazione di conflitto permanente nella quale ambizione e desiderio di gloria (la «Ruhmbegier» che costituisce uno degli assi portanti della sua visione del mondo, e della quale, nei versi conclusivi della tragedia, Canut dirà efficacemente che «[…] die Ruhmbegier, der edelste der Triebe, / Ist nichts als Raserey, zähmt ihn nicht Menschenliebe»)[47] trovino uno spazio di esplicitazione innanzi tutto all’interno della propria comunità, la quale è vista non come un corpo identitario compatto, bisognoso di tutela dalle insidie provenienti dall’esterno, ma come la somma di volontà contrastanti, destinate a persistere in una relazione di conflitto finché non ne emerga una dotata della forza necessaria a sottomettere tutte le altre. Ulfo orienta le proprie azioni nell’ottica di una concezione agonistica e feudale dell’onore, alimentata da una tensione inesauribile alla subordinazione dell’altro e da una brama vitalistica così intimamente autoreferenziale da non potere mai trovare alcuna soddisfazione:

O Ehre! wer nur dich einmal geschmecket hat,
Wird stets von dir gereizt, und niemals von dir satt.
Ein Sieg ist nicht genug, um Helden zu vergnügen.[48]

La distruttività annidata in una disposizione del genere non può infine che ritorcersi contro chi ne è portatore. Il rifiuto di accettare la clemenza di Canut in cambio di una manifestazione di ravvedimento morale viene motivato da Ulfo, con un paradosso soltanto apparente, come l’unico atto in grado di testimoniare tangibilmente l’irriducibilità della sua natura, sottraendolo – tramite la morte – a un ordine di valori non conciliabile con la sua concezione del mondo. Il cedimento al dominio del sovrano non implica il riconoscimento della superiorità morale di costui, bensì solamente la disincantata attestazione di un’irrimediabile differenza di forze: «Erkenn entwaff­net noch des Ueberwinders Hand, / Den nicht die Tapferkeit, nur Macht und Menge band. / Was meinen Ruhm erhebt, hab ich mich stets erkühnet; / Thu nun, was deinem Ruhm und deinem Throne dienet»[49].

L’ordine morale invocato da Canut, di contro, mira non alla difesa della sovranità o all’imposizione di un appetito individuale, ma alla garanzia di un interesse generale e come tale sovrapersonale. «Canut ist immer noch der Held voll Gütigkeit, / Der nur aus Zwange zürnt, aus Neigung stets verzeiht»[50] – così Gunilde incoraggia Estrithe ad affidarsi senza preoccupazione all’indulgenza del fratello al ritorno dalla campagna militare intrapresa da Ulfo per porre fine al regno di Canut. Mansuetudine e senso di umanità vengono presentati come disposizioni al servizio della sicurezza e del benessere della collettività. L’assoggettamento di tutte le parti sociali al vincolo comunitario si esprime nel trasferimento in capo al regnante di una sovranità indivisa, non esposta a interessi limitati, il cui esercizio obbliga il regnante stesso all’astensione da qualunque passione egoistica e alla piena identificazione con la causa comune. Questo paradigma di sovranità – che riflette la transizione dall’ordinamento feudale a quello dello stato moderno, e che Schlegel sviluppa animato da una sicura competenza in materia di filosofia politica[51], rendendone destinatario quel Federico V il cui regno, secondo un’attesa diffusa presso i contemporanei, avrebbe portato un’epoca di incivilimento e progresso – si delinea in modo assai chiaro in occasione del duello fra Godewin e Ulfo. L’indignazione che Canut manifesta quando apprende che i due contendenti, anziché affidarsi alla mediazione del sovrano, hanno stabilito di affrontarsi in combattimento (dunque di ricadere in una logica materiale, corporea, non simbolica), è alimentata dal rifiuto di una pratica intesa a scaricare all’interno della collettività l’energia compressa della cupidigia individuale, mettendo così a rischio la coesione e la stabilità del corpo sociale. Nelle parole di Canut, che si affretta a dare disposizioni perché Godewin e Ulfo vengano distolti dal loro proposito, si annunciano gli effetti di una concezione contrattualistica delle relazioni sociali, in base alla quale il singolo soggetto è parte di un dispositivo impersonale che trascende la sua volontà, e che impone ai suoi appetiti il freno della volontà generale e del diritto[52]:

Haquin, ruf aus dem Kampf sie beyde gleich herbey.
Sag ihnen, daß ihr Blut des Vaterlandes sey;
Daß ich den wilden Muth, der Zwietracht suchet, hasse,
Und niemand Unrecht thun noch Unrecht leiden lasse;
Daß den Beleidiger mein Arm zur Strafe zieht,
Und dessen Sache führt, der sich beleidigt sieht.
Ich will nicht, daß mit mir Gewalt und Zwist regieren,
Und Bürger meines Reichs mit Bürgern Kriege führen;
Und daß man den erhebt und noch mit Ruhm bekrönt,
Der der Geselligkeit geweihte Rechte höhnt.
[53]

L’uscita da una visione privatistica dei rapporti fra gli uomini segna in termini biopolitici il passaggio a un esercizio dematerializzato e incorporeo della sovranità. Gli apparati del diritto, nella rappresentazione che ne dà Canut, si basano sul temperamento della vitalità mediante il principio astratto (perché non coincidente con i bisogni di un individuo in particolare) del bene comune, sul contenimento di quell’impulso naturale all’affermazione di sé che di lì a poco Rousseau avrebbe teorizzato in termini destinati a orientare tutto il dibattito settecentesco sull’origine della società.

Nonostante la sollecitudine di Canut, il duello non può essere impedito. Ulfo, che è riuscito a disarmare Godewin, stabilisce di salvargli la vita e di considerarsi appagato dall’umiliazione inflitta all’avversario. Quando apprende come si sono svolti i fatti, Canut si premura innanzi tutto di disinnescare il paradigma di onore di cui Ulfo si ritiene portatore, collocando l’interesse della collettività in posizione preminente rispetto a quello del soggetto («Die Großmuth seh ich zwar, wo ist die Bürgertreu? / Ich will, daß dieser Sieg hinfort der letzte sey, / Wo Glieder Eines Staats gewinnen und verlieren, / Und Bürger im Triumph die Nebenbürger führen»)[54]. L’emancipazione dalla sfera ristretta dell’egoismo individuale implica la transizione a una dimensione sublimata, nella quale il possesso materiale di beni e altri segni di distinzione è sostituito da forme simboliche di appagamento come la soddisfazione di sé e la serenità della propria coscienza. In questo senso Godewin, che in tutti i passaggi della tragedia qualifica se stesso come il suddito esemplare, oramai estraneo all’orizzonte feudale e premoderno incarnato da Ulfo, aderisce con prontezza al nuovo regime di senso annunciato da Canut:

Ich bin von dir besiegt, und darf es mich nicht schämen.
Besiegt seyn ist kein Schimpf, und stark seyn ist kein Ruhm;
Die Ehre bleibt allein des Herzens Eigenthum.
[55]

Nel ritmo ampio e disteso dell’alessandrino, così propizio al tratto formulare di certe soluzioni gnomiche molto frequenti nella scrittura di Schlegel, si costituisce qui il nuovo assetto della virtù nella cultura del diciottesimo secolo. La privatizzazione e l’interiorizzazione del sentimento di onore sono già protese verso quella dimensione di gratuità e disinteresse che intriderà la concezione di morale del tardo Settecento.

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[1] Questo è per esempio il giudizio dominante nella oramai lontana monografia di Luigi Quattrocchi: Il teatro di Johann Elias Schlegel, Roma 1965, che è tuttora l’unico studio in lingua italiana dedicato al complesso dell’attività di Schlegel.

[2] Aurelio de’ Giorgi Bertola: Idea della poesia alemanna, Napoli 1779, p. 47.

[3] Ivi, p. 61. L’espressione modifica leggermente una locuzione contenuta nel sonetto CCXLVIII del Canzoniere di Petrarca.

[4] Cfr., per una discussione critica di questo stereotipo, ove riferito a Schlegel, Georg-Michael Schulz: Die Überwindung der Barbarei. Johann Elias Schlegels Trauerspiele, Tübingen 1980, pp. 1-8.

[5] Cfr. l’ancora utile studio di J. W. Eaton: The German Influence in Danish Literature. The German Circle in Copenhagen 1750-1770, Cambridge 1929. Su Schlegel in particolare Heinrich Detering: Die Nation der Poesie. Johann Elias Schlegel und die Seinen, in Skandinavistik, 24, 1994, pp. 85-102 e Lena Kühne: Johann Elias Schlegels Bedeutung für Dänemark, insbesondere für das dänische Theater 1747-1749, in Text & Kontext, 20, 1997, pp. 255-290.

[6] Un servizio destinato in effetti, a quest’altezza, a sanare una lacuna reale, se si sta alle parole che Gottsched indirizza a Schlegel in una lettera del 30.12.1742, a proposito del suo trasferimento in Danimarca: «Diese Reise nach Copenhagen, und der Aufenthalt an dem Dänischen Hofe wird Denenselben vielfache Gelegenheit geben, Dero Eigenschaften und Geschicklichkeit vollkommener zu machen. Und wenn Dännemark nicht so viel Witz und Wissenschaft aufzuweisen hat, als Sachsen: so werden doch E. H. desto mehr Ehrlichkeit und Gutherzigkeit daselbst antreffen» (Johann Christoph Gottsched: Briefwechsel. Histo­risch-kritische Ausgabe. Hrsg. von Detlef Döring und Manfred Rudersdorf, vol. IX: November 1742 – Februar 1744, Berlin – Boston 2015, p. 64).

[7] Cfr. Maurizio Pirro: Estetica del comico e funzioni della commedia nell’opera di Johann Elias Schlegel, in Prospero, 22, 2017, pp. 7-29.

[8] Rainer Baasner: Nachwort, in Johann Elias Schlegel: Theoretische Texte. Hrsg. von Rainer Baasner, Hannover 1999, pp. 120-127 (qui p. 122).

[9] Johann Elias Schlegel: Von der Nachahmung, ivi, pp. 27-83 (qui p. 28).

[10] Ivi, p. 29.

[11] Ivi, p. 36.

[12] Ivi, p. 39.

[13] L’orizzonte wolffiano di Schlegel si disegna con particolare chiarezza lì dove, nel tracciare un parallelo tra la poesia e la filosofia, l’autore specifica che, se la riproduzione estetica di un oggetto si fonda sulla capacità dell’artista di restituire in modo corretto le relazioni di proporzionalità che sussistono fra le parti dell’oggetto stesso, tale capacità presuppone necessariamente il possesso di nozioni chiare e distinte circa la costituzione del modello: «Wer sich vorsetzet, etwas nachzuahmen, der will machen, daß die Theile des Bildes mit den Theilen des Vorbildes einerley Verhältniß haben. Er muß also die Theile des Vorbildes, von einander unterscheiden können, das ist: er muß deutliche Begriffe von dem Vorbilde haben. Dieses zeigt einen sonderbaren Nutzen der Dichtkunst, daß sie nämlich der Philosophie behülflich ist, und ihre Liebhaber geübet macht, sich deutliche Begriffe von den Dingen zu bilden, und an den Sachen dasjenige zu beobachten, was sie vor andern kennbar machet» (ivi, p. 46).

[14] Valgono tuttora, in proposito, le osservazioni di Elizabeth M. Wilkinson: «Schlegel […] protests against the relegation of poetry to the position of a servant of morality. His insistence on pleasure as its essential function aims at distinguishing the effect arising out of a work of art as such, from any other incidental effects» (Johann Elias Schlegel. A German Pioneer in Aesthetics, Darmstadt 19732, p. 67).

[15] Johann Elias Schlegel: Von der Nachahmung, cit., pp. 56-57.

[16] «Derjenige, welcher nachahmet, muß sich nach den Vorstellungen derer richten, die das Bild vergnügen soll. Das ist, wenn sie eine andre Vorstellung von dem Vorbilde haben, als es in der That beschaffen ist; muß er nicht mehr die Sache selbst, die er nachahmet, sondern die Begriffe derer, denen zu gefallen er sein Bild verfertiget, zu seinem Vorbilde nehmen, und sein Bild muß der Sache unähnlich werden, damit es desto eher mit den Begriffen derselben übereinkomme» (ivi, p. 65).

[17] Ivi, p. 64.

[18] Johann Elias Schlegel: Schreiben über die Komödie in Versen, ivi, pp. 5-26 (qui p. 12).

[19] Johann Elias Schlegel: Gedanken zur Aufnahme des dänischen Theaters, in Aesthetische und dramaturgische Schriften, Heilbronn 1887, pp. 193-226 (qui p. 201).

[20] Ivi, p. 203.

[21] Ibidem.

[22] Johann Elias Schlegel: Von der Würde und Majestät des Ausdrucks im Trauerspiele, ivi, pp. 94-119 (qui p. 96).

[23] Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Aus­gabe von 1741-1745. Hrsg. von Horst Steinmetz, vol. V, Stuttgart 1972, p. 14.

[24] Johann Elias Schlegel: Von der Würde und Majestät des Ausdrucks im Trauerspiele, cit., pp. 114-115.

[25] Johann Elias Schlegel: Auszug eines Briefs, welcher einige kritische Anmerkungen über die Trauerspiele der Alten und Neuern enthält, in Aesthetische und dramaturgische Schriften, cit., pp. 3-8 (qui p. 6).

[26] Ivi, p. 7.

[27] Si cita dal Vorbericht premesso all’edizione del Canut contenuta in Johann Elias Schlegel: Werke, vol. I, Kopenhagen – Leipzig 1761, p. 218.

[28] Johann Elias Schlegel: Vergleichung Shakespears und Andreas Gryphs, in Aesthetische und dramaturgische Schriften, cit., pp. 71-95 (qui p. 78).

[29] Ivi, pp. 82-83.

[30] Ivi, p. 88.

[31] Bernd Witte (Vom Martyrium zur Selbsttötung. Sterbeszenen im barocken und im bürgerlichen Trauerspiel, in Daphnis, 23, 1994, pp. 409-430) rileva il venir meno di qualunque «heilsgeschichtlicher Horizont» (p. 427).

[32] Fondamentale per questi aspetti il saggio di Steffen Martus: Transformationen des Heroismus. Zum politischen Wissen der Tragödie im 18. Jahrhundert am Beispiel von J. E. Schlegels «Canut», in Politik Ethik Poetik. Diskurse und Medien frühneuzeitlichen Wissens. Hrsg. von Thorsten Burkard, Markus Hundt, Steffen Martus und Claus-Michael Ort, Berlin 2011, pp. 15-42.

[33] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., p. 230.

[34] Per esempio da Georg-Michael Schulz: Die Überwindung der Barbarei, cit., pp. 91 ss.

[35] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., p. 248.

[36] Wolfgang Braungart (Vertrauen und Opfer. Zur Begründung und Durchsetzung politischer Herrschaft im Drama des 17. und 18. Jahrhunderts (Hobbes, Locke, Gryphius, J. E. Schlegel, Lessing, Schiller), in Zeitschrift für Germanistik, 15, 2005, pp. 277-295) vede in questa connessione un tipico prodotto della “dialettica dell’illuminismo”: Canut «ist auf “Herrschaft und Zärtlich­keit” verpflichtet; er muss dieses Konzept notfalls mit Gewalt durchsetzen und schaufelt ihm dadurch selbst das Grab» (p. 291). Più radicale il giudizio contenuto nella spregiudicata analisi di Thomas Wirtz (Gerichtsverfahren. Ein dramaturgisches Modell in Trauerspielen der Frühauf­klärung, Würzburg 1994), che con tutta la sua propensione all’unilateralità e al sovraccarico argomentativo offre comunque un esempio brillante di come si possano rivitalizzare nell’analisi dei testi letterari alcune questioni cruciali, oggetto di una relazione assai stretta con la cultura politica dell’epoca: «Der Verbrecher ist das willkommene Problem zur Selbst­verständigung der anderen, gewissermaßen das benutzte Mittel, Gemeinschaft über den Widerspruch desto enger zusammenzuschließen» (p. 342). Lo studio che più acutamente attira l’attenzione su questo tessuto di ambivalenze è in ogni caso quello di Wolfgang Ranke: Theatermoral. Moralische Argumentation und dramatische Kommunikation in der Tragödie der Aufklärung, Würzburg 2009, pp. 267 ss.

[37] Cfr. Georg-Michael Schulz: Die Überwindung der Barbarei, cit., pp. 110-116.

[38] Herbert Rowland (Imitation, Pleasure, and Aesthetic Education in the Poetics and Comedies of Johann Elias Schlegel, in Goethe Yearbook, 17, 2010, pp. 303-325) ha molto insistito sugli elementi di continuità fra la scrittura drammatica di Schlegel e le premesse teoriche poste nei saggi, sia pure limitando l’analisi alle commedie.

[39] Cfr. Dieter Borchmeyer: Staatsräson und Empfindsamkeit. Johann Elias Schlegels «Canut» und die Krise des heroischen Trauerspiels, in Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft, 27, 1983, pp. 154-171.

[40] Si è occupato di questi aspetti Burkhard Meyer-Sickendiek: Zur Didaktik der Beschämung im Theater der Empfindsamkeit, in Gewissen. Interdisziplinäre Perspektiven auf das 18. Jahrhundert. Hrsg. von Simon Bunke und Katerina Mihaylova, Würzburg 2015, pp. 165-181.

[41] Molto importanti su questo le considerazioni di Steffen Martus: Transformationen des Heroismus, cit., p. 28.

[42] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., pp. 273-274.

[43] Peter-André Alt (Tragödie der Aufklärung. Eine Einführung, Tübingen – Basel 1994) sintetizza così la concezione di sovranità affermata da Ulfo: «Die Position des Herrschenden ist ständig disponibel, weil jeder, der sich dazu befähigt fühlt, Anspruch auf das höchste Staatsamt erheben kann» (p. 127).

[44] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., p. 224.

[45] «Mein Kunstgriff reut mich nicht; er war zu wohl erwogen. / Ich habe dir durch List Estrithens Herz entführt, / Du warst dies Herz nicht werth, nur mir hat es gebührt» (ivi, p. 239).

[46] Ivi, p. 240.

[47] Ivi, p. 282.

[48] Ivi, p. 256.

[49] Ivi, p. 279. Cfr. su questo aspetto Steven D. Martinson: «Canut»: Johann Elias Schlegels klassisches Geschichtsdrama, in Studia Neophilologica, 61, 1989, pp. 45-59.

[50] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., p. 224.

[51] Nella produzione saggistica di Schlegel, che tra 1748 e 1749 tiene corsi di storia e dottrina politica presso l’Accademia di Sorø, ricorrono scritti incentrati sulle caratteristiche del buon governo. Può essere utile riportare questa lucida descrizione del contratto sociale che si legge nel trattato Daß die Belohnung der Verdienste das wahre Kennzeichen einer löblichen Regierung sey: «Die Absicht unsers Gehorsams gegen denjenigen, in dessen Hände wir alle unsere Rechte legen, die wir gegen einander haben, ist ganz allein, daß wir durch die Gerechtigkeit desselben die Vollkommenheit unsers äußerlichen Zustandes erhalten mögen, die wir uns selber zu verschaffen nicht vermögend genug sind» (Johann Elias Schlegel: Werke, vol. III, Kopenhagen – Leipzig 1764, p. 329).

[52] Per Wolfgang Ranke (Theatermoral, cit., pp. 318-319) oggetto del duello è l’adattabilità delle tradizionali virtù eroiche al sistema di mediazioni dello stato moderno, la trasferibilità di un valore individuale eccedente entro un dispositivo sociale fondato su relazioni di parità fra i sudditi. Nella contesa tra Ulfo e Godewin sarebbe in gioco la questione, «ob Erfüllung der Untertanenpflicht und heroisch-aristokratische Gesinnung einander ausschließen, wie Ulfo meint, oder ob sie miteinander vereinbar sind, wie von Godewin vorausgesetzt» (p. 318).

[53] Johann Elias Schlegel: Canut, cit., p. 247.

[54] Ivi, p. 251.

[55] Ivi, p. 255.