Maurizio Pirro

(Bari)

«Machen Sie mich nicht reich. Geben Sie mir nur so viel, als man
braucht, wenn man nicht gehorchen, und nicht befehlen will»
Strategie del possesso nella «Betschwester»
di Christian Fürchtegott Gellert

[«Do not make me rich. Give me only so much as one needs
when one does not want either to obey or to command»
Strategies of possession in Christian Fürchtegott Gellert’s «The Prayer Sister»]

abstract. As in all Gellert’s comedies, the characters of the The Prayer Sister (1745) aspire to both material well-being and an ideal spiritual happiness. The impulse to possession, which encompasses the sphere of reality as well as that of the symbolic, is an ambivalent, contradictory force. The aim of self-affirmation through wealth is coherent with bourgeois dynamism. The consequent exposure to the loss of a moral compass, however, corresponds to a drainage of the vital force which impels the logic of wish. This study deals with these themes both in Gellert’s theatre and in his essays.

I.

Intorno al possesso e all’accumulo della ricchezza materiale ha luogo una delle partite di senso decisive per quella ridefinizione dell’immagine dell’uomo che è alla base della cultura del Settecento. L’uscita dall’orizzonte cartesiano, che Panajotis Kondylis[1], in un’opera fondamentale, ha complessivamente rappresentato sotto il segno di un’antropologia degli affetti legata anche alla crescente differenziazione delle attività svolte nella dimensione della prassi, prende corpo parallelamente alla trasformazione dell’economia. La moltiplicazione delle opportunità di arricchimento e di affermazione sociale va di pari passo con un affinamento progressivo delle culture materiali, le quali vedono intensificarsi drasticamente il proprio potenziale di significazione simbolica. L’aspirazione così tipicamente illuministica al conseguimento della felicità tende a congiungersi in un nesso sempre più stretto all’identità patrimoniale dei soggetti, la quale a sua volta si incorpora visibilmente in quel vasto corredo di oggetti distintivi che si dispongono lungo lo scenario delle abitazioni borghesi, appagando il desiderio di promozione dei loro proprietari[2].

La tecnica gioca, va da sé, un ruolo determinante in questi processi. Non solo, infatti, il perfezionamento delle procedure di produzione estende a dismisura lo spettro dei beni sui quali può esercitarsi l’aspirazione al possesso dei nuovi attori sociali. Il potenziamento degli strumenti di percezione, innanzi tutto in ambito visuale, rende possibile anche un apprezzamento via via più incisivo della fattura e del funzionamento di quegli oggetti, predisponendo una cornice sensitiva destinata a influenzare anche i meccanismi di ricezione estetica. L’aumento produttivo e il miglioramento qualitativo delle merci, nonché l’accelerazione dei tempi necessari alla loro circolazione e al loro acquisto, contribuiscono in modo non secondario a quell’accentuata “temporalizzazione” dell’esperienza nella quale Reinhart Koselleck ha identificato una delle categorie concettuali poste a fondamento del Moderno. La contrazione percettiva associata all’esperienza del tempo, la frammentazione di quell’idea di coerenza fra gli assi dello spazio e del tempo che il pensiero cartesiano aveva localizzato nel dominio della coscienza razionale, e infine l’attitudine a materializzare tangibilmente questo cambio di paradigma agendo in modo diretto sulle modalità della propria esistenza (dilatando la rete delle relazioni sociali e accrescendo i profitti) – tutto ciò è all’origine di quella radicatissima ambivalenza, propria di tutto il diciottesimo secolo, che vede nella mutazione dei rapporti temporali generati dal dominio della tecnica sia una fonte di diletto e di riequilibrio identitario, sia – al contrario – un motivo di angoscia e un’espressione primitiva di alienazione.

La commedia si afferma nella letteratura tedesca del Settecento come un luogo particolarmente congeniale alla discussione di queste dinamiche. Bern­hard Greiner ha attribuito al genere letterario una incisiva disposizione a mettere in rilievo i margini in ombra e gli aspetti non risolti dell’illuminismo[3], coniando così una formula di notevole impatto sulla letteratura critica. L’efficacia di tale rappresentazione, in realtà, non è necessariamente in rapporto con una consapevolezza distinta di quelle ambiguità. La mancata risolvibilità delle contraddizioni che si accendono nella sfera della soggettività, là dove questa entra in contatto con una costellazione del tutto nuova di sollecitazioni psichiche, bisogni identitari e attese materiali, tende anzi a definirsi con trasparenza tanto maggiore, quanto più lineare è la trasposizione del sistema di valori dominante nello spazio sociale in cui si sviluppa la messinscena. Il motivo del denaro, da questo punto di vista, costituisce un indicatore assai affidabile circa la radicalità delle trasformazioni culturali del diciottesimo secolo, perché la sua indubbia capacità di soddisfare aspettative profonde del singolo individuo, in termini di capitale materiale e simbolico, si incrocia con le limitazioni e i veri e propri danni che queste stesse aspettative, una volta realizzate, sono potenzialmente in grado di infliggere alla comunità nel suo complesso. Le condotte intese al perseguimento, all’accumulo e alla difesa della ricchezza, sulle quali si incardina una parte essenziale delle interazioni sociali che sono alla base della commedia del Settecento, portano in superficie il groviglio delle istanze, per lo più in aspro conflitto fra loro, connesse al raggiungimento della felicità privata da una parte, alla costruzione del bene pubblico e collettivo dall’altra.

Nelle Moralische Vorlesungen, le prolusioni tenute con enorme successo di pubblico durante gli anni di insegnamento all’università di Lipsia, oggetto nel corso del tempo di revisioni e riscritture, poi pubblicate postume nel 1770 a opera di Johann Adolf Schlegel e Christian Leberecht Heyer come sesta e settima parte delle sue Sämmtliche Schriften, Gellert affronta direttamente la questione del rapporto fra la promozione del singolo e il progresso della comunità[4]. Le ricchezze materiali, così nella Lezione XV, soddisfano un bisogno di accrescimento e distinzione del tutto coerente con le basi della morale. Di più. È semmai l’astensione dal perseguimento del proprio vantaggio, finché questo non leda alcuni irrinunciabili principi di buona e ordinata convivenza, a costituire un’infrazione rispetto al sistema degli obblighi ai quali ciascuno è naturalmente tenuto. «Wer aus Trägheit mit einem geringern Vermögen zufrieden ist, weil er nicht mehr bedarf, und doch durch eine sorgfältigere und treuere Beobachtung seines Berufs sich ein größres erwerben könnte, der sündiget; denn er könnte mit größrem mehr Gutes stiften»[5] – la concezione gellertiana di morale appare qui strettamente vincolata al mantenimento di un dinamismo economico inteso a garantire il protagonismo dei corpi sociali che dal complesso delle trasformazioni in atto alla metà del Settecento potevano attendersi un continuo consolidamento dei propri profitti. Il soddisfacimento di tali aspettative trova non tanto un contenimento, quanto un ulteriore elemento di legittimazione, nell’idea che la ricchezza personale realizzi la massima destinazione possibile quando contribuisce al benessere collettivo, abbracciando una responsabilità sociale che impone equilibrio e liberalità. In questo senso, avidità ed egoismo sono elementi di corruzione sia del singolo individuo («die üble Anwendung unsers Vermögens verderbt nothwendiger Weise unser Herz»)[6], sia soprattutto della società umana nel suo insieme:

Der Reichthum erstreckt sich […] nicht allein auf unsre Bedürfnisse, sondern auch auf die Bedürfnisse der Andern. Geiz ist Grausamkeit gegen die Dürftigen, und die Verschwendung ist es nicht weniger. […] Es ist Pflicht, ein milder, hülfreicher und gutthätiger Mann zu seyn; und das Vermögen, das wir entbehren können, zu unnöthigen Kostbarkeiten und Zierrathen und zu theuern Vergnügungen anwenden, anstatt daß wir dem Mangel Andrer dadurch hätten abhelfen, Elende erquicken und Nackende kleiden können, ist vor der Vernunft ein Raub an den Armen. […] Die nützliche Anwendung unsers Vermö­gens und Ueberflusses muß sich daher durch unser ganzes Leben verbreiten und zu einer Fertigkeit werden, wie alle andre Pflichten.[7]

I doveri civili dei benestanti sono parte di quel sistema triadico di obblighi che per Gellert costituisce il fondamento della morale, e che comprende – oltre al raggiungimento dell’utile collettivo – anche il perseguimento della felicità individuale e il riconoscimento della priorità della religione[8]. La circolazione della ricchezza, che per Gellert rappresenta senz’altro un positivo fattore di incivilimento, non configura evidentemente una sfera autonoma dal punto di vista morale, ma si giustifica pienamente solo se subordinata a una motivazione trascendente. L’ancoramento della condotta umana alla sfera del divino funge nel pensiero di Gellert da strumento di stabilizzazione di fronte alla tendenza di affetti e ragione ad assumere un profilo indipendente e a rivendicare per se stessi un ambito di esercizio sottratto a qualunque controllo[9]. Se la finalità della morale, come si legge nella proposizione iniziale della Lezione I, coincide con un armonioso disegno di totalità realizzata, nel senso che «die Moral […] soll unsern Verstand zur Weisheit und unser Herz zur Tugend bilden, und durch beides uns zum Glücke leiten»[10], occorre in ogni caso, perché questa destinazione alla felicità del singolo si realizzi in accordo con gli altri ordini di verità entro cui si esercita l’azione dell’uomo, che tutte le disposizioni coinvolte partecipino in modo ponderato a questo sforzo. La necessaria cooperazione di ragione e sentimento[11], peraltro, non implica affatto una piena equivalenza delle loro prerogative. Benché la capacità persuasiva del discorso morale si eserciti anche nel campo della retorica degli affetti, in quella «gewisse Beredsamkeit des Herzens»[12] che Gellert indica come il motore fondamentale dell’effetto estetico, le rappresentazioni dell’intelletto conservano una primazia incontrastata rispetto alle sensazioni, le quali necessitano di un orientamento[13] e sono sempre esposte, se la ragione non adempie a questa funzione di guida, al rischio di degenerare in una primitiva ferinità[14]. Se l’origine degli affetti è sostanzialmente in armonia con la finalità morale dell’uomo, perché essi scaturiscono dal naturale desiderio di felicità, nondimeno la vivacità della loro espressione, resistente a qualsiasi controllo, è tale da porli in contrasto radicale con la virtù[15].

Un atto morale presuppone per Gellert sia il riconoscimento razionale del carattere vincolante dei doveri che competono all’uomo, sia la disponibilità a porre l’esistenza in un rapporto di ininterrotta continuità con il divino. Il piano della conoscenza astratta e quello materiale della prassi debbono incrociarsi e alimentarsi reciprocamente. Il possesso di un’immagine distinta degli obblighi inderogabili, precedente all’esperienza di situazioni concrete, consolida l’inclinazione morale più di quanto accada mediante la passiva interiorizzazione di un modello oggetto di imitazione. Lo statuto di verità di tali immagini, d’altra parte, è garantito in modo definitivo solo dalla loro relazione con l’immagine trascendente del divino: «Suche also immerzu ein lebhaftes und würdiges Bild von den Vollkommenheiten Gottes in deiner Seele zu entwerfen, dir dasselbe gegenwärtig zu erhalten, und es nie ohne Ehrfurcht zu betrachten; auch verbinde täglich dieses Mittel mit dem Gebete», così Gellert in una delle Lezioni incentrate su un corpo di norme pratiche per la conduzione di un’esistenza morale[16]. Lo spiccato pragmatismo sotteso alla morale gellertiana, incline a situare i principi generali nel vivo di relazioni sociali determinate, si manifesta qui, oltre che nell’esplicita evocazione di una dimensione collettiva (in base alla quale fonte di una condotta virtuosa è anche il commercio con individui dediti alla virtù)[17], nell’attribuzione a ciascun individuo della capacità di interiorizzare una rappresentazione veritiera e moralmente efficace del divino, corroborata da quell’attitudine spontanea al pensiero e alla pratica della virtù che Gellert assimila dalla familiarità con gli autori canonici del sensismo inglese[18]. Il legame tra religione e morale, inoltre, appare a Gellert un buon argomento per ridimensionare il prestigio del classicismo francese e, di conseguenza, per posizionarsi in senso critico rispetto ad alcuni punti delle teorie gottschediane. Se la morale religiosa, infatti, attinge a un più alto grado di verità rispetto a quella naturale, poiché si alimenta a «eine höhere Quelle»[19], l’eccellenza dell’antico richiede di essere almeno temperata in base a questa condizione di svantaggio nei confronti del mondo moderno, in cui le dottrine morali sono confortate dalla conoscenza della rivelazione.

II.

La Betschwester appare nel 1745 nei Neue Beyträge zum Vergnügen des Verstandes und Witzes. È noto che la commedia susciterà il risentimento di chi vi leggerà un’offesa al sentimento religioso, tanto che lo stesso Gellert, oltre a eliminare diversi passi satirici da alcune messinscene degli anni successivi, si premurerà di prendere esplicitamente posizione contro queste accuse in uno scritto introduttivo premesso all’edizione dei Lustspiele del 1747. Il sostegno che nel pensiero di Gellert la ragione assicura ai dogmi della religione viene qui utilizzato come un argomento a favore della buona qualità della commedia, e quindi anche della sua moralità:

Ja, ich traue in diesem Stücke meinem Herzen so sehr, daß ich gar nicht glaube, daß es mich bey einer so wichtigen und heiligen Sache unvorsichtig denken und scherzen lassen sollte. Wer mit der Religion spottet; wer es auch nur merken läßt, daß er damit spotten will, ist der unverschämteste und frechste Mensch, wenn er auch tausendmal die Religion nicht für göttlich hielte. Kann man mit einer Sache, die dem größten Theile der Welt, so viel tausend klugen und großen Seelen ehrwürdig und schätzbar gewesen ist, und noch ist, verächtlich umgehen, ohne die Vernunft zu beschimpfen?[20]

Gellert protesterà anche in altre occasioni contro l’idea che la rappresentazione degli eccessi provocati in singoli individui da pregiudizio e superstizione possa colpire, oltre che l’oggetto della rappresentazione stessa, anche la religione in sé. In un importante saggio del 1760, per esempio, chiarirà che «eine Sache verachten und sie nicht kennen, ist lächerlich. Aber eine Sache hochschätzen und sie nicht kennen, ist dieses weniger unvernünf­tig?»[21], richiamando così il perplesso sconcerto con cui nella commedia tutti i personaggi registrano le espressioni della bigotteria della protagonista. Il punto, peraltro, è rilevante soprattutto in termini di teoria dell’effetto drammatico. Insistendo sul fatto che il personaggio è portatore di livelli di senso non coincidenti unicamente con il contenuto dei suoi pronunciamenti, i quali riflettono chiaramente una deformazione grottesca delle pratiche di devozione, Gellert segnala come il personaggio stesso, e in generale tutto il quadro delle sue relazioni con le altre figure impegnate nell’intreccio, si definisca molto al di là della funzione meramente illustrativa che la particolarità del suo carattere gli avrebbe conferito nella tradizionale Typenkomödie. La rivendicazione delle ambivalenze morali implicite nella protagonista dell’opera punta a emancipare la Betschwester, e con essa l’idea gellertiana del comico, dal rigido determinismo tipologico che dominava la commedia in lingua tedesca ancora agli inizi del diciottesimo secolo, e la cui angustia costituisce in Gellert il principale obiettivo polemico tanto del teorico, quanto dello scrittore di drammi.

Nel trattato Pro comoedia commovente, con il quale Gellert, nel 1751, inaugura l’attività di insegnamento presso l’università di Lipsia, il limite di una concezione del comico fondata esclusivamente sulla stigmatizzazione di condotte moralmente deplorevoli viene indicato nella sua insufficiente efficacia pratica. La drastica semplificazione richiesta dall’alternativa fra la pura e semplice adesione a un modello positivo e la recisa condanna di un modello negativo allontana lo spettatore dalla complessità del giudizio morale, così come è richiesto dalle trasformazioni sempre più profonde che investono la vita sociale. Più che consegnando alla riprovazione del pubblico delle figure facilmente leggibili nell’univocità delle loro attitudini, la commedia – così Gellert – adempie il proprio mandato pedagogico costruendo sistemi stratificati e molteplici di interazioni fra individui eterogenei, nei quali accanto al malvagio e allo sciocco compaiano anche il valoroso e il virtuoso. Questa forma mista, alla quale lo stesso Gellert aveva inteso fornire un contributo creativo, risponde alla finalità – così nella prolusione del 1751, tradotta dal latino a opera di Lessing, il quale la pubblica nel 1754 nel primo numero della Theatralische Bibliothek – «nicht allein die Gemüther der Zuschauer zu ergötzen, sondern auch so zu rühren und so anzutreiben […], daß sie [il nuovo genere drammatico] ihnen so gar Thränen auspresse»[22]. La commedia riformata non deve rinunciare al diletto fornito dal sapido e dal grottesco. Si tratta semmai di affiancare a questi effetti quelli, eminentemente tragici, suscitati dall’ammirazione per la grandezza d’animo e dalla compassione per il travaglio del cuore. In questo senso Lessing aveva avuto buon gioco a inaugurare il fascicolo della Theatralische Bibliothek dedicato alla commedia lacrimosa affermando che questo genere finiva per incrociarsi con il dramma borghese, nel senso che quest’ultimo scaturiva dall’abbassamento della tragedia tradizionale di qualche grado, mentre il rührendes Lustspiel traeva la commedia dalle secche del ridicolo e dell’insulso, innalzandola della stessa misura.

Il trattato di Gellert si colloca certamente su un fronte avanzato della cultura dell’Empfindsamkeit, poiché sviluppa un modello di piacere estetico calibrato su quella teoria dei “sentimenti misti” che, maturata nell’ambito dell’empirismo inglese, informava un vasto settore dell’antropologia riconducibile alla Popularphilosophie settecentesca. La stessa linea speculativa si ritrova in un saggio compreso nell’edizione delle Vermischte Schriften del 1756, intitolato Von den Annehmlichkeiten des Mißvergnügens, nel quale Gellert rileva come «eine gemischte Empfindung hat, gegen eine einfache gehalten, etwas neues und etwas sehr rührendes, weil eine Regung die andere durch ihren Widerstand erhöht»[23]. L’effetto di amplificazione delle capacità sensitive determinato dal conflitto fra due pulsioni divergenti appare alimentato, nella ricostruzione che ne fa Gellert, da quell’interesse per la fisiologia degli affetti che caratterizza, in questo stesso periodo, le osservazioni sulle fonti del piacere estetico sviluppate da Johann Georg Sulzer. In entrambi (se si sta, per quanto riguarda Sulzer, alle Psychologische Betrachtungen über den sittlichen Menschen del 1769) il diletto generato dalle esperienze sensibili, molto prima di essere disciplinato dall’intervento della ragione, è potenziato dalla vivacità del dinamismo che sollecitazioni opposte imprimono nella psiche dell’individuo, il quale sente espandersi la propria capacità percettiva e ne prova piacere, indipendentemente dall’apprezzamento di singoli elementi di pregio. L’intensità del sentire, peraltro, se costituisce l’innesco dell’effetto estetico, richiede in ogni caso, per Gellert come per Sulzer, di venire temperata e in un certo senso trascesa dal potere regolativo dell’intelletto. Questa dialettica presiede anche alle teorie gellertiane sul comico. In Pro comoedia commovente, cioè, l’obiettivo del nuovo genere comico non è la ridefinizione delle categorie morali che sono in gioco nelle condotte dei personaggi rappresentati, e che sono collegate a un modello vincolante e non patteggiabile, ma – attraverso l’assimilazione di tipologie caratteriali e sistemi di comportamento normalmente al di fuori dell’ambito comico – l’allargamento dell’azione a corpi sociali portatori di uno spiccato interesse per la fruizione degli spettacoli. Non è in gioco, insomma, la discussione critica dei paradigmi ai quali si sostiene la rappresentazione scenica della virtù, ma, all’opposto, la moralizzazione delle passioni accese dalla commedia. Una finalità che Gellert arriva ad adombrare sulla base di una dettagliata conoscenza delle peculiarità mediali del genere drammatico[24], e che Lessing, pur consentendo in linea di massima con la prospettiva del trattato, contesterà proprio riguardo al rapporto tra passioni e morale, vagheggiando un ideale di commedia nel quale gli affetti non si limitino a intensificare il legame tra il pubblico e i personaggi, ma agiscano da potente motore cognitivo, in grado di orientare il pubblico stesso in una conoscenza plurale e differenziata della natura umana. «Nur dieses allein», così Lessing analizzando il saggio di Gellert, «[sind] wahre Komödien, welche so wohl Tugenden als Laster, so wohl Anständigkeit als Ungereimtheit schildern, weil sie eben durch diese Vermischung ihrem Originale, dem menschlichen Leben, am nächsten kommen»[25].

L’ossessione religiosa di Frau Richard, se è il più macroscopico dei suoi tratti, non è tuttavia quello veramente decisivo nel determinare la sua posizione rispetto alle altre figure della commedia. Questa sua inclinazione è vista generalmente come una bizzarra curiosità, indice sì di insipienza e grettezza, ma di per sé non sufficiente a compromettere definitivamente ogni possibile commercio con lei, come accade nell’accidentata trattativa condotta dal sensale Ferdinand, che dovrebbe condurre al matrimonio fra Simon e Christianchen. La cesura davvero irrevocabile interviene quando all’invincibile superstizione che orienta le più banali decisioni della donna si sovrappone la sua avidità. Il calcolo dell’interesse personale assorbe per intero la psiche della ricca vedova, dominandola nella forma di un desiderio onnivoro e assoluto. Di fronte al carattere divorante di questo inesauribile bisogno di agio, ogni altra pulsione si rivela uno strumentale espediente, agitato pretestuosamente per occultare la perentorietà di un impulso non contenibile. In questo senso, il motivo religioso, che per l’estremità della sua deformazione parossistica si presenta come uno strumento comico di effetto sicuro, non è che una funzione di quello economico, il quale intride la commedia pervadendola di un elemento di ambiguità che si presenta ripetutamente nella scrittura teatrale di Gellert, nelle Zärtliche Schwestern (1747) come nel Loos in der Lotterie (1747).

Nelle commedie gellertiane l’arricchimento e la difesa del patrimonio sono sì connotati nel segno dell’eccesso e della paranoia, secondo quanto richiesto dalla codificazione tipologica della fisionomia dell’avido, che evidentemente filtra e si conserva sostanzialmente inalterata lungo i canali della tradizione comica. I personaggi più incurabilmente ripiegati sul proprio beneficio particolare, tuttavia, sono segnati soprattutto da un’inclinazione altrettanto totalizzante alla malinconia. Il perseguimento della felicità, che certamente intride le attese di queste figure apprendendosi in modo esclusivo alla sfera del possesso materiale, è oscurato dall’angoscia del declassamento, dal sospetto circa la caducità della ricchezza e l’imprevedibilità della sorte. Nel Loos in der Lotterie, che è costruito secondo una divisione simmetrica assai netta nelle due coppie dei protagonisti, in modo che a un personaggio avido e calcolatore se ne contrapponga uno del tutto estraneo alla logica dell’accumulo, Damon si premura nelle circostanze più banali di prevedere per sé il margine più ampio possibile di profitto, e questa cura, lungi dal soddisfare il suo desiderio, finisce per gettarlo in uno stato di irrimediabile afflizione. Lo spregiudicato vitalismo sotteso al suo inarrestabile impulso proprietario si ribalta nella paura dell’espropriazione e del fallimento[26]. D’altro canto, anche l’abulico Orgon, a cui è affidato il sistematico rovesciamento delle tesi di Damon, è rappresentato in una luce negativa. La sua indifferenza per il denaro e la sua aspirazione a un’esistenza domestica, protetta da tutte le incertezze della vita sociale, sono stigmatizzate come un segno di insipienza. Il suo culto della mediocrità non ha nulla della arcadica compostezza e del pieno controllo sugli affetti che alla metà del Settecento ispirano l’ideale idillico, così come si ritrova nelle composizioni pastorali di Salomon Gessner. Orgon, al contrario, appare sulla scena costantemente oppresso da qualche motivo di malumore, che è per lo più generato dalla sua incapacità di reggere le comuni fatiche della vita pratica (la scortesia di un vetturino, una conversazione appena più articolata di un semplice scambio di convenevoli, perfino la puntura di un insetto), e che si incarna in una condizione di continua sofferenza fisica, espressa tramite un’inconfondibile inclinazione al paradosso e all’eccesso: «Es hat mich eine Mücke auf den Fuß gestochen. Nun juckt mich das Schienbein abscheulich; und wenn ich es reibe, so wird mir das Bücken und das Reiben sauer. Und endlich werde ich auf die Nacht nicht schlafen können»[27].

Lo strisciante manifestarsi di una componente patologica nella percezione di sé e nella condotta di queste figure è certamente un esito della commedia tradizionale, perché si presta a caratterizzare nel modo più netto i difetti di un personaggio, assumendoli come una incancellabile componente identitaria, ma è anche l’aspetto destinato a rivelare l’ambiguità annidata nella sfera del desiderio. Lo stato di esasperazione e di frenesia in cui nel Loos in der Lotterie versano tutti i personaggi avvinti nel giro delle proprie fantasie di possesso, e incapaci (con la sola eccezione della signora Damon) di temperare questa spinta immaginando un uso sociale e solidale delle proprie ricchezze, è un indicatore assai chiaro dell’insidia morale che aleggia sullo sfondo del dinamismo borghese: la pratica dell’accumulo va stabilendosi come un esercizio immune da ogni possibile finalità collettiva, la potenza del desiderio economico invade la psiche degli individui allargandosi progressivamente a tutte le sue dimensioni[28]. L’impulso al possesso, che per il Gellert moralista costituisce una forza sana, purché sia temperata dal calcolo del bene comune, e che in ogni caso è il cardine più stabile dell’identità borghese nel suo sforzo di emancipazione dai vincoli dell’ordine premoderno, intride le relazioni private, falsifica gli affetti sottoponendoli alla violenza del controllo totalitario, soprattutto svuota dall’interno la struttura stessa del desiderio, prosciugandone l’efficacia[29]. Nel finale del Loos in der Lotterie, questo processo degenerativo è solo parzialmente riassorbito dal compimento dell’amore tra Anton e Carolinchen, i quali possono sposarsi, dopo anni di attesa, grazie al beneficio concesso loro dalla titolare del biglietto vincente. In realtà, proprio l’insistito riferimento al fatto che sia finalmente possibile disporre di una cifra adeguata alla celebrazione del matrimonio e all’avvio dell’esistenza coniugale, il richiamo dettagliato all’entità della cifra e l’implicito parallelismo fra la dotazione finanziaria della coppia e il grado del loro riconoscimento sociale – tutto ciò segnala con forza come l’economia delle passioni sia oramai inseparabile dall’economia reale. Lo affermerà con disincanto, nelle Zärtliche Schwestern, la condotta del più spregiudicato dei personaggi gellertiani, quel Siegmund che con la fissa impassibilità del seduttore seriale proverà a ottenere il massimo vantaggio dall’inopinato (e illusorio) arricchimento della futura cognata, accreditandosi presso il suocero come un valido partito non più per la sua promessa sposa, ma appunto per la giovane sorella di costei, destinataria di una cospicua eredità che nel finale del dramma si rivelerà inesistente. L’intercambiabilità degli individui, all’interno di un sistema di rapporti viziati dalla sovrapposizione di verità e menzogna, indica l’esaurimento del desiderio come forza vitale e la caduta in un orizzonte di dissimulazione nel quale il possesso dell’altro è il punto finale di una dinamica autonoma, fuori da qualunque regime di disciplina degli affetti[30].

III.

La rappresentazione del denaro, e in generale della ricchezza patrimoniale nei drammi di Gellert, è stata efficacemente interpretata come un «vielschichtiges Symbol, welches die Aufladung mit angst- bzw. lustbesetzten Phantasien, mit religiösen und moralischen Vorstellungen erlaubt»[31]. Questo groviglio di istanze, tanto più efficacemente declinate quanto più il commediografo riesce a metterne in evidenza l’intrinseca contraddittorietà, astenendosi dal connotare in modo univoco e polarizzato i singoli personaggi (il che determina l’interesse prioritario del Loos in der Lotterie fra tutti gli altri Lustspiele di Gellert)[32], presiede con forza allo sviluppo dell’intreccio nella Betschwester. La protagonista si rivela nel suo «abbominevole vizio della ipocrisia»[33], secondo la chiosa di un commentatore ottocentesco, innanzi tutto per l’uso egoistico delle proprie ricchezze. Oltre a rifiutare una misera elemosina a uno storpio, la cui invalidità viene sdegnosamente liquidata ora come un giusto castigo divino per la sua inettitudine, ora come un pretesto per non lavorare e vivere in modo parassitario, Frau Richard, fingendo di sostenere una vedova in condizioni di povertà, pratica ai suoi danni una vera e propria forma di strozzinaggio, esigendo la restituzione di un prestito a tassi da usuraia. Lorchen riconduce prontamente queste condotte, inconciliabili con le ostentate professioni di devozione, alla pretesa di un esonero generale dai vincoli della morale sociale, ai quali il personaggio sostituirebbe arbitrariamente la preghiera come una specie di simulacro, destinato a garantirle una immunità etica dall’esercizio di qualunque responsabilità nei confronti dei suoi vicini[34]. È poi Ferdinand, che alla disinvoltura dell’uomo avvezzo agli usi del mondo abbina la buona disposizione di un animo generoso, a sancire con una formula concisa il pericolo di degrado morale fisiologicamente associato al possesso:

In Wahrheit, man sollte wünschen, daß die Frau um die Hälfte ihres Vermögens käme, damit sie vernünftig würde. Es ist ihr größtes Unglück, daß sie reich ist.[35]

L’avidità di profitto si spinge a intaccare i presupposti stessi dell’esistenza borghese. Il perseguimento della ricchezza in una logica fine a se stessa e resa autonoma da qualunque temperamento morale, lungi dal soddisfare l’attesa di felicità privata che sta alla base delle pratiche di accumulo, getta gli individui in uno stato di prostrazione e di immedicabile angoscia. Mentre reclama compulsivamente, tramite un assurdo intreccio di rituali parareligiosi, una piena legittimità per l’insieme dei propri comportamenti, Frau Richard è scavata sempre più in profondità dal terrore non concretamente motivato, e dunque tanto più pervasivo (perché primario e biologicamente determinato), di perdere i propri averi e uscire dai propri privilegi. Le sue fantasie superstiziose sono chiaramente intese a disinnescare, proiettandolo su una costellazione sovrannaturale e dunque indefinitamente lontana, il turbamento provocato dall’azione costante di tali timori: la caduta casuale di un oggetto come presagio di sventura, la comparsa di certi insetti o il canto del gallo come annuncio di morte imminente. Il pacato razionalismo di Ferdinand, che prova a relativizzare la portata di questi fenomeni con argomentazioni di comune buon senso[36], non può ottenere alcun effetto, ma, all’opposto, finisce per esasperare ulteriormente l’animo già esacerbato della donna, perché non coglie la natura profonda delle sue preoccupazioni: il declassamento sociale, la perdita di capacità finanziaria. Assai più efficace è, per questo motivo, la strategia di Simon, il quale viene facilmente a capo dell’indignazione suscitata in Frau Richard dalla perdita di una tazzina da caffè ripagandole il danno con un servizio nuovo di zecca e ancora più pregiato del precedente. Con questa mossa, il promesso sposo (che in questa fase è ancora incerto fra Christianchen, che gli sarebbe destinata, ma che gli appare insipida e priva di spirito, e Lorchen, la cui acutezza e il cui senso di umanità esercitano su di lui un vivissimo effetto) appaga non tanto una richiesta di riparazione materiale, quanto soprattutto un’attesa di riconoscimento simbolico, che si appunta sulla mutilazione narcisistica inflitta, attraverso la perdita di un oggetto impiegato nella sfera dell’ospitalità e delle pratiche conviviali, a una donna già fortemente minata nella percezione della stabilità della propria collocazione sociale.

Anche il conflitto fra la signora Richard e Lorchen, che presta alla commedia l’asse di orientamento più evidente, riguarda solo apparentemente l’educazione di Christianchen e la gestione delle attività domestiche. In realtà, il violento contrasto che oppone le due donne è tutto incentrato su due differenti concezioni del buon vivere. Lorchen guarda a un ideale di armonioso sviluppo di tutte le migliori disposizioni, che aspira a mettere in pratica per Christianchen, elaborando un programma pedagogico da svolgere non a caso in una dimensione urbana, una volta ottenuto il trasferimento della ragazza a Berlino e il suo allontanamento dal claustrofobico mondo di provincia presidiato dall’arcigna signora Richard. Alla base di tale programma Lorchen pone un ben ponderato equilibrio di affinamento spirituale e conoscenza del mondo, che vede concretamente realizzato negli scritti dei moralisti inglesi e nei romanzi di Richardson. Letture che le procurano la riprovazione della padrona di casa, la quale, intrattenendosi con Simon, tratteggia in questi termini un piccato ritratto della sua dipendente:

Das redliche Mädchen braucht nichts. Wenn sie weltliche Bücher und Romane hat, so ist sie zufrieden, und denkt weiter an nichts. Ihre Aufführung gefällt mir gar nicht. Sie hätte lieber meine Tochter auch zu der galanten Lebensart anführen wollen. Letzthin gab sie ihr ein Buch zu lesen, ich weis nicht, ob es Pemala oder Pamela hieß. Genug, es war ein Liebesbuch, und auf dem Kupfer stund der Teufel hinter einer Frau, und wollte sie verführen. Aber ich kam zu allem Glücke dazu, und riß es meiner Tochter aus der Hand. Solche teuflische Bücher![37]

La chiusura di Frau Richard nell’ossessiva difesa dei propri privilegi poggia, va da sé, sulla predisposizione di meccanismi di difesa da ogni possibile dinamismo, sulla finzione di un’immobilità garantita da qualunque turbamento. La tutela dei propri beni è, di questa strategia, un pilastro fondamentale. Nella protagonista, l’economia materiale esercita un peso talmente dominante da ridurre l’economia degli affetti a una mera funzione ausiliaria. Nelle trattative riguardanti la dote da assicurare alla figlia, per esempio, la donna esclude con la massima decisione che anche solo una piccola somma possa essere impiegata nell’acquisto di oggetti voluttuari e stabilisce che ogni risorsa debba essere destinata al mantenimento di un inflessibile ordine contabile[38]. Lorchen, al contrario, ha bene in mente come una temperata amministrazione degli affetti presupponga in primo luogo una relazione distaccata e impersonale con le pratiche e gli oggetti del benessere materiale. Quando sul finire del primo atto Simon offre a Lorchen, commosso dalle lungimiranti premure che costei riserva a Christianchen, una cifra sufficiente ad assicurarle un’esistenza agiata anche nel caso in cui il piano pedagogico sul quale i due si vanno accordando non dovesse dare i risultati sperati, Lorchen rifiuta la donazione, chiarendo che da un mutamento così improvviso delle sue condizioni materiali dovrebbe necessariamente aspettarsi uno svantaggio morale:

Uberhäufen Sie mich nicht mit Wohlthaten. Ich verlange den Reich­thum eben so wenig als die Armuth. Fünf tausend Thaler würden mich beunruhigen, wenn ich sie behielte; und sie würden mich auch beunruhigen, wenn ich sie nicht allemal wohl anwendete. Und so viel traue ich mir nicht zu. Nein, Herr Simon, machen Sie mich nicht reich. Geben Sie mir nur so viel, als man braucht, wenn man nicht gehorchen, und nicht befehlen will.[39]

La conclusione della commedia, con l’inopinato ribaltamento dei ruoli disposto dalla saggezza di Lorchen (che ripristina l’equilibrio iniziale restituendo Christianchen alle sue prerogative di futura sposa di Simon), segna senz’altro il trionfo di un ordine delle passioni indipendente dalla logica del possesso. La rinuncia di Lorchen ristabilisce la centralità del valore individuale rispetto a quello economico e relega quest’ultimo a una variabile secondaria se paragonata all’eccellenza delle attitudini, alla finezza dell’animo, alla sublimità delle doti morali. L’interesse di Simon per Christianchen si riaccende di fronte all’arguzia e alla gentilezza della ragazza, le cui capacità non necessitano – per rivelarsi compiutamente – che di un ambiente meno gretto di quello nel quale ha trascorso la sua prima giovinezza. E tuttavia la ricomposizione della coppia prevista dall’assetto iniziale del dramma implica anche il soddisfacimento delle pretese di Frau Richard, la quale fino all’ultimo, invocando l’aiuto di Ferdinand, aveva continuato a ribadire la convenienza economica del matrimonio fra Simon e Christianchen[40]. Il compimento dell’amore è inseparabile dal calcolo della solidità patrimoniale degli amanti. L’ordine emotivo legato alla costellazione del desiderio appare saldamente congiunto alla necessità del possesso, che si avvia ad affermarsi come un fondamento identitario irrinunciabile per la cultura del Moderno.

Bibliografia

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[1] Panajotis Kondylis: Die Aufklärung im Rahmen des neuzeitlichen Rationalismus, Stuttgart 1981.

[2] Molto importante su queste connessioni il saggio di Cornel A. Zwierlein: Das Glück des Bürgers. Der aufklärerische Eudämonismus als Formationselement von Bürgerlichkeit und seine Charakteristika, in Bürgerlichkeit im 18. Jahrhundert. Hrsg. von Hans-Edwin Friedrich, Fotis Jannidis, Marianne Willems, Tübingen 2006, pp. 71-113, in particolare pp. 92-99.

[3] In questo senso la commedia permetterebbe una «Entfaltung der Ambiguität des Aufklärungsdiskurses» (Bernhard Greiner: Die Komödie. Eine theatralische Sendung: Grundlagen und Interpretationen, Tübingen 1992, p. 143).

[4] Sulla tessitura concettuale delle Moralische Vorlesungen, e anche sulle relazioni esistenti fra discorso filosofico e discorso finzionale in Gellert, cfr. Sibylle Späth: Vom beschwerlichen Weg zur Glückseligkeit des Menschengeschlechts. Gellerts Moralische Vorlesungen und die Widerstände der Realität gegen die empfindsame Gesellschaftsutopie, in «Ein Lehrer der ganzen Nation». Leben und Werk Christian Fürchtegott Gellerts. Hrsg. von Bernd Witte, München 1990, pp. 151-171 e Olaf Kramer: Poetik der Ausgrenzung. Zur Konturierung von Empfindung und Vernunft bei Christian Fürchtegott Gellert, in Das achtzehnte Jahrhundert, 40, 2016, 1, pp. 30-46.

[5] Christian Fürchtegott Gellert: Funfzehnte Vorlesung. Fortsetzung von den Pflichten, in Ab­sicht auf die gesellschaftlichen Güter, und zwar in Absicht auf Vermögen, bürgerliches Ansehen, und Macht, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, Hildesheim 1968, pp. 351-368, qui pp. 352-353.

[6] Ivi, p. 354.

[7] Ivi, pp. 355-356.

[8] Si veda in proposito Mark-Georg Dehrmann: Moralische Empfindung, Vernunft, Offenbarung. Das Problem der Moralbegründung bei Gellert, Spalding, Chladenius und Mendelssohn, in Gellert und die empfindsame Aufklärung. Vermittlungs-, Austausch- und Rezeptionsprozesse in Wissenschaft, Kunst und Kultur. Hrsg. von Sibylle Schönborn, Vera Viehöver, Berlin 2009, pp. 53-65.

[9] Cfr. Davide Giuriato: Zärtliche Liebe und Affektpolitik im Zeitalter der Empfindsamkeit, in Handbuch Literatur & Emotionen. Hrsg. von Martin von Koppenfels, Cornelia Zumbusch, Berlin/Boston 2016, pp. 329-342.

[10] Christian Fürchtegott Gellert: Erste Vorlesung. Einleitung in die Moral; oder Abriß derselben nach ihrer Beschaffenheit, ihrem Anfange, und ihrem Nutzen, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, cit., pp. 9-33, qui p. 9.

[11] «Eine tugendhafte oder moralisch gute Handlung setzet allezeit eine innerliche Verbindlichkeit der Vernunft und des Herzens voraus, die wir wissentlich und freywillig ausüben» (Christian Fürchtegott Gellert: Fünfte Vorlesung. In wie fern die Tugend der Weg zur Glückseligkeit sey, und worinnen das Wesen der Tugend bestehe, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, pp. 110-133, qui p. 126).

[12] Christian Fürchtegott Gellert: Von den Trostgründen wider ein sieches Leben, in Sämmtliche Schriften, vol. 5, Hildesheim 1968, pp. 21-75, qui p. 21. I romanzi di Samuel Richardson, che Gellert chiama in causa anche nelle commedie (per esempio nel Loos in der Lotterie e nella Betschwester), attribuendo al loro influsso il senso di umanità che permea la personalità delle loro lettrici, sono un riferimento obbligato nel discorso sulla capacità dell’estetico di sollecitare un livello della psiche poco accessibile alla ragione. Clarissa e The History of Sir Charles Grandison, in particolare, ispirerebbero «mehr gute und edle Empfindungen […] als eine ganze Bibliothek moralischer Schriften» (Christian Fürchtegott Gellert: Von dem Einflusse der schönen Wissenschaften auf das Herz und die Sitten, in Sämmtliche Schriften, vol. 5, cit., pp. 76-95, qui p. 90).

[13] «Unsere Empfindungen richten sich nach den Vorstellungen unsers Verstandes» (Christian Fürchtegott Gellert: Sechs und zwanzigste Vorlesung. Von den Pflichten gegen Gott, als den Quellen aller andern Pflichten, in Sämmtliche Schriften, vol. 7, Hildesheim 1968, pp. 583-604, qui p. 589).

[14] «Unrichtige Meynungen erzeugen unrichtige Begierden, legen den Gegenständen unsrer Neigungen einen falschen Werth bey, und erschaffen stürmische Leidenschaften, diese Peiniger unsers Herzens und derer, die mit uns leben» (Christian Fürchtegott Gellert: Sechzehnte Vorlesung. Von den Pflichten in Absicht auf die Güter der Seele und zwar in Absicht auf die Anwendung der Kräfte des Verstandes, in Sämmtliche Schriften, vol. 7, pp. 371-387, qui p. 373).

[15] «Die Leidenschaften oder Affecten sind ein mächtiges Hinderniß der Weisheit und Tugend» (Christian Fürchtegott Gellert: Neunte Vorlesung. Allgemeine Mittel, zur Tugend zu gelangen und sie zu vermehren. Sechste, siebente und Achte Regel, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, pp. 211-236, qui p. 211).

[16] Christian Fürchtegott Gellert: Siebente Vorlesung. Allgemeine Mittel, zur Tugend zu gelangen und sie zu vermehren. Dritte und Vierte Regel, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, cit., pp. 165-191, qui p. 180.

[17] «Die Beyspiele haben eine erstaunende Kraft auf unsern Verstand und auf unser Herz; die Vorstellung derselben und der Umgang mit rechtschaffnen Leuten ist daher ein kräftiges Mittel, uns in der Weisheit und Tugend zu befestigen und zu erhalten» (Christian Fürchtegott Gellert: Neunte Vorlesung, cit., p. 233).

[18] Cfr. Jan Engbers: Der «Moral-Sense» bei Gellert, Lessing und Wieland. Zur Rezeption von Shaftesbury und Hutcheson in Deutschland, Heidelberg 2001, in particolare pp. 123-131.

[19] Christian Fürchtegott Gellert: Vierte Vorlesung. Von dem Unterschiede der philosophischen Moral und der Moral der Religion, in Sämmtliche Schriften, vol. 6, cit., pp. 90-109, qui p. 92.

[20] Christian Fürchtegott Gellert: Vorrede, in Sämmtliche Schriften, vol. 3, Hildesheim 1968, pp. I-VIII, qui p. V.

[21] Christian Fürchtegott Gellert: Betrachtungen über die Religion, in Sämmtliche Schriften, vol. 5, cit., pp. 96-113, qui p. 105.

[22] Christian Fürchtegott Gellert: Abhandlung für das rührende Lustspiel, in Gotthold Ephraim Lessing: Sämtliche Werke. Unveränderter photomechanischer Abdruck der von Karl Lachmann und Franz Muncker 1886 bis 1924 herausgegebenen Ausgabe von Gotthold Ephraim Lessings sämtlichen Schriften, vol. 6, Berlin/New York 1979, pp. 32-49, qui p. 32. Un’analisi interessante della traduzione di Lessing, soprattutto in riferimento a tagli e revisioni terminologiche, è stata svolta da Malte Denkert: Lessing übersetzt Gellert: Beobachtungen zu seiner Auseinandersetzung mit dem Geniekonzept in «Pro Comoedia Commovente», in Mittellateinisches Jahrbuch 46, 2011, pp. 427-441.

[23] Christian Fürchtegott Gellert: Von den Annehmlichkeiten des Mißvergnügens, in Sämmtliche Schriften, vol. 5, cit., pp. 143-153, qui p. 149.

[24] «Diejenigen wenigstens, welche Komödien schreiben wollen, werden nicht übel thun, wenn sie sich unter andern auch darauf befleißigen, daß ihre Stücke eine stärkere Empfindung der Menschlichkeit erregen, welche so gar mit Thränen, den Zeugen der Rührung, begleitet wird. Denn wer wird nicht gerne manchmal auf eine solche Art in Bewegung gesetzt werden wollen; wer wird nicht dann und wann diejenige Wollust, in welcher das ganze Gemüth gleichsam zerfließt, derjenigen vorziehen, welche nur, so zu reden, sich an den äußern Flächen der Seele aufhält?» (Christian Fürchtegott Gellert: Abhandlung für das rührende Lustspiel, cit., pp. 48-49).

[25] L’espressione ricorre nello scritto con cui Lessing commenta conclusivamente le posizioni di Gellert, in Gotthold Ephraim Lessing: Sämtliche Werke, cit., vol. 6, p. 51. Sulla concezione di commedia in Lessing cfr. Agnes Kornbacher-Meyer: Komödientheorie und Komödienschaffen Gotthold Ephraim Lessings, Berlin 2003 e Christine Eickenboom: Lessings komödienhaftes Lachen als Strategie der Vermittlung zwischen rationalistischen Anforderungen und sozialer Lebenswirklichkeit, in Lessing Yearbook 45, 2018, pp. 183-199.

[26] «Leider ist das Geld schwer verdient, und leicht verthan, und man braucht gleichwohl so gar viel. Ich pflege immer zu meiner lieben Frau zu sagen, daß niemand wüßte, ob er mit seinem Vermögen auskommen würde, als bis er todt wäre. Es sind der Fälle in der Welt gar zu viel, wodurch man in seiner Nahrung zurück gesetzet werden kann» (Christian Fürchtegott Gellert: Das Loos in der Lotterie. Ein Lustspiel in fünf Aufzügen, in Sämmtliche Schriften, vol. 3, cit., pp. 221-342, qui p. 233).

[27] Ivi, p. 246.

[28] Fondamentale è su questi argomenti lo studio di Daniel Fulda: Schau-Spiele des Geldes. Die Komödie und die Entstehung der Marktgesellschaft von Shakespeare bis Lessing, Tübingen 2005, pp. 439-451.

[29] Quando viene a sapere che la moglie, senza informarlo, ha investito una modica somma di denaro nell’acquisto di un biglietto della lotteria, Damon si lascia andare a un vero e proprio diluvio di insulti e maledizioni ai danni della donna, suscitando perfino l’indignazione dell’intrigante signora Orgon, la quale gli aveva rivelato la circostanza con l’obiettivo di mettere in cattiva luce l’unico personaggio che, sia pure non del tutto senza ambiguità, si riconosce in un sistema di valori incentrato su generosità e umanità: «Wie? meine Frau legt Geld in die Lotterie? Das gottlose Weib! Ich darbe es meinem Leibe und Leben ab; und meine Frau ist so ruchlos und setzt das Meinige in die Lotterie? Ich möchte vor Aergerniß des Todes seyn. […] Ich mag nichts mehr von ihr hören und wissen. Ich übergebe sie der Obrigkeit, dem weltlichen Arme. […] Ich will mich von ihr scheiden lassen; Sie soll ins Zuchthaus, und ich gebe nicht einen Groschen zur Alimentation. […] Ich will meine Frau selbst bestrafen. Ich will sie zu mir in mein Hinterstübchen kommen lassen. Ich will die Thüre zuschließen. Sie soll mir eine kniende Abbitte thun. Sie soll mir acht Tage lang nicht vor die Augen kommen, so wahr ich heute meinen Geburtstag begehe. […] Ernst muß in der Ehe seyn. Mein Vater, der ein rechtschaffner Mann war, hat meine Mutter einmal die ganze Treppe hinunter gestoßen, weil sie ihm widersprochen hatte. Meine Frau soll es schon empfinden» (Christian Fürchtegott Gellert: Das Loos in der Lotterie, cit., pp. 236-238).

[30] Cfr. Edward T. Potter: Marriage, Gender, and Desire in Early Enlightenment German Comedy, Rochester, NY 2012, in particolare pp. 64-86.

[31] Thomas Wegmann: Tauschverhältnisse. Zur Ökonomie des Literarischen und zum Ökonomischen in der Literatur von Gellert bis Goethe, Würzburg 2002, p. 47.

[32] In questo senso l’analisi di Werner Jung (Das Geld und die guten Worte. Zur Rolle des Geldes bei Gellert, in «Ein Lehrer der ganzen Nation», cit., pp. 134-150) appare compromessa proprio dalla tendenza a vedere nei personaggi del Loos in der Lotterie l’espressione di identità contrapposte e del tutto inconciliabili fra loro.

[33] Così nel suo scritto introduttivo Angelo Bolis, l’autore (con lo pseudonimo di Bartolommeo da Bergamo) di una traduzione intitolata La Spigolistra (Milano 1804, p. 4).

[34] «Ich glaube auch, daß sie durch ihr vieles Beten sich bloß die Freyheit erkaufen will, nach ihrem Gefallen zu handeln» (Christian Fürchtegott Gellert: Die Betschwester. Ein Lust­spiel in drey Aufzügen, in Sammtliche Schriften, vol. 3, cit., pp. 145-220, qui p. 155).

[35] Ivi, p. 157.

[36] «Der Tod ist uns alle Tage nah, und er braucht nicht erst die Schüssel herunter zu werfen, oder an den Fensterladen, und an die Stubenthüre zu klopfen, wenn er kommen will. Wir müssen den Tod weder fürchten, noch wünschen. […] Die Religion ist das Heiligste unter allem, was ein Vernünftiger hochschätzen kann. Aber die Meynungen eines übelbeschaffenen Verstandes gehören nicht zur Religion, sondern unter die Irrthümer» (ivi, pp. 160-162).

[37] Ivi, p. 175.

[38] «Nein, Herr Sohn, von denen fünf tausend Thalern, die ich ihr mitgebe, dürfen Sie nicht einen Heller zu Kleidern anwenden. Das Capital muß ausgeliehen, und die Interessen müssen wieder zu einem Capitale gemacht werden. Dieses ist mein Wille. Ich arme Wittwe, wie werde ich so viel Geld in meiner schweren Haushaltung entbehren können!» (ivi, p. 173).

[39] Ivi, p. 171.

[40] «Lieber Herr Vetter, […] was soll ich aber anfangen? Nehmen Sie sich doch einer armen Wittwe an. Rathen Sie mir. Herr Simon, ein so steinreicher Mann, der fast eine Tonne Goldes im Vermögen hat, der will meine Tochter, meine einzige Tochter nicht haben? Ach! sie ist ja auch nicht arm? Sie hat ja auf dreißig tausend Thaler. Sie ist jung, und schön, und christlich erzogen. Sie hat ihm ja vor ein paar Stunden angestanden. Warum will er sie denn itzt nicht haben?» (ivi, p. 208).