Elena Polledri

(Udine)

«Was! um eines Wortes willen?»
Hölderlin, Celan e la cesura tra poesia e ‘praxis’ nella storia

[«What? By dint of a mere word?»
Hölderlin, Celan and the caesura between poetry and historical ‘praxis’
]

abstract. The purpose of this article is to shed light on the complex relationship between poetry and praxis, which Hölderlin and Celan dealt with, respectively, in the tragedy Der Tod des Empedokles and in the poem Tübingen Jänner and, further, to show how the two poets were driven by the urge to reflect on the role of the poet in history. In the tragedy Der Tod des Empedokles, Hölderlin still seems to believe in the power of the poetic word, but he soon lost this faith and did not finish his drama. In Paul Celan’s poem Tübingen Jänner, Hölderlin becomes the symbol of a poetry which the world cannot understand any more. The obscure words «Pallaksch. Pallaksch», which the poet repeated in front of his visitors in the tower on the Neckar, suggest the impossible communication between poet and society and the caesura between the poetic word and historical praxis.

Nel dramma hölderliniano Der Tod des Empedokles il discepolo Pausania chiede al suo maestro come sia possibile che gli dèi gli abbiano voltato le spalle solo perché ha osato pronunciare un parola temeraria («kühne[s] Wort»[1]). Empedocle gli risponde mettendo in luce il potere della parola, capace, a suo parere, di condizionare l’azione politica e cambiare la storia. La fiducia espressa dal filosofo agrigentino nella parola, la cui forza sarebbe in grado di influenzare la praxis, vacillerà presto in Hölderlin, che non por-terà mai a termine il suo dramma. Il 29 gennaio 1961, Paul Celan, di ritorno da un viaggio a Tübingen, sceglierà proprio il poeta della torre come simbolo di una poesia che il mondo non è più in grado di comprendere e concluderà Tübingen, Jänner con la nota espressione ripetuta spesso dal “folle” Hölderlin ai suoi visitatori nella torre di Zimmer sul Neckar: «Pallaksch. Pallaksch»[2]. Nel balbettio del «poeta dei poeti» Celan condenserà la cesura insanabile tra parola poetica e l’azione degli uomini nella storia. In questo articolo si intende fare luce sulla complessa e problematica relazione tra poesia e praxis che Hölderlin e Celan tracciarono rispettivamente nel dramma Der Tod des Empedokles e nella poesia Tübingen Jänner, mostrando come entrambi furono spinti dalla costante necessità di riflettere sul ruolo dei poeti e l’azione degli uomini nella storia, anche e soprattutto quando quest’ultima sembra sottrarsi all’ascolto della parola e, anzi, le intima il silenzio.

1. La «parola temeraria»: il ‘nefas’ di Empedocle

Nei versi riportati di seguito, tratti dalla prima stesura del dramma Der Tod des Empedokles, il filosofo dialoga con il discepolo Pausania e gli confessa il suo nefas: Empedocle ha osato proclamarsi dio «im frechen Stolz»[3] di fronte al suo popolo, alla natura e agli stessi dèi, perciò ora la suprema armonia instaurata con le forze del cosmo è venuta meno e gli dèi gli hanno voltato le spalle. Il dialogo è incentrato sulla forza della parola, come segnalato peraltro dall’uso insistito dei verba dicendi («aussprechen», «sprachs […] heraus», «sprechen», «sprachst»[4]). L’ingenuo Pausania è scettico, non crede che una parola, seppur temeraria e tremenda, possa avere tale potere; Empedocle gli risponde che nel suo caso invece è proprio per questa ragione che gli dèi possono annientarlo; solo chi li ha amati intensamente può rinnegarli con una parola; non ai mediocri, ma solo ai grandi geni è dato di disconoscere il divino, sovvertire il mondo, provocare una rivoluzione e, forse, salvarlo, solo per mezzo della parola.

Empedokles
[…] Nein!
Ich sollt es nicht aussprechen, heilige Natur!
Ihr reinen immerjugendlichen Mächte!
Die mich mit Freude erzogen,
Mit Wonne genährt, die Götter waren
Dienstbar mir geworden, ich allein
War Gott, und sprachs im frechen Stolz heraus
O glaub es mir, ich wäre lieber nicht
Geboren!
Pausanias
                   Was! um eines Wortes willen?
Wie kannst so du verzagen, kühner Mann.
Empedokles
Um eines Wortes willen? ja. Und mögen
Die Götter mich zernichten, wie sie mich
Geliebt.
Pausanias
              So sprechen andre nicht, wie du.
Empedokles
Die andern! wie vermöchten sie’s?
Pausanias
                                                       Ja wohl,
Du wunderbarer Mann! So innig liebt’
Und sah kein anderer, die ewge Welt
Und ihre Genien und Kräfte, nie
Wie du, und darum sprachst das kühne Wort
Auch du allein, und darum fühlst du auch
So sehr, wie du mit Einer stolzen Sylbe
Vom Herzen aller Götter dich gerissen
Und opferst liebend ihnen dich dahin,
O Empedokles –

Empedocle
[…] No,
non avrei dovuto dirlo, sacra natura,
e voi, forze pure e sempre giovani
che mi avete educato con gioia e
nutrito con delizia; gli dèi
mi obbedivano, io solo
ero dio, e l’ho affermato con presuntuoso orgoglio.
Credimi, sarebbe meglio se non fossi mai
nato!
Pausania
Ma come, per una parola? Come puoi
tu, così audace, perderti d’animo in questo modo?
Empedocle
Per una parola? Sì, e che gli dèi
mi annientino, così come
mi hanno amato.
Pausania
Gli altri non parlano come te.
Empedocle
Gli altri! E come potrebbero?
Pausania
Certo,
uomo prodigioso, nessun altro ha amato
e conosciuto così intimamente il mondo immortale
con i suoi geni e le sue potenze
come te; per questo tu solo hai pronunciato
la parola temeraria, e per questo con tale intensità
senti di esserti strappato dal cuore di tutti gli dèi
con una sola sillaba orgogliosa,
e con amore ti offri a loro in sacrificio.
Empedocle!
[5]

 

1.2 Dialogo contro azione

La valenza politica della parola è sottolineata fin dall’inizio del dramma anche da un aspetto strutturale: Hölderlin non rappresenta sulla scena le azioni cruciali della vicenda, quali, appunto, il nefas e la morte del filosofo nella lava dell’Etna, ma le fa narrare da voci terze, espressione delle varie componenti della comunità; la rappresentazione drammatica delle azioni è sostituita dal dialogo democratico, l’azione dalla parola. Il dramma di Empedocle diviene così il dramma di Pantea, Pausania, Crizia e dell’intera comunità agrigentina; il destino del protagonista viene inquadrato nel contesto storico-politico in cui si compie e narrato dai personaggi che lo circondano.

1.3 La parola manipolatrice della religione e della politica: Ermocrate e Crizia

A introdurre il personaggio di Empedocle sono Pantea, la giovane da lui miracolosamente guarita, che considera un atto legittimo il suo nefas, e Delia, l’ospite greca, la straniera, che incarna invece il realismo e la terrestrità della polis. Quindi intervengono le due autorità rispettivamente religiosa e politica della città, Ermocrate e Crizia, rappresentanti di un ordine rigido, di una legge sterile, di istituzioni che in un’epoca di passaggio da un ordinamento autocratico a uno democratico, dalla monarchia alla repubblica, non riescono più a essere incisive. Crizia sottolinea come il nefas di Empedocle abbia gettato la città nel caos («die Gebräuche sind / Von unverständlichem Gebrause […] überschwemmt»[6]) e nell’anarchia e spera che la parola del sacerdote Ermocrate possa ristabilire l’ordine; la maledizione che il religioso intende pronunciare contro Empedocle per esiliarlo ha valore politico; la sua parola è manifestazione di potere, o meglio, di abuso di potere; egli approfitta infatti della sua autorità per mantenere gli agrigentini schiavi di un regime autoritario; esiliando Empedocle spera di impedire il sovvertimento dell’ordine politico che costui ha avviato attraverso la parola. Ma a differenza di quella empedoclea la parola del sacerdote è solo uno strumento per manipolare il popolo; Empedocle stesso definisce la sua religione un «Gewerbe»[7] e descrive il suo viso come «falsch und kalt und todt»[8]; il suo amore per gli dèi un servizio istituzionalizzato, una pratica vuota. Ermocrate e Crizia sperano che la parola si trasformi in azione e annienti il loro antagonista, tanto amato dal popolo: «Das Wort des Priesters bricht den kühnen Sinn»[9]. Ma il loro atto verbale non avrà efficacia, in quanto privo di sostanza rispetto a quello di Empedocle, «zum Dichter geboren»[10].

1.4 La parola come via verso la democrazia: «Ihr botet / Mir eine Kron’, ihr Männer! nimmt von mir / Dafür mein Heiligtum»

Alla parola sterile delle istituzioni Hölderlin contrappone quella di Empedocle, grande uomo, genio e, soprattutto, come affermerà nel Grund zum Empedokles, «Dichter»[11]. Quando, nel secondo atto, gli agrigentini ritornano dal filosofo che in esilio ha scontato la sua colpa e gli offrono la corona terrena, egli la rifiuta[12]; ritornare ad Agrigento significherebbe infatti diventare la guida politica della città, instaurare un regime monarchico e impedire ai cittadini di proseguire la strada intrapresa verso la democrazia. «Diß ist die Zeit der Könige nicht mehr»[13], risponde il filosofo al popolo e si allontana, lasciando come testamento solo la sua parola, a indicare la strada della democrazia e della libertà. Attraverso la metafora della fenice che rinasce a nuova vita dalle ceneri[14] Pantea rappresenta il sacrificio che Empedocle compie per il suo popolo, un atto necessario per scongiurare l’avvento di un regime assolutista, un gesto di amore per impedire che il suo messaggio si corrompa, come succede, secondo Hölderlin, a ogni ideale nel momento in cui diviene realtà e si esprime sulla terra; così si legge nella lettera a Neuffer del novembre 1798: «Das Reine kan sich nur darstellen im Unreinen […] zwar darum, weil das Edle selber, so wie es zur Äußerung kömmt, die Farbe des Schiksaals trägt»[15]. Empedocle muore tra le fiamme dell’Etna per preservare la purezza dei suoi ideali e sottrarli al mondo; la sua morte condurrà il popolo verso una nuova vita e verso la democrazia:

O laßt sie dann zerbrechen das Gefäß,

Damit es nicht zu andrem Brauche dien’,

Und Göttliches zum Menschenwerke werde

lasciate che essa infranga il vaso
affinché non venga impiegato per altri usi
e il divino non divenga opera umana.
[16]

Il messaggio della prima stesura contiene una concezione tragica della storia: i grandi uomini possono indicare all’umanità la via per giungere alla pace ma sono destinati a scomparire e lasciare al popolo solo parole. Ogni politico carismatico deve ritirarsi e lasciare come testamento spirituale unicamente la parola, solo così aiuterà la democrazia a nascere. Questa posizione riflette lo scetticismo di Hölderlin nei confronti dei trionfi francesi; Napoleone che avrebbe dovuto sostenere le aspirazioni dei democratici tedeschi non mantiene le aspettative; il 16 marzo 1799 il generale delle truppe francesi Jourdan si pronuncia contro le pretese rivoluzionarie dei repubblicani tedeschi; i francesi avevano finto di sostenere il movimento riformista nel Württemberg unicamente al fine di esercitare pressione sul duca e indurlo a stringere alleanza con la Francia per ampliare i propri confini. Questi eventi significarono per Hölderlin un brusco risveglio dai sogni liberal-democratici.

1.5 La parola poetica: «herrlich ist / Sein Wort, es wandelt die Welt»

Nella seconda stesura Hölderlin insiste sul valore della parola come via alla democrazia. Mecade, che subentra a Crizia, afferma di non avere paura di Empedocle e di non credere, diversamente da Ermocrate, che le sue parole possano trasformarsi in azione e sovvertire un sistema: «findet den / Zur frechen That der Übermüthge nicht, / Und kann er nur im Worte sündigen, / So stirbt er, als ein Thor, und schadet uns / Nicht viel»[17]. Empedocle, che ora somiglia più a Prometeo che a Tantalo, è descritto come colui che, dopo avere rubato il fuoco celeste, fa risuonare dall’Olimpo la sua parola:

Es tönt sein Wort dem Volk,
Als käm es vom Olymp;
Sie dankens ihm,
Daß er vom Himmel raubt
Die Lebensflamm’ und sie
Verräth den Sterblichen.

La sua parola risuona per il popolo
come se venisse dall’Olimpo;
lo ringraziano
perché sottrae al cielo
la fiamma della vita e con il
tradimento la cede ai mortali.
[18]

L’allontanamento dell’eroe dalla comunità non basta più a salvarla, è necessario un elemento ulteriore per rinnovarla: la parola, non di un politico, ma di un poeta. Già nella prima stesura Pantea aveva descritto Empedocle come una natura poetica e paragonato il suo pensiero alla «scintilla» che «scocca» nel momento «dell’estasi creatrice» («Bis aus der Nacht des schöpfrischen Entzükens, / Wie ein Funke, der Gedanke springt»[19]); proprio questa scintilla poetica diviene ora sempre più luminosa; Empedocle è l’eroe in grado di sostituire alla forza dell’azione quella della parola. Hölderlin, che ha assistito al fallimento della rivoluzione, ribadisce l’importanza e la fede nella forza plasmatrice del linguaggio poetico e la capacità di Empedocle di cambiare il mondo attraverso la parola:

Und viel vermag er und herrlich ist
Sein Wort, es wandelt die Welt

Egli può molto, stupenda è la sua parola
che trasforma il mondo.
[20]

Di fronte al radicalizzarsi delle opposizioni e alle conseguenze sangui-nose degli ideali rivoluzionari Hölderlin cerca una via alternativa alla guerra e all’azione violenta per giungere alla democrazia e pare trovarla nella poesia. Non a caso la riflessione sul valore della parola, e in particolare di quella poetica, risulta un tema ricorrente nelle liriche di questo periodo; basti pensare alla più nota Wie wenn am Feiertage …, scritta probabilmente verso la fine del 1799; qui il poeta è chiamato a «restare a capo scoperto» «sotto le folgori del Dio» e ad «afferrare» «il fulmine del padre» per poi porgerlo al popolo «avvolto / Nel canto» come un «dono celeste»:

Doch uns gebührt es, unter Gottes Gewittern,
Ihr Dichter! mit entblößtem Haupte zu stehen
Des Vaters Stral, ihn selbst, mit eigner Hand
Zu fassen und dem Volk ins Lied
Gehüllt die himmlische Gaabe zu reichen.

Ma a noi spetta, sotto le folgori del Dio,
Poeti! Restare a capo scoperto,
Il fulmine del padre, anch’esso, afferrare
Con le mani e al popolo, avvolto
Nel canto, porgere il dono celeste.[21]

Di riflessioni sul compito del poeta sono intrise le odi Dichterberuf e Dich­termuth, la prima pubblicata nel «Musenalmanach» schilleriano nel 1799, la seconda contenuta nel fascicolo di Stoccarda (1799-1800). Empedocle nella seconda stesura sembra incarnare l’idea che Hölderlin aveva espresso nel frammento Über Religion nonché nello Ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus: la poesia, maestra dell’umanità, deve essere in grado di fondare una democrazia e una società armoniosa in cui sfere diverse si tendono la mano[22]. Ma questa versione, dedicata a un Empedocle poeta, non viene portata a termine e l’intero progetto si interrompe all’inizio della terza stesura. Le tesi hölderliniane vengono smentite dalla storia: il 9 novembre 1799 Napoleone con un colpo di stato fa crollare il Direttorio e si fa nominare primo console. Hölderlin comprende che i grandi uomini non si sacrificano, non rinnegano se stessi per il futuro della democrazia e non sono certo disposti ad abbandonare la scena per lasciare il posto alla parola, alla poesia; non stupisce l’interruzione del dramma in questo contesto; nelle uniche tre scene della terza stesura Empedocle interpreta il suo destino in una prospettiva universale, non più politica: la morte è parte del ciclo naturale, a cui è sottoposto ogni essere vivente, è adesione del singolo al processo della natura; egli rifiuta definitivamente il ruolo di politico e riformatore[23].

L’interruzione del progetto dell’Empedocle riflette la separazione ormai insanabile tra la politica e la poesia, l’azione e la parola e il crescente scetticismo di Hölderlin; ora egli non crede più che l’uomo politico si possa ritirare dal mondo e rinunciare all’azione, a farsi guida e Führer, lasciando come testamento solo la parola.

1.6 Le leggi non scritte di Antigone e la fine del potere politico della poesia

Il filo che unisce vita e arte, politica e poesia si fa sempre più sottile nel tardo Hölderlin. Il punto di rottura è da cercarsi nella traduzione e nelle Anmerkungen zur Antigonae di Sofocle, l’ultimo testo pubblicato dall’autore, prima dell’esilio nella torre. Di fronte a Creonte che invita Antigone a rispettare le leggi dello stato e a non seppellire il fratello assassino Polinice, di fronte cioè all’ordine impartito dal capo politico della città, Antigone reagisce appellandosi al suo dio personale, al «suo» Zeus, signore degli Inferi, del caos, della Wildnis, di un mondo fuori dalla storia, dal tempo e avulso dalla politica. Hölderlin traduce questi versi con grande libertà[24]. Di seguito si propone la traduzione tedesca di Hölderlin con la rispettiva traduzione italiana e la traduzione italiana del testo sofocleo.

Kreon:
Was wagtest du, ein solch Gesez zu brechen?
Antigonae:
Darum. Mein Zevs berichtete mirs nicht;
Noch hier im Haus das Recht der Todesgötter,
Die unter Menschen das Gesez begrenzet;

Creonte:
Per quale ragione osasti infrangere una tale legge?
Antigone
Perché non fu il mio Zeus a impormela.
E qui in casa nemmeno il diritto degli dèi della morte
Che stabilisce le leggi tra gli uomini;
[25]

Creonte: E hai osato trasgredire questa legge?
Antigone: Non è stato Zeus a proclamarla, e Dike,
che dimora con gli dèi di sotterra, non ha stabilito
per gli uomini leggi come questa.
[26]

Lo Zeus che invoca Antigone non è più il dio di una «gemeinschaftliche Sphäre»[27], della polis, ma il dio personale di un singolo, che non si riconosce più nella comunità e che rinnega la legge della società, qui rappresentata da Creonte. Ognuno ha il proprio dio che è inesprimibile e incomunicabile. La ribellione di Antigone segna il fallimento definitivo dell’idea di Empedocle, secondo cui la parola poetica aveva il potere di trasformare il mondo e fondare la democrazia; la poesia si allontana definitivamente dalla vita, la parola dalla politica. Il poeta appartiene all’altro mondo e non è più in grado di cambiare questo, irrigidito nelle sue sterili leggi. Il potere della parola poetica si affievolisce; essa non è più voce del vivente per la comunità, non canta più il Dio che univa l’uomo e il mondo. Il pericolo insito nell’appello individualista di Antigone (e dei poeti) a un dio personale e a un mondo non più condiviso lo ritroveremo anche in Celan: la poesia è ora incapace di instaurare, come aveva sperato Hölderlin nel saggio Über Religion, uno «höhere[n] Zusammenhang»[28], un nesso superiore tra l’uomo e il mondo e di adorare uno stesso dio, nato dal rapporto tra gli uomini e le sfere comuni in cui essi vivono.

2. Paul Celan: la cecità dei poeti nella storia

Tübingen, Jänner

Zur Blindheit überredete
Augen.
Ihre
«ein
Rätsel ist Reinentsprungenes
»
, ihre
Erinnerung an
schwimmende Hölderlintürme, möwen-umschwirrt.

Besuche ertrunkener Schreiner bei
diesen
tauchenden Worten:

Käme,
käme ein Mensch,
käme ein Mensch zur Welt, heute, mit
dem Lichtbart der
Patriarchen: er dürfte,
spräche er von dieser
Zeit, er
dürfte
nur lallen und lallen
immer-, immer
zuzu.

(«Pallaksch. Pallaksch»)

Tubinga, gennaio

A cecità persuasi
gli occhi.
Il loro
«un
enigma è il puro
scaturire»
, il loro
ricordo di
torri Hölderlin galleggianti, in un
frullo di gabbiani.

Visite di falegnami affogati con
queste
parole che s’immergono:

Venisse,
venisse un uomo,
venisse un uomo al mondo, oggi, con
la barba di luce dei
Patriarchi: potrebbe,
se parlasse di questo
tempo,
potrebbe
solo balbettare e balbettare
ininterrotta-, ininterrot-
tamente, mente.

(«Pallaksch. Pallaksch»).[29]

 

Questa lirica ha avuto innumerevoli interpreti, primo fra tutti Bernhard Böschenstein[30]. La rilettura che si propone di seguito è finalizzata in primo luogo a fare emergere come attraverso una fitta rete di rimandi letterari e biografici, intrecciati sapientemente dal poeta ricorrendo a originalissime modalità di citazione, l’autore chiarisca quale sia il ruolo della parola poetica nella sua epoca.

Celan si reca per la prima volta a Tübingen nel 1953; vi farà ritorno più volte negli anni seguenti per letture e conferenze. Ma il 28 gennaio del 1961 arriva nella città hölderliniana con tutt’altre intenzioni; deve fare visita a Walter Jens e convincerlo a prendere pubblicamente posizione in sua difesa nel cosiddetto “affare Goll”: la vedova del poeta aveva avanzato una pe-sante accusa di plagio nei suoi confronti, dando origine a una vera e propria campagna diffamatoria. Celan è profondamente turbato; su di lui incombe un’insopportabile ombra di disonestà; le accuse alla sua persona, nate in seguito alla denuncia del potenziale plagio, si spingono ben oltre e il poeta si sente vittima di un vile attacco antisemita; il 26 gennaio, prima di partire, nel suo diario si chiede cosa possano pretendere da lui i suoi accusatori, quale «feature», forse una prova che i genitori fossero morti in un campo di concentramento?

18.30 Jens angerufen. Ich fahre Ende nächster Woche [sic! richtig: Ende dieser Woche] nach Tübingen. Jens hat mir geschrieben, er brauche, sagt er, den offenen Brief C. G’.s [Claire Golls; E.P. ] und ein “feature” über mich. Feature? Soll ich etwa beweisen, daß meine Eltern im Lager getötet wurden? Das nie!

18.30 telefonata di Jens. Alla fine della prossima settimana [sic! Mi correggo: alla fine di questa settimana] andrò a Tübingen. Jens mi ha scritto che ha bisogno, dice, della lettera pubblica di C.G. [= Claire Goll; E.P. ) e di una “feature” su di me. Una feature? Devo forse provare che i miei genitori furono uccisi in un lager? Questo mai![31]

Nel giugno del 1961 Jens scriverà per «Die Zeit»[32] l’articolo Leichtfertige Vorwürfe gegen einen Dichter, in cui prenderà pubblicamente posizione a favore di Celan, peraltro dopo che già numerosi intellettuali, tra cui Szondi, Enzensberger, Bachmann e Kaschnitz, si erano espressi in sua difesa. Ma al ritorno a Parigi, il 29 gennaio 1961, lo stato d’animo del poeta resta profondamente scosso; egli si sente misconosciuto e umiliato dai contemporanei. Anche tenendo conto di questa particolare circostanza biografica la poesia ci appare non solo un omaggio al «poeta dei poeti» ma soprattutto una riflessione lucida e disincantata sul ruolo della poesia nella società e sulla sua funzione nella storia.

Il destino del poeta Celan, accusato dai contemporanei, si unisce nella lirica non solo a quello di Hölderlin, il poeta folle esiliato nella torre di Tübingen, ma anche alle figure di altri scrittori «eccentrici»: Büchner, Lenz e Mandel’štam. Nel titolo, accanto alla città sul Neckar viene nominato il mese, Jänner, l’anno invece (1961), presente nella prima stesura, viene eliminato dal testo a stampa, con la chiara intenzione di rimandare, fin dal titolo, non a un unico episodio, ma a una pluralità di eventi e figure. Così inizia la novella Lenz di Büchner:

Den 20. Jänner ging Lenz durchs Gebirg. Die Gipfel und hohen Bergflächen im Schnee, die Täler hinunter graues Gestein, grüne Flächen, Felsen und Tannen.

Es war naßkalt; das Wasser rieselte die Felsen hinunter und sprang über den Weg. Die Äste der Tannen hingen schwer herab in die feuchte Luft. Am Himmel zogen graue Wolken, aber alles so dicht – und dann dampfte der Nebel herauf und strich schwer und feucht durch das Gesträuch, so träg, so plump.

Er ging gleichgültig weiter, es lag ihm nichts am Weg, bald auf-, bald abwärts. Müdigkeit spürte er keine, nur war es ihm manchmal unangenehm, daß er nicht auf dem Kopf gehn konnte.

Il 20 [gennaio] Lenz traversò la montagna. Le cime e gli alti pianori coperti di neve, giù per le valli pietra grigia, distese verdi, rocce e abeti. Era freddo e umido; l’acqua grondava giù per le rupi e balzava al di là del sentiero. I rami degli abeti pendevano pesanti nell’aria bagnata. Nel cielo passavano nubi grigie, ma tutto così denso, e poi fumigava la nebbia e trascorreva umida e pesante fra gli arbusti, tanto pigra, tanto greve. Lui procedeva indifferente, non gli importava nulla del cammino, ora su, ora giù. Stanchezza non ne sentiva, solo gli rincresceva talvolta di non poter camminare sulla propria testa.[33]

Nel discorso di ringraziamento pronunciato in occasione del ritiro del premio Büchner, Celan lesse l’inizio di questa novella e ricordò che il 20 gennaio lo scrittore Lenz, psichicamente fragile, si incamminò verso la casa del pastore Oberlin, che lo avrebbe accolto a casa sua, proprio come il falegname Zimmer fece con Hölderlin e commentò poi:

Wer auf dem Kopf geht, meine Damen und Herren, wer auf dem Kopf geht, der hat den Himmel als Abgrund unter sich.

Chi cammina sulla testa, Signore e Signori – chi cammina sulla testa, costui ha il cielo come abisso sotto di sé.[34]

Queste parole sottolineano il ruolo eccentrico dei poeti che non seguono i princìpi che la società impone, non ne rispettano le coordinate. Al posto della terra sotto i loro piedi si apre il cielo, ma un cielo che come un abisso rischia di inghiottirli; la precarietà dell’esistenza poetica pare incapace di trovare un punto fermo, un terreno sicuro su cui incamminarsi.

Le due parole del titolo, dense di rimandi e implicazioni, sintetizzano il tema centrale della lirica e ne anticipano la dialettica: Tübingen è la città del poeta folle, Hölderlin, Jänner è non solo il mese in cui Celan si recò da Jens per difendere il suo ruolo di poeta rinnegato dai contemporanei, è anche quello in cui Lenz, altro scrittore sulla soglia dell’abisso, nella più nota “passeggiata del folle” della letteratura tedesca, esprime il desiderio di camminare sulla testa, di potersi abbandonare a logiche diverse da quelle imposte dalla società. Ma questo mese rimanda anche all’evento che segnò l’inizio della più grande tragedia della storia dell’umanità, a cui nessun poeta, e nessun uomo, poté opporsi, una tragedia che annientò milioni di uomini e tolse la voce ai poeti: il 20 gennaio 1942 è la data della Conferenza del Wannsee, in cui venne decisa la “soluzione finale”. Il titolo anticipa così attraverso questi rimandi la domanda centrale della lirica: sono i poeti che camminano a testa in giù, con i piedi sopra un cielo-abisso, che sono lontani dal mondo e dalla storia e che parlano un linguaggio incomprensibile agli uomini e alla società o è la storia stessa che è divenuta sorda a ogni poesia in quanto priva di ogni umanità e senso?

La stratificazione di figure (Hölderlin, Lenz, Büchner, Celan) ed eventi (la visita a Tübingen di Celan, la passeggiata di Lenz nella novella büchneriana, la Conferenza del Wannsee del titolo) è un procedimento che Celan ripete anche all’interno della poesia stessa. Nell’incipit l’io lirico è sostituito dalla metonimia «Zur Blindheit überredete / Augen»[35]; attraverso una separazione sillabica, intraducibile in italiano («über- / redete») il poeta conferisce al verbo originario, inseparabile (überreden) un nuovo significato: questi occhi non sono semplicemente «alla cecità persuasi», come si legge nella traduzione, ma sopraffatti da una parola che li acceca, convinti alla cecità dalla parola («von Rede überschwemmt […] durch Rede hinübergeführt»[36]). Essi ricordano il cantore cieco della omonima ode hölderliniana (Der blinde Sänger), ma anche e soprattutto i «Göttersöhne», che nell’inno Der Rhein sono definiti «[d]ie Blindesten». Costoro sono, si legge nell’inno, uomini dall’esistenza precaria, a metà tra terra e cielo, privi di una casa, di un rifugio, di una tana, e destinati a vivere la mancanza («[den] Fehl») come condizione perenne dell’esistenza; non conoscono la meta del loro destino, non sanno quale direzione prendere e sono incapaci di vivere nel presente, di accettare la finitezza di un’esistenza sicura, di accontentarsi degli argini della realtà quotidiana:

Die Blindesten aber
Sind Göttersöhne. Denn es kennet der Mensch
Sein Haus und dem Thier ward, wo
Es bauen solle, doch jenen ist
Der Fehl, daß sie nicht wissen wohin?
In die unerfahrne Seele gegeben.

I più ciechi però
sono i figli degli dèi. Giacché conosce l’uomo
la sua casa e alla fiera fu dato il luogo
In cui costruire, ma a loro
Nell’anima inesperta
La mancanza, che dove andare non sanno.[37]

Nella strofa successiva, fondamentale per capire Celan, viene chiarita la ragione per cui i figli degli dèi non possono vivere nella finitezza della storia:

Ein Räthsel ist Reinentsprungenes. Auch
Der Gesang kaum darf es enthüllen.

È un enigma ciò che puro sgorga. Anche
Il canto non può rivelarlo.[38]

Per quanto si allontanino da essa per vivere nel mondo i figli degli dèi non possono mai dimenticare la loro origine; per quanto «die Noth» («il bisogno») e «die Zucht» («la disciplina») tentino di forgiarli, la nascita (divina) continua a condizionarli e impedisce loro di essere uomini come gli altri, di vivere la quotidianità:

[…] Denn
Wie du anfiengst, wirst du bleiben,
So viel auch wirket die Noth,
Und die Zucht, das meiste nemlich
Vermag die Geburt,

[…] Giacché
Come iniziasti, così resterai,
Per quanto agisca il bisogno,
E la disciplina, più di tutto
Può la nascita.[39]

La scaturigine divina che generò il Reno condiziona quindi l’esistenza di tutti i semidei, in primo luogo dei poeti, condannandoli alla precarietà e alla follia; secondo Hölderlin essa resta sempre un mistero, nemmeno nel canto si svela totalmente. Gli occhi accecati della lirica celaniana non sono più in grado di ricordare la propria origine, non sembrano più capaci di intonare un canto, di pronunciare quella parola poetica che rivela l’essenza divina. La speranza espressa da Hölderlin in Wie wenn am Feiertage ..., di vedere il «sacro» ed esprimerlo nella parola, per gli occhi «persuasi alla cecità» è una meta irrealizzabile: «Und was ich sah, das Heilige sei mein Wort»[40].

Per esprimere i limiti della poesia nella storia e l’inettitudine dei poeti, incapaci di intonare un canto comprensibile ai contemporanei, Celan ricorre a una particolare modalità di citazione dei versi hölderliniani; usa gli strumenti offerti dalla poesia stessa per definirne poi i limiti. Hölderlin viene citato dapprima fedelmente: il verso di Der Rhein, che esprime l’essenza dei poeti, è posto tra virgolette; solo il «loro» («Ihr») ricorda al lettore che l’enigma dell’origine non è del Reno, ma degli occhi accecati dalla parola. Nei versi seguenti invece il poeta rinuncia alla fedeltà e sovrappone elementi della poesia di Hölderlin a frammenti della sua biografia per poi modificarli attraverso interferenze di varia provenienza. Se all’inizio il ricordo del verso hölderliniano è quindi nitido, in seguito la memoria degli occhi accecati si offusca e distorce versi e biografia: le torri si moltiplicano, non si ergono più sul Neckar, non si specchiano più nelle sue acque, ma rovesciate nuotano in un mare circondato da un frullo di gabbiani.

In Dichtermuth Hölderlin paragonava il poeta a un nuotatore che vaga «lieve […] nella quiete», «tra i flutti», o «sugli abissi marini silenziosi», amante della vita e capace di cantare «a ognuno il proprio Dio»:

Denn, wie still am Gestad, oder in silberner
  Femhintönender Fluth, oder auf schweigenden
     Wassertiefen der leichte
        Schwimmer wandelt, so sind auch wir,

Wir, die Dichter des Volks, gerne, wo Lebendes
   Um uns athmet imd wallt, freudig, und jedem hold.
       Jedem trauend; wie sängen
          Sonst wir jedem den eignen Gott?

E come il nuotatore vaga lieve
   A riva nella quiete, o tra i flutti
     Che vibrano argentei in lontananza,
       O sugli abissi marini silenziosi, così anche noi,

Noi, poeti del popolo, amiamo la vita che
   Fluttuando ci avvolge in un respiro, lieti, e a ognuno inclini,
      In ognuno fiduciosi; come canteremmo
          Altrimenti a ognuno il proprio Dio?[41]

Nella lirica di Celan invece le torri che nuotano sembrano prive di quella leggerezza, non sono più circondate, come il campanile di In lieblicher Bläue..., dalle rondini: «Den umschwebet Geschrei der Schwalben, den umgiebt die rührendste Bläue»[42]. Gli uccelli che nell’opera hölderliniana sono spesso metafora della libertà e dei poeti scompaiono dall’orizzonte celaniano: «Frei sei’n, wie Schwalben, die Dichter»[43]; «Frei wie die Schwalben, ist der Gesang, sie fliegen und wandern / Fröhlich von Land zu Land»[44]. Alle rondini subentrano i gabbiani, uccelli marini, assenti dal paesaggio svevo di Hölderlin, e mai, nemmeno una volta, citati nella sua opera. I gabbiani introducono, infatti, nella lirica celaniana un altro poeta. In Nachmittag mit Zirkus und Zitadelle contenuta in Die Niemandsrose, si legge:

In Brest, vor den Flammenringen,
im Zelt, wo der Tiger sprang,
da hört ich dich, Endlichkeit, singen,
da sah ich dich, Mandelstamm.

Der Himmel hing über der Reede,
die Möwe hing über dem Kran.
Das Endliche sang, das Stete,
du, Kanonenboot, heißt
«Baobab».

Ich grüßte die Trikolore
mit einem russischen Wort
Verloren war Unverloren,
das Herz ein befestigter Ort.

A Brest, davanti ai cerchi di fuoco,
nella tenda ove la tigre saltò,
io te udii, Finitezza, cantare,
te io vidi, Mandel’štam.

Si librava il cielo sopra la rada,
sopra la gru si librava il gabbiano.
Il Finito cantava, il Perenne,
Il tuo nome, cannoniera, è «Baobab».

Salutai il tricolore
con una parola in russo
Perduto divenne non perduto,
e il cuore divenne un luogo ben munito.[45]

Il poeta rievoca un pomeriggio estivo a Brest, cittadina della Bretagna in cui durante uno spettacolo circense avvenne, in uno stato visionario, l’incontro con Mandel’štam: proprio a quell’epoca Celan si stava dedicando alla lettura delle poesie del lascito dello scrittore russo. Nella seconda strofa l’io lirico immagina il cielo sopra l’insenatura del porto, il volo di una gru e al di sopra di essa un gabbiano; quel gabbiano che vola più alto degli altri uccelli è un’immagine dell’amato poeta russo, il cui canto rappresenta per Celan una sicurezza, un approdo sicuro, un punto fermo («Endlichkeit») («Finitezza»), «das Endliche» («il Finito»), «das Stete» («il Perenne») in un’esistenza perduta: «Verloren war Unverloren» («Perduto divenne non perduto»). La cittadina della Bretagna si sovrappone nella visione alla bielorussa Brest, l’estate mediterranea al freddo clima slavo, il tedesco al russo, la lingua con cui Celan saluta «die Tricolore», che rappresenta contemporaneamente la bandiera francese che sventola su Brest ma anche la Russia, patria di Mandel’štam.

Non stupisce, alla luce di questa lirica, che le rondini del paesaggio svevo siano sostituite dai gabbiani, uccelli ben noti a Celan, immigrato nella mediterranea Francia, nonché simbolo, nel suo dizionario poetico, del genio di Mandel’štam. D’altra parte, proprio al poeta russo è dedicata la raccolta Die Niemandsrose; inoltre nella prima stampa le poesie della raccolta seguivano la traduzione di due liriche del lascito di Mandel’štam e Tübingen, Jänner era stata posta tra due liriche che ricordavano il poeta russo[46]. Alla rievocazione di Hölderlin si sovrappone quindi quello di un altro poeta prediletto da Celan, ma il loro ricordo non si presenta nitido; la storia ha offuscato la memoria. Della poesia hölderliniana dall’origine pura e della parola approdo sicuro di Mandel’štam resta un’immagine sbiadita e contraffatta. Gli occhi ricordano non la torre del falegname Zimmer ma tante torri, che invece di specchiarsi nel Neckar nuotano in un mare su cui si libra il volo dei gabbiani. La prospettiva del reale è completamente rovesciata; le torri, simbolo del poetare, non si elevano verso il cielo, ma si immergono nell’acqua. Se per Hölderlin il poeta era un nuotatore esperto, che si destreggiava abilmente tra i flutti della storia, ora egli ha perduto per sempre questa facoltà; il pericolo di annegare e soccombere lo minaccia, come avvertono i versi seguenti: le parole rischiano di immergersi e, forse, di affogare («Besuche ertrunkener Schreiner bei / diesen / tauchenden Worten»[47]); i gabbiani, simbolo della poesia libera e sublime, non volano più alti, sopra le gru, non si elevano più al di sopra del mondo e della storia, ma con il frullo delle loro ali circondano le torri che tentano disperatamente di tenersi a galla. Per Lenz e Hölderlin, che camminano «auf dem Kopf»[48] nella storia, il ricordo dell’origine si fa sempre più debole. Osserva Böschenstein:

Der Ursprung des Rheinstroms erhält in Celans Holderlin-Gedicht die Bedeutung einer fernen, ursprünglichen Möglichkeit des Dichtens, an die jetzt nur noch aus der Negation heraus erinnert werden kann. Statt wie ein Quell zu entspringen, der das Gedicht in seiner geheimnisumgebenen anfänglichen Fülle bezeichnet, aus der sich die Hymne entfaltet, die «das Rätsel» des Anfangs enthüllt, tauchen die Worte unter, sind die Augen blind geworden.[49]

Celan riproduce quindi, sul piano poetologico, attraverso un’originalissima modalità di riscrittura della lirica e della biografia hölderliniane, a cui sovrappone altri poeti, testi e destini, il processo di contraffazione che è destinata a subire la poesia nella sua epoca: come i versi e la biografia di Hölderlin in Tübingen, Jänner così nella storia la parola è continuamente trasformata, contraffatta e sopraffatta da interferenze provenienti dalla contemporaneità: dei figli degli dèi non sono rimasti che occhi accecati, che stanno per perdere il legame con la propria origine, che rischiano di dimenticarla ma soprattutto sono divenuti incapaci di trasmetterne l’essenza. L’impossibilità dei contemporanei di comprendere la poesia e dei poeti di farsi comprendere nel presente saranno le questioni centrali dei versi seguenti.

Anche in essi i rimandi hölderliniani risultano alterati, contraffatti: il falegname Zimmer, che ospitò per trentasei anni il poeta, è soggetto allo stesso processo di moltiplicazione e generalizzazione della torre; nella poesia An Zimmern Hölderlin lo presentava come un modello di generosità, virtù e ingegno artigiano, lo paragonava a Dedalo[50]; nella lirica di Celan questi artigiani generosi, virtuosi, che mettono la loro abilità al servizio dell’umanità, fanno visita alle torri, ai poeti a testa in giù, ma mentre queste ancora nuotano, tentando di tenersi a galla, i primi sono già annegati e appartengono ormai alla «exzentrische Sphäre der Todten»[51]. L’incontro tra le torri che nuotano e i falegnami annegati è tuttavia ancora possibile grazie alla parola che s’immerge nell’acqua, fungendo da mediatrice tra i due mondi. Questi versi ricordano la prima strofa della più nota lirica di Hölderlin, Hälfte des Lebens:

Ihr holden Schwäne,
Und trunken von Küssen
Tunkt ihr das Haupt
Ins heilignüchterne Wasser.

Amati cigni,
E voi ubriachi di baci
Tuffate il capo
Nell’acqua sobria e sacra.[52]

Diversamente dai cigni, simbolo dell’amore, i falegnami non sono però più «trunken von Küssen»[53] («ubriachi di baci»), ma solo ertrunken (affogati). Lo stordimento, l’inebriamento si sono trasformati in morte; la generosità e l’umanità sono annegate e scomparse dall’orizzonte del presente. Le parole che si immergono come cigni incontrano i morti, ma non si sa se mai risolleveranno il capo o se invece si inabisseranno per sempre. Böschenstein ha fatto notare che in un appunto Celan paragonava la poesia a un’immersione: «Namen: tauchen – taufen / Dichtung als immersio – nicht aspersio»[54]. L’immersione conduce in profondità, al mondo dei morti, all’abisso, alla ricerca dell’origine, a quella dimensione ultraterrena che Hölderlin aveva definito nelle Anmerkungen zum Oedipus, alla «exzentrische Sphäre der Todten»[55]. Il poeta è colui che riesce ad entrare in contatto con questo mondo, che si immerge nell’abisso, con il pericolo di non fare più ritorno sulla terra, di non rialzare più il capo.

Nella terza strofa la prospettiva cambia; l’attenzione è ora rivolta all’oggi: se questi poeti venissero nel mondo odierno, afferma Celan, non sarebbero considerati che semplici uomini, anzi, bambini; così si leggeva infatti nella prima stesura: «Käme, / Käme ein Kind / Ein Kind zur Welt»[56]. Il mondo di oggi non potrebbe mai percepirne il valore e soprattutto mai potrebbe comprenderne le parole. Questi uomini, se giungessero tra noi nel presente, avrebbero la barba dei patriarchi, ma solo il loro aspetto sarebbe quello di profeti, le parole risuonerebbero invece come un balbettìo incomprensibile. I patriarchi sono considerati in Am Quell der Donau i primi annunciatori della venuta di Dio nel mondo[57]. Nell’Antico Testamento si legge che, dopo l’incontro con il Signore, i profeti sperimentarono la fatica di annunciarlo e che persino a Mosè la lingua si fece pesante: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es. 4, 10); «Ecco ho la lingua pesante e come vorrà il faraone ascoltarmi?» (Es. 6, 30). I patriarchi e i profeti sono nell’inno hölderliniano i «forti», che per primi «senza paura» si sono posti «dinanzi ai segni del mondo», portando «sulle spalle il cielo e l’intero destino» e parlando «da soli / A Dio»:

O Asia, deiner Starken, o Mutter!
Die furchtlos vor den Zeichen der Welt,
Und den Himmel auf Schultern und alles Schiksaal,
Taglang auf Bergen gewurzelt,
Zuerst es verstanden.
Allein zu reden
Zu Gott.

Asia, ai tuoi forti, madre!
Che senza paura dinnanzi ai segni del mondo,
Sulle spalle il cielo e l’intero destino,
Radicati per giorni sui monti,
Per primi seppero
Parlare da soli
A Dio.[58]

Questa forza sembra averli ora abbandonati: se giungessero oggi nella storia, conserverebbero solo la barba degli antichi profeti, ma se dovessero parlare del loro tempo, il loro discorso non sarebbe altro che un balbettìo. Per descrivere questo Lallen Celan ricorre ancora una volta a Hölderlin, e a Büchner, chiudendo così la poesia con richiami a entrambi i poeti con cui l’aveva iniziata. Nel Woyzeck Büchner descriveva l’avanzare della pazzia nella mente del protagonista e la folle intenzione di uccidere la fidanzata Marie proprio con l’espressione: «Immer zu! Immer zu!»[59] «Pallaksch, Pallaksch» è invece la nota espressione che Scardanelli (pseudonimo con cui Hölderlin firmava le poesie nella torre) ripeteva quando qualcuno gli faceva visita; la parola Pallaksch, che secondo la critica rappresenta il fallimento del normale conversare, un tentativo di articolazione balbettato[60], è una parola/non-parola, ai limiti del linguaggio umano. Schwab, descrivendo nei suoi diari l’incontro con il poeta nel 1841, afferma che Hölderlin la pronunciava attribuendole a volte il valore di un no, altre di un sì[61]. Celan ritiene che ai suoi tempi i poeti, cantori ciechi, vivano una condizione di profondo smarrimento, che abbiano perso le coordinate del mondo, della storia e non siano più in grado di cantare la venuta di Dio tra gli uomini, come i profeti di un tempo, ma solo di balbettare.

Böschenstein riflette su una delle ultime poesie di Celan, anch’essa ricca di rimandi hölderliniani: Ich trink Wein, tratta dalla raccolta postuma Dimora del tempo (Zeitgehöft), e scritta poco prima di morire:

Ich trink Wein aus zwei Gläsern
und zackere an
der Königszäsur
wie Jener
am Pindar

Io bevo vino da due bicchieri
e vado zappettando
intorno alla cesura reale
come quel tale
fece con Pindaro.[62]

In una lettera dell’11 luglio 1805 Gerning, consigliere di Homburg, scriveva: «Hölderlin, der immer halbverrückt ist, zackert auch am Pindar» («Hölderlin, che è sempre mezzo matto, zappetta anche intorno a Pindaro»[63]). Pigenot e Seebaß commentano a tal proposito: «Auch seine Manuskripte aus jener Zeit lassen deutlich die letzte gewaltige Anspannung aller seiner geistigen Kräfte erkennen, daß seine physische Ermattung sich in immer stärkerer Form äußerte», («anche i suoi manoscritti di quel periodo lasciano intendere chiaramente il grande affaticamento di tutte le sue facoltà spirituali; è indubbio che il suo spossamento psichico si esprima in questo periodo nella forma più intensa»[64]). Su queste affermazioni Celan aveva riflettuto durante un viaggio in Israele nel 1969, e nel 1970, quando fu invitato a Tübingen, proprio da Böschenstein, a tenere una lettura in occasione del duecentesimo anniversario della nascita di Hölderlin. Al lemma «zackern», termine desueto fin dal XVII secolo, nel Grimm corrispondono due signi-ficati, quello principale di «arare» e quello secondario, con valore peggiorativo, che fa riferimento invece al «passo breve e goffo dei cavalli giovani»[65]; con questo termine Celan intende quindi esprimere il faticoso processo di elaborazione del verso del tardo Hölderlin, l’azione dell’arare, nel senso stretto di rivoltare il suolo, viene espressa peraltro con la stessa parola da cui trae origine il termine “verso” (vertere, versus). Questo poetare faticoso e incerto è, secondo Böschenstein, sinonimo proprio del «Pallaksch» in Tü-bingen, Jänner. E la ragione ultima di questa condizione di impotenza del poeta nella contemporaneità è Hölderlin stesso a chiarirla a Celan, quando, nelle Anmerkungen zum Oedipus, scrive:

Die Darstellung des Tragischen beruht vorzüglich darauf, daß das Ungeheure, wie der Gott und Mensch sich paart, und gränzenlos die Naturmacht und des Menschen Innerstes im Zorn Eins wird, dadurch sich begreift, daß das gränzenlose Eineswerden durch gränzenloses Scheiden sich reiniget.

La rappresentazione del tragico si basa prevalentemente sul fatto che l’immane il mondo in cui dio e l’uomo si accoppiano e, illimitatamente, il modo in cui la potenza della natura e il profondo intimo dell’uomo si fondono nel furore risulti concepibile, purificandosi l’illimitato fondersi nell’illimitato separarsi.[66]

La «Königszäsur» («cesura reale»[67]) celaniana non è che l’istante di massima tragicità che, nella poetica di Hölderlin, corrisponde al momento in cui Dio volta le spalle all’uomo: «In solchem Momente vergißt der Mensch sich und den Gott, und kehret, freilich heiliger Weise, wie ein Verräther sich um. […]»[68] («In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore»). Böschenstein ricorda che della conferenza di Binder Hölderlin und Sophokles, a cui assistette a Tübingen il 22 marzo del 1970, Celan annotò un’unica frase, quella che riassume il momento di massima tragicità e dolore dell’esistenza, in cui umano e divino si separano definitivamente: «“in der äußersten Grenze des Leidens vergißt sich der Mensch”, sagt Hölderlin». («“nell’estremo confine del dolore l’uomo si dimentica di sé”, dice Hölderlin»[69]). Meno di un mese dopo il poeta porrà fine alla propria vita gettandosi nella Senna, immergendosi senza ritornare in superficie come i «falegnami affogati» («ertrunken[e] Schreiner»[70]) in Tübingen Jänner. E questa frase è quasi identica a quella del Lenz di Büchner, rievocata dal poeta nel Meridian: «Er hatte sich ganz vergessen»[71].

In Tübingen, Jänner Lenz, Hölderlin e Celan camminano quindi a testa in giù avendo il cielo come un abisso sopra di sé; il canto di questi poeti, figli degli dèi, a cui Dio ha voltato le spalle, ormai dimentichi di sé e della proprio origine sacra, è nel presente solo un balbettìo, un Pallaksch di uomini che vivono «in dürftiger Zeit» («in miseri tempi»[72]) e tentano invano di pronunciare una parola di senso in un’epoca priva di ogni significato e d’umanità.

4. Pallaksch o musica del «buon Dio»?

Hölderlin e Celan rifletterono con uguale intensità sul rapporto tra il poeta e il suo tempo e sul ruolo che la parola è chiamata a svolgere nella storia e maturarono uno scetticismo radicale nei confronti della possibilità che la poesia potesse influenzare gli eventi e svolgere un ruolo politico nella contemporaneità; tra poesia e politica, parola e azione, poeti e storia la distanza sembrava loro farsi incolmabile. Hölderlin comprese presto che il suo Empedocle, che si ritira dal mondo e lascia ai contemporanei la sua parola, era un’utopia. La Shoah impedì a Celan di coltivare fin da subito speranze e illusioni sull’azione della parola poetica nella storia: il poeta non è che un bambino dalla barba canuta, che cammina a testa in giù, che ha dimenticato se stesso e che, parlando del suo tempo, balbetta stentatamente, eppure non tace ma continua il suo “balbettìo”, nella speranza che qualcuno prima o poi saprà e vorrà decifrarlo. Il suo «Pallaksch» somiglia alla musica dello Armer Spielmann di Grillparzer e suscita lo stesso interrogativo: la mu-sica proveniente dal violino di Jakob veniva percepita dagli ascoltatori come un groviglio sgradevole di stonature mentre il povero suonatore affermava di essere rimasto l’unico a suonare la musica del «buon Dio»: «Sie spielen den Wolfgang Amadeus Mozart und den Sebastian Bach, aber den lieben Gott spielt keiner». («Suonano Wolfgang Amadeus Mozart e Sebastian Bach, il buon Dio però non lo suona nessuno»[73]).

Di fronte al violino di Jakob, come ai complessi ed ermetici versi di Hölderlin e Celan, sorge la stessa domanda: sono gli ascoltatori che non sanno più comprendere la musica del buon Dio, che non ne percepiscono più il significato, o è Jakob ad essere incapace di vera arte? Sono i poeti a balbettare, a non possedere più il dono della parola poetica, oppure sono i lettori che sono ormai incapaci di riconoscere nel «Pallaksch» «il buon Dio»? Sono gli scrittori ad ammutolire o è la storia, privata di ogni umanità, razionalità e significato, a trasformare la loro parola una volta sublime in un farfugliare incomprensibile?

Bibliografia

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[1] «Parola temeraria». Testo tedesco e traduzione italiana sono citati dalla seguente edizione: F. Hölderlin, La morte di Empedocle, trad. e appendice di L. Balbiani, saggio introduttivo, commento, biografia e bibliografia di E. Polledri, Bompiani, Milano 2003, qui pp. 48-49, v. 464.

[2] P. Celan, Die Gedichte. Neue kommentierte Gesamtausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2018, p. 137. Trad. di G. Bevilacqua, in id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, p. 381.

[3] «Con presuntuoso orgoglio». F. Hölderlin, La morte di Empedocle, cit., pp. 48-49, v. 53.

[4] Ivi, p. 49, v. 448, v. 453, v. 458, v. 464.

[5] Ivi, pp. 48-49, vv. 447-468.

[6] «Le loro usanze […] sono travolte da / un frastuono incomprensibile»; (ivi, pp. 30-31, v. 186).

[7] «Un mestiere» (ivi, pp. 52-53, v. 501).

[8] «Falso, freddo e morto» (ivi, v. 502).

[9] «La parola del sacerdote spezza lo spirito temerario» (ivi, pp. 34-35, v. 247).

[10] «Poeta nato» (Grund zum Empedokles / Fondamento dell’Empedocle, ivi, pp. 218-219).

[11] Ibid.

[12] Cfr. ivi, pp. 116-117, vv. 1321-1325.

[13] «Questo non è più tempo di re» (ivi, pp. 116-117, v. 1325).

[14] Cfr. ivi, pp. 152-153, vv. 1869-1870.

[15] F. Hölderlin, Sämtliche Werke. Große Stuttgarter Ausgabe, Bd. 6 Briefe, hg. v. A. Beck, W. Kohlhammer, Stuttgart 1954, p. 290 (= d’ora in poi questa edizione sarà citata con l’abbreviazione StA e il numero del volume). «Il puro non può rappresentarsi che nell’impuro […] per il motivo che il nobile stesso, non appena arriva ad espressione, porta il colore del destino sotto il quale è nato». Trad. di A. Lavagetto, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, a cura di L. Reitani, Mondadori, Milano 2019, p. 1079.

[16] F. Hölderlin, La morte di Empedocle, cit., pp. 134-135, vv. 1621-1623.

[17] «Se / l’arrogante non giunge all’azione malvagia / e pecca solo a parole, / morirà come uno stolto e non ci recherà / molto danno» (Ivi, pp. 170-171, vv. 151-155).

[18] Ivi, pp. 163-163, vv. 32-37.

[19] Ivi, p. 22, vv. 77-78.

[20] Ivi, pp. 194-195, vv. 533-534.

[21] StA II, 1, pp. 119-120, vv. 56-60, trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, edizione trad. e commentata e revisione del testo critico tedesco a cura di L.R., con uno scritto di A. Zanzotto, Mondadori, Milano 2001, p. 753.

[22] Cfr. E. Polledri, «... immer bestehet ein Maas». Der Begriff des Maßes in Hölderlins Werk, Königshausen & Neumann, Würzburg 2002, pp. 151-174; C. Louth, «jene zarten Ver­hältnisse»: Überlegungen zu Hölderlins Aufsatzbruchstück «Über Religion / Fragment philosophischer Briefe», in «Hölderlin Jahrbuch» 39, 2014-2015, pp. 124-138; U. Gaier, «So wäre alle Religion ihrem Wesen nach poëtisch»: Säkularisierung der Religion und Sakralisierung der Poesie bei Herder und Hölderlin, in Ästhetik - Religion – Säkularisierung. Von der Renaissance zur Romantik, hg. v. S. Vietta, H. Uerlings, Fink, München, 2008, pp. 75-92; J. Kreuzer, «So wäre alle Religion ihrem Wesen nach poëtisch». Hölderlins Rede von Gott, in «Coincidentia: Zeitschrift für europäische Geistesgeschichte» 7, 2016, pp. 239-272; U. Gaier, Denken und Dichten, in id., Hölderlin-Studien, Isele, Eggingen, Tübingen 2014, pp. 131-157.

[23] Sulle tre stesure dell’Empedocle e il concetto tragico della storia cfr. E. Polledri, Friedrich Hölderlin: i classici, la tragedia della storia e il superamento del tragico, in F. Hölderlin, La morte di Empedocle, cit., pp. V-XLII.

[24] Cfr. W. Binder, Hölderlin und Sophokles, Hölderlinturm, Tübingen 1992; B. Böschenstein, Hölderlins Antigone als Antitheos, in «Hölderlin-Jahrbuch» 39, 2014-2015, pp. 9-21.

[25] F. Hölderlin, Antigonae, StA V, p. 223, vv. 466-469, trad. di E. Polledri. Non vi è ad oggi una traduzione italiana della traduzione hölderliniana dell’Antigone di Sofocle.

[26] Sofocle, Antigone, trad it. di M.G. Ciani, in Sofocle, J. Anouilh, B. Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, a cura di M.G. C., Marsilio, Venezia 2000, pp. 19-59, qui p. 33.

[27] Über Religion, StA IV, pp. 275-281, qui p. 278; «sfera comune», trad. di M. Bozzetti, E. Gut-Bozzetti e L. Reitani, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, cit., p. 718.

[28] Über Religion, StA IV, p. 277; «tale superiore coesione», ivi, p. 715. Dissento dalla traduzione di Bozzetti/Bozzetti/Reitani; nel saggio lo Zusammenhang è inteso in primo luogo nel senso di “nesso”, “rapporto”, “connessione”, “relazione” tra uomo e mondo; il termine “coesione” mette invece in primo piano la resistenza dei corpi ad un’azione che tende a staccarne una parte dell’altra, una “resistenza”, una “adesione”, una “tenuta”, una “compattezza” degli stessi, facendo venire meno la centralità della “relazione” presente nel saggio.

[29] P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 137, trad. di E. Polledri. Si è deciso di proporre una traduzione alternativa rispetto a quella di G. Bevilacqua, in P. Celan, Poesie, cit., p. 381.

[30] Cfr. B. Böschenstein, Tübingen. Jänner, in «Schweizer Monatshefte» 45, 1965, pp. 602-605, rist. in id., Studien zur Dichtung des Absoluten, Atlantis-Verlag, Zürich, Freiburg i.Br. 1968, pp. 101-105 e in Über Paul Celan, hg. v. D. Meinecke, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, pp. 101-105; id., «Tübingen Jänner», Kommentar, in Kommentar zu Paul Celans «Die Niemandsrose», hg. v. J. Lehmann, Winter, Heidelberg 1997, pp. 119-124; id., Involution. Paul Celan: «Tübingen, Jänner», in Gedichte von Paul Celan, hg. v. H. M. Speier, Reclam, Stuttgart 2002, pp. 95-104, anche in id., Von Morgen nach Abend: Filiationen der Dichtung von Hölderlin zu Celan, Fink, München 2006, pp. 307-313; cfr. S. Bogumil, Celans Hölderlinlektüre im Gegenlicht des schlichten Worts, in «Celan-Jahrbuch» 1, 1987, pp. 81-125; M. Geier, «Zur Blindheit überredete Augen». Paul Celan / Friedrich Hölderlin: Ein lyrischer Intertext, in id., Die Schrift und die Tradition. Studien zur Intertextualität, Fink, München 1985, pp. 17-33; A. Gellhaus, Erinnerung an schwimmende Hölderlintürme. Paul Celan «Tübingen, Jänner». Spuren 24. Dezember 1993, hg. v. U. Ott, F. Pfäfflin, Th. Scheuffelen, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach a. Neckar 1993; Ph. Lacoue-Labarthe, La poésie comme expérience, Christian Bourgeois, Paris 1986, pp. 13-37; E. Polledri, («Pallaksch. Pallaksch»). Celans Poetik der tragischen Zäsur und die Dichtung als «Lallen», in Das Tragische: Dichten als Denken. Literarische Modellierungen eines pensiero tragico, hg. v. M. Menicacci, Winter, Heidelberg 2016, pp. 153-171; R. Selbmann, Hölderlins «Hälfte des Lebens» mit Celans «Tübingen, Jänner» als poetologisches Gedicht gelesen, in «Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft» 36, 1992, pp. 219-228; B. Wiedemann, Kommentar, in P. Celan. Die Gedichte, cit., pp. 794-795; R. Zbikowski, «schwimmende Hölderlintürme». Paul Celans Gedicht «Tübingen, Jänner» – diaphan, in «Der glühende Leertext». Annäherungen an Paul Celans Dichtung, hg. v. Ch. Jamme und O. Pöggeler, Fink, München 1993, pp. 185-211. In italiano cfr.: C. Miglio, Afasia e assenza: Hölderlin e Celan, in Il turbamento e la scrittura, a c. di G. Ferroni, Donzelli, Roma 2010, pp. 53-64.

[31] Cit. da Gellhaus, Erinnerung, cit., p. 5. Trad. di E.P.

[32] «Die Zeit», n. 24, 9. Juni 1961.

[33] G. Büchner: Sämtliche Werke, Briefe und Dokumente in zwei Bänden, hrsg. v. H. Poschmann unter Mitarbeit von R. Poschmann, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M. 1992-99, vol. 1, pp. 225-250, qui p. 225. Trad. di G. Dolfini in G. Büchner, Lenz, Adelphi, Milano 20034, p. 11.

[34] P. Celan, Gesammelte Werke, hg. v. B. Allemann, S. Reichert, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, vol. 3, p. 195. Trad. di G. Bevilacqua, in P. Celan, La verità della poesia. Il «meridiano» e altre prose, Torino 2008, p. 12.

[35] «A cecità persuasi / gli occhi». P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 137, trad. di E.P.

[36] B. Böschenstein, Tübingen Jänner, Kommentar, cit., p. 120.

[37] Der Rhein, StA II, 1, p. 143, vv. 40-45, Il Reno, trad. it. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 331, vv. 40-45.

[38] Ivi, vv. 46-47.

[39] ivi, vv. 47-52. Trad. di E. Polledri. Si è optato per una traduzione alternativa rispetto a quella di L. Reitani: «Giacché / Ti arresteresti allinizio, / Per quanto sia forte il bisogno / E la disciplina, più di tutto infatti / Può la nascita» (F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 331, vv. 47-52).

[40] Wie wenn am Feiertage ..., StA II, 1, p. 118, v. 20. «E ciò che ho visto, il sacro, sia la mia parola», Come nel giorno di festa ..., trad. it. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 751, v. 20.

[41] Dichtermuth, I Fassung, p. 62, vv. 9-16, Coraggio del poeta, trad. it. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 794, vv. 9-16.

[42] In lieblicher Bläue, StA II, 1, p. 372. «Lo attornia garrire di rondini in volo, lo avvolge l’azzurro più toccante». In amabile azzurro, trad. di L. Reitani in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 347.

[43] Die Wanderung, StA II, 1, p. 139, v. 28. «Liberi, come rondini, sono i poeti». La migrazione, trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1151, v. 28.

[44] Dem Allbekannten, StA II, 1, p. 201, vv. 1-2. «Libero, come le rondini, è il canto; volano e migrano / Liete di terra in terra», Al noto a tutti, trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 773, vv. 1-2.

[45] P. Celan, Nachmittag mit Zirkus und Zitadelle, in id., Die Gedichte. Neue kommentierte Gesamtausgabe, cit., p. 154. Pomeriggio con circo e fortezza, trad. di G. Bevilacqua, in P. Celan, Poesie, cit., p. 449.

[46] Cfr. Böschenstein, Kommentar, cit., p. 119.

[47] «Visite di falegnami affogati / con queste / parole che s’immergono». P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 137, vv. 9-11, trad. di E.P.

[48] P. Celan, Gesammelte Werke, cit., vol. 3, p. 195. Trad. di G. Bevilacqua, in P. Celan, La verità della poesia, cit., p. 12.

[49] «La scaturigine del Reno riceve nella poesia di Celan su Hölderlin il significato di una lontana e originaria possibilità del poetare, che adesso può essere rammemorata solo per negazione. Invece di scaturire come una fonte – che rappresenta la poesia nella sua iniziale e misteriosa pienezza, quella pienezza da cui si sviluppa l’inno, che poi discioglie lo stesso enigma dell’inizio – le parole s’immergono verso il basso, gli occhi sono divenuti ciechi». B. Böschenstein, Hölderlin und Celan, in «Hölderlin-Jahrbuch», 23, 1982-1983, pp. 147-155, qui p. 151; Hölderlin e Celan, trad. di M. Baldi, in «Aisthesis», a. III, n. 1, 2010, pp. 25-34, p. 29. (LINK, ultima consultazione 1 ottobre 2019).

[50] Vgl. StA II, 1, p. 268, trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1245.

[51] Anmerkungen zum Oedipus, StA V, p. 197. «Sfera eccentrica dei morti», trad. di M. Bozzetti, E. Gut-Bozzetti e L. Reitani, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, cit., p. 765.

[52] Hälfte des Lebens, StA II, 1, p. 117, vv. 4-7, Metà della vita, trad. it. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 299, vv. 4-7.

[53] Ivi, v. 5.

[54] «Nomi: immersione – battesimo / poesia come immersio – non aspersio» (P. Celan, Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, vol. VII, p. 375, trad. di E. Polledri). Cfr. Böschenstein, Involution. Paul Celan: Tübingen, Jänner, in id., Von Morgen nach Abend, cit., p. 310.

[55] Anmerkungen zum Oedipus, StA V, p. 197. «Sfera eccentrica di morti», Note all'Edipo, trad. it. di M. Bozzetti, E. Gut-Bozzetti e L. Reitani, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, cit., p. 765.

[56] «Venisse / Venisse un bambino / un bambino al mondo». P. Celan, Die Niemandsrose, Tübinger Ausgabe, p. 37, cit. da B. Böschenstein, Involution, cit., p. 310, trad. di E.P.

[57] Cfr. Am Quell der Donau, StA II, 1, p. 128, v. 79. Trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1131, v. 56.

[58] Am Quell der Donau, StA II, 1, p. 128, vv. 80-85, Alla fonte del Danubio, trad. it. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 1131, vv. 57-63.

[59] G. Büchner: Sämtliche Werke, Bd. 1, cit., p. 214. Trad. di C. Magris, in G. Büchner, Woyzeck, Marsilio, Venezia 1988, p. 90 («Dai, forza, ancora, dateci dentro»). Questa invece l’edizione posseduta da Celan: Büchner, Werke und Briefe, hg. v. F. Bergemann, Insel, Wiesbaden 1958, p. 166.

[60] Cfr. K. Voswinckel, Paul Celan: verweigerte Poetisierung der Welt. Versuch einer Deutung, Lothar Stiehm, Heidelberg 1974, p. 151.

[61] Ch. Th. Schwab, Tagebuch, 14. Jan. 1841, StA VII, 3, pp. 203-204.

[62] P. Celan, Die Gedichte, cit. p. 572, vv. 1-5. Trad it. di G. Bevilacqua, in P. Celan, Poesie, cit., p. 1331.

[63] Gerning an K. L. Knebel, Homburg, 11. Juli 1805, StA VII, 2, p. 287. Trad. di M. Baldi, in B. Böschenstein, Hölderlin e Celan, cit., p. 26. Cfr. B. Böschenstein, Hölderlin und Celan, cit., p. 147.

[64] B. Böschenstein, Hölderlin und Celan, cit., p. 147. Trad. di M. Baldi, in B. Böschenstein, Hölderlin e Celan, cit., p. 26.

[65] Cfr. Deutsches Wörterbuch von Jacob und Wilhelm Grimm, 16/32 Bde, S. Hirzel, Leipzig 1854-1961, vol. 31, col. 16-17 (LINK, ultima consultazione 1 ottobre 2019).

[66] Anmerkungen zum Oedipus, StA V, p. 201, trad. di M. Bozzetti, E. Gut-Bozzetti e L. Reitani, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, cit., p. 772.

[67] P. Celan, Die Gedichte, cit. p. 572, v. 3, trad it. di G. Bevilacqua, in P. Celan, Poesie, cit., p. 1331, v. 3.

[68] Cfr. Anmerkungen zum Oedipus, StA V, p. 202, Note all'Edipo, trad. di M. Bozzetti, E. Gut-Bozzetti e L. Reitani, in F. Hölderlin, Prose, Teatro e Lettere, cit., p. 772.

[69] La conferenza di Binder venne tenuta il 22 marzo 1970 al convegno annuale della Hölderlin-Gesellschaft e pubblicata per la prima volta in «Hölderlin-Jahrbuch» 16, 1970, pp. 19-37, qui p. 34. Trad. di E.P.

[70] P. Celan, Die Gedichte, cit., p. 137, v. 9.

[71] P. Celan, Gesammelte Werke, cit., vol. 3, p. 193.

[72] Brod und Wein, StA II, 1, p. 94, v. 122. Pane e vino, trad. di L. Reitani, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 953, v. 122.

[73] F. Grillparzer, Der arme Spielmann, in id., Sämtliche Werke. Ausgewählte Briefe, Gespräche, Berichte, hg. v. P. Frank, K. Pörnbacher, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1960-65, vol. 3, pp. 162-163. F. Grillparzer, Il povero suonatore, Marsilio, Venezia 1993, p. 99.