Milena Massalongo

(Roma)

Antigone come problema
Brecht e la critica di un mito troppo moderno

[Antigone as problem. Brecht and the criticism of a too modern myth]

abstract. Antigone’s myth seems to be one of the few ancient ones to have become in every way a myth in the modern sense: a reference image functioning as a means of rapid identification and as a flag of shared values. Antigone ended up becoming for us the myth of the Human against the political dimension, which is now being instinctively reduced to the constitutive violence of all power. By first concentrating on some critical moments of Sophocles’ version, and then on some often neglected aspects of the version Brecht wrote in 1947, the following notes attempt to deconstruct this both on stage and in its reception within the dominant social imaginary. Although Brecht’s Antigone is usually staged in line with this imaginary, it seems to offer, rather more than a correction or an update of Sophocles’ text, an already critical counterpart to our contemporary reception of its underlying myth.

I.

Quello di Antigone è forse uno tra i pochi miti antichi a essere diventato in tutto e per tutto un mito in senso moderno. Intendo con questo il senso in cui si parla di mito nel linguaggio quotidiano, come immagine di riferimento e identificazione rapida, abbreviazione e vettore di valori già condivisi. In questo senso è anche uno dei pochi casi in cui un mito antico, accessibile alla cultura moderna soltanto come letteratura, torna ad essere popolare e citabile in contesti extra-letterari, di cronaca e politica. Negli ultimi anni fino a tempi recenti in diverse occasioni si è fatto il nome di Antigone, più o meno opportunamente. Tutti questi usi, o abusi, del mito sembrano avere un denominatore comune: presuppongono la giustizia superiore di Antigone e ne sostengono il gesto eroico. In maniera simile, la storia tormentata del Novecento ha riconosciuto presto nella sua figura l’emblema della resistenza contro qualsiasi forma di potere oppressivo. Il mito di Antigone è cioè diventato, lungo l’ultimo secolo fino ad oggi[1], una sorta di bandiera, un fattore di polarizzazione e semplificazione. Di fatto, questo mito pare agganciare in pieno una duplice tendenza che attraversa il Novecento e che continua a dominare fin dentro ai nostri giorni: da una parte, la propensione a contrapporre un vago universale umano a potere e politica, come se questi cadessero fuori dall’umano e come se quello fosse già una critica efficace del potere. Dall’altra, la tendenza a far coincidere potere e politica senz’altro, quindi a declinare l’emancipazione dal potere come neutralizzazione della dimensione politica. Tanto che Antigone ha finito per diventare il mito dell’umano contro la dimensione politica tout court, ora ridotta istintivamente a coincidere con la violenza costitutiva di ogni potere.

Con questo il gesto di Antigone suscita subito sensazione, consenso o entusiasmo, tanto da travolgere l’intenzione di autori che magari, e Sofocle è già uno di questi, mirassero proprio a problematizzarlo. Mentre difettano letture o messe in scena che trattino Antigone stessa come “problema”. La sua figura viene intesa e proposta piuttosto come soluzione: la soluzione del problema-Creonte, del problema del potere, del problema della storia come ciclo di violenze. Passando sopra alle evidenti incongruenze che la sua vicenda presenta già in Sofocle rispetto a quest’immagine agiografica.

Le note che propongo qui vogliono essere un tentativo di decostruire questa ricezione così dominante tanto sulle scene come nell’immaginario sociale. Lo farò sostando prima su alcuni momenti critici della versione di Sofocle, e poi attraverso la rielaborazione che ne fece Brecht[2] nel 1947 basandosi sulla traduzione compiuta da Hölderlin tra il 1802 e il 1804[3]. Benché di solito venga messa in scena in linea con la ricezione più comune, la versione di Brecht mi pare offrire, più che una correzione o un aggiornamento del testo di Sofocle, un contraltare alla stessa ricezione contemporanea di Antigone. Finisce così per mettere in luce una portata critica che è già in Sofocle e che in genere viene neutralizzata per la fretta di ritrovarvi la nostra critica spicciola del potere.

Benché non si tratti mai per Brecht di servire interessi filologici, gli spostamenti d’accento nella sua versione sono utili a rileggere lo stesso Sofocle con altri occhi filologici. Non si sottolinea mai abbastanza che l’indipendenza drammaturgica non consiste mai per Brecht nel poter fare quello che si vuole di un testo. D’altra parte, ammesso e non concesso che l’interesse filologico consista in un fantomatico «rievocare lo spirito dell’antichità», e ammesso che ci si senta per qualche motivo «tenuti a fare qualcosa per un’opera come Antigone, potremmo farlo solo così: permettendo che essa faccia qualcosa per noi»[4]. Non cambiarlo per avvicinarlo nelle sembianze e nella logica ai nostri tempi, in un senso povero e purtroppo molto frequentato di attualizzazione, che dovrebbe essere straniante nel senso di Brecht e invece finisce per essere proprio l’opposto, una forma di assimilazione ai tempi correnti. Ma non si tratta nemmeno di rimanervi fedeli ad oltranza, come se il contesto attuale di ricezione potesse essere messo tra parentesi e sospeso a piacimento. Brecht mostra qui un esempio concreto di come l’interesse del teatro contemporaneo verso testi della tradizione non si esaurisca di certo nel puro arricchimento culturale: si può e si deve cioè poter lavorare con i testi della tradizione al di là di uno spirito di recupero museale-archeologico, usandoli come testi viventi, in grado di entrare in un rapporto critico con il nostro presente. Dall’altra, come questo non significhi affatto ridurre il testo, e questo vale per tutti i testi, non solo per quelli del passato, a un pretesto per l’inventiva teatrale. Si interviene nel testo dove questo non “arriva” più, nel senso che gira a vuoto o, al contrario, dove il pubblico lo riconosce e assimila troppo presto alla propria logica. Il punto non è né essere filologici e testuali, né originali e “teatrali”. Il punto è costruire il punto di frizione con lo spettatore contemporaneo.

II.

Vale la pena accennare ad alcuni motivi per cui quello di Antigone è potuto diventare il mito più rappresentato e ripreso nell’ultimo secolo[5]. Si tratta di motivi sintomatici ma di cui non si è necessariamente consapevoli. Questo perché abbondano le letture di Antigone e le ricostruzioni storiche della ricezione, ma non le riflessioni critiche sul perché, o sui perché, proprio questo mito ci sia potuto tornare così congeniale, forse anche nel senso di troppo comodo.

Nella tragedia di Sofocle c’è un potere che si comporta in maniera anomala, quasi moderna rispetto alla prassi del potere e della politica nell’antichità: pretende di estendere il suo raggio di controllo su una dimensione che tradizionalmente cadeva fuori dalla politica, ossia la morte, il morto, il corpo in sé.

Questo è un punto dove il mito di Antigone ci balza sorprendentemente vicino, spesso a nostra insaputa. Il potere che compare in questa tragedia sembra già articolarsi depoliticizzando le vite, azzerandone la forza d’intervento, riducendole alla sola sopravvivenza, più o meno comoda, o vita privata. Mentre politicizza i morti, strumentalizzandoli sulla scena politica come pupazzi da schierare all’occorrenza, depoliticizza le vite, che Aristotele da lì a un secolo avrebbe chiamato umane proprio in quanto politiche: ne azzera cioè la forza d’intervento sociale, riducendole alla sola sopravvivenza, più o meno comoda, o vita privata. In un certo senso non ci sono morti in questa tragedia, né vivi in senso pieno: ciò che è morto non è del tutto morto, è trattenuto in superficie a disposizione. E ciò che è vivo è, in realtà, sepolto vivo: sepolta viva è Antigone che viene punita in questo modo per la sua ribellione. E sepolti vivi sono anche i sudditi che accondiscendono e invitano forse troppo in fretta a lasciarsi alle spalle il morto e il torto e a celebrare la vita, questa vita ridotta, purché continui.

Questo è un punto dove la tragedia di Antigone ci balza, di fatto, sorprendentemente vicino. Creonte bandisce il cadavere di Polinice ai margini della polis e insieme lo tiene ancora stretto nelle maglie della legge, seppellisce viva Antigone in una caverna con cibo e acqua a sufficienza a tenerla in vita fino alla fine dei suoi giorni anziché ucciderla o bandirla e basta. È un potere che include escludendo, in modo che ciò che rifiuta non possa sussistere nemmeno al di fuori di esso. In questo pare quasi inaugurare il gesto-chiave dei nostri poteri e delle nostre politiche, che Michel Foucault ha notoriamente sintetizzato con la formula di biopolitica. «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»[6]. Questo potere non lascia semplicemente vivere, non uccide e basta, o non di preferenza, costringe invece a vivere ad oltranza, in un certo modo, alle sue condizioni, o spinge a lasciarsi morire.

La vita immediata, quella che poi Giorgio Agamben su indizio di Walter Benjamin ha chiamato «nuda vita»[7], diventa nella modernità sempre più oggetto di leggi, norme, decisioni, conflitti. Soprattutto diventa l’unica dimensione della politica. Lì è costantemente prevenuto o atrofizzato la nostra “vita politica”, la nostra capacità e possibilità di intervenire nelle condizioni storiche che ci determinano. Una depoliticizzazione generale avviene ripoliticizzando la sola vita fisiologica, colonizzando politicamente questa che in passato è sempre stata il presupposto della vita politica, come la condizione che cadeva al suo margine. Di questa «nuda vita» senza forza d’intervento e, anzi, del tutto in balia di forze esterne, il corpo morto di Polinice sembra quasi già offrire la vera immagine.

Ma il vero punto dove la materia di Antigone ci facilita oggi l’identificazione è, naturalmente, il suo gesto di ribellione. Antigone si ribella a questo strano nuovo potere che pretende di politicizzare anche i morti, e lo fa in un modo che ci è diventato sempre più congeniale: rivendicando l’impoliticità di quel corpo morto. Molta della protesta dal secondo dopoguerra ai nostri giorni reagisce alle oppressioni che via via denuncia in una maniera che pare corrispondere in pieno a questo gesto. Molta critica dell’autorità, molto femminismo[8], hanno mobilitato il corpo contro la politica, in fondo, come vedremo, la vita contro la storicità, non solo contro la storia che c’è stata finora. E lo hanno fatto proprio in un tempo in cui il nuovo potere persegue e consegue lo stesso effetto: spoliticizzare le vite, neutralizzando in esse, in maniera inavvertita, ogni residuo di forza politica. Su questo sfondo si intuisce già ora come mai Antigone sia potuta diventare un fattore magnetico di identificazione. Ma insieme si intravvede forse perché questa identificazione sia un cortocircuito fatale.

Sotto questa bandiera e i suoi facili slogan, tutti ci sentiamo sicuri, come Antigone, di sapere che cos’è giusto, e di essere nel giusto. E questo malgrado il mito stesso di Antigone, ossia malgrado la complessità ben più contraddittoria del mito tragico, almeno così come lo racconta già Sofocle. È raro che si riesca a tenere testa a questa complessità originaria. Spesso le letture e soprattutto le versioni drammaturgiche odierne tendono a livellare le tensioni interne al racconto di Sofocle secondo lo schema “torto/ragione”. Nel mito moderno di Antigone chi ha torto e chi ragione è già chiaro fin dall’inizio, come si confà al nostro mitizzare. Ma la polarità torto/ragione è proprio ciò che salta subito nel racconto tragico, e proprio questo fa la tragedia: questa polarità diventa lì non solo impossibile da fissare, infine anche irrilevante.

Invece, nella nostra ricezione il mito di Antigone, come in genere la tragedia antica, è tragico soltanto nel senso comune di disperato, sfortunato, senza happy end. Certamente Antigone suscita la nostra compassione. Mentre non c’è traccia della paura che, secondo la descrizione di Aristotele, il personaggio tragico susciterebbe in ugual misura. A questo non arriviamo, Antigone non ci fa paura. E non capiamo davvero lo spavento del coro quando la ammonisce contro «il limite estremo dell’audacia» e il suo «innato orgoglio» che l’ha «perduta»[9] e che è tale perché offende non tanto Creonte ma gli stessi dei che invoca.

III.

C’è, in effetti, qualcosa di mostruoso in Antigone, già in Sofocle, su cui vale la pena soffermarsi un po’. Perché Socrate è appunto tra quelli che espongono Antigone, e non solo Creonte, come problema. Prendendo subito le parti di Antigone si sorvola volentieri su un dettaglio ingombrante su cui invece Sofocle non sorvola: la prospettiva di Antigone non incarna semplicemente una giustizia maggiore. Antigone non è depositaria della volontà degli dei, o comunque di una verità superiore. È più esatto dire che Antigone stessa trasla il suo senso di giustizia sugli dei, li rivendica cioè a rappresentare la sua causa. Il coro invece le ricorda che quelli, qualsiasi cosa siano, sfuggono ad ogni tentativo di addomesticarli. Gli dei non sono morali, non secondo la morale umana: «il male può sembrare un bene se gli dei ti accecano la mente»[10].

Lungo il Novecento fino ad oggi Antigone per lo più difende nella legge degli dei in termini secolari l’umanità universale, i diritti umani, una generica libertà contro qualsiasi forma di potere oppressivo. Questo è per noi la “legge degli dei”. Ma già Hegel leggeva meglio il testo cogliendone la verità storica, e con essa una tensione in ciascun polo non riducibile ad una opposizione schematica. Antigone si scriverebbe secondo Hegel nel passaggio storico dall’ethos famigliare alla dimensione della polis: dall’interesse privato del nucleo famigliare e tribale, a quello collettivo della società[11]. Le leggi degli dei o, diremmo oggi, il rispetto dell’umanità prima di ogni politica e ideologia, compaiono lungo tutta la tragedia sempre declinate come primato della consanguineità: la famiglia prima di tutto. L’universale viene cioè difeso in maniera ancora troppo particolare. Viceversa, l’orizzonte promosso da Creonte non è riducibile al suo solo arbitrio. Creonte pone un bene più comune, pensa alla «nave»[12] su cui sono tutti imbarcati. Ma a sua volta questo primato dell’orizzonte pubblico su quello privato si declina nel concreto lungo la tragedia come priorità dell’ordine stabilito, obbedienza formale: giusto o ingiusto che sia, l’importante è fare ciò che ha deciso chi ha il potere di decidere. Qui oggi possiamo riconoscere non solo il potere tirannico, la disposizione capricciosa di chi regna, ma anche il formalismo del potere “tecnico”, quando a contare non è la giustizia ma la legalità o la conformità alla procedura. Che si tratti di aderenza alla legge o inerzia del procedimento, in entrambi i casi si passa come un rullo compressore sulla situazione concreta.

Sia Antigone che Creonte, potremmo dire, giocano sporco, contrapponendo al lato-ombra della causa dell’altro la portata ideale della propria. Questa tensione dialettica continua ad essere drammaturgicamente più interessante, eppure oggi non trova quasi spazio nella nostra drammaturgia: Creonte contrappone la dimensione del collettivo all’interesse solo privato di Antigone, Antigone, che vede il formalismo di Creonte, gli contrappone invece la dimensione di una giustizia concreta, capace di decidere caso per caso. Lei tira in ballo ciò che è umano al di là di ogni tempo e condizione, lui il bene comune qui ed ora. Hegel vede bene come entrambe le posizioni aggancino in teoria prospettive che vanno oltre l’interesse personale. Ma si articolano in pratica come esercizi di potere personale. Insomma, i due si corrispondono nell’atteggiamento molto più di quanto divergano, due ostinazioni dello stesso tipo si trovano qui in gara tra loro[13].

Hölderlin aveva colto questo punto nelle sue osservazioni in margine alla sua traduzione di Antigone, poi ripresa da Brecht: a differenza della descrizione di tragedia proposta da Aristotele, qui non ci sarebbe davvero conflitto tra forze eterogenee. Se la vicenda di Edipo assomiglia a una «lotta di box tra due lottatori», la vicenda di Antigone assomiglia piuttosto a una «corsa agonistica tra due corridori»[14]: entrambi stabiliscono e rivendicano lo stesso traguardo astratto rispetto alla situazione e alla fine vince chi arriva prima. O meglio, dato che su quel piano radicale dove la tragedia espone i rapporti umani “vincere” non più ha alcun senso, per dirla con Hölderlin: «alla fine chi per primo rimane senza fiato. o commette fallo sull’avversario, ha perso»[15].

Che Antigone paladina della libertà e dei sacri valori inviolabili si faccia per così dire i “fatti suoi” è stato notato più volte[16], ma è una pista non seguita nella ricezione contemporanea che va per la maggiore. Eppure è leggibile nero su bianco già in Sofocle. Questi si serve di un espediente drammaturgico delicato e intenso per mettere fin da subito sulle tracce di una certa parzialità presente nel presunto gesto “universale” di Antigone. Il primo tentativo di sepoltura di Polinice non si sa bene a chi attribuirlo: non ci sono tracce, solo il corpo non si vede più. Le guardie vedono poi uno strano vento alzarsi e velare di polvere il corpo, ancora prima che arrivi Antigone e ripeta l’azione. Sia loro che il coro lasciano dapprima aperta la possibilità che «questo evento» sia «voluto dagli dei»[17], che qualcosa di non umano possa essere accaduto. È un dettaglio del testo di Sofocle che passa per lo più inosservato. Hans-Thies Lehmann è tra i pochi a soffermarsi su questo dettaglio sospeso. Lo legge come la manifestazione sensibile «di un altro modo di intendere, di un’altra lingua parlata da Antigone, in cui il motivo dell’incertezza»[18] muove contro la sicurezza arrogante del potere e le sue leggi prescritte. Che non si sappia chi è stato e che in fondo non sia possibile saperlo, che non si possa andare più in là di rivendicazioni, smentite e testimonianze dovrebbe indurre a sospendere giudizi definitivi come quelli di Creonte, su chi sia colpevole e più ancora su che cosa si possa definire senz’altro crimine o colpa. Starebbe qui, secondo Lehmann, l’attualità di questa tragedia: nel fatto che rimandi a una «mancanza di fondamento nella legge stessa»[19] (ivi, p. 225), ad una incertezza insuperabile al cuore di ogni certezza. Questo vale però non solo per la legge, il potere, lo Stato, ma per ogni conoscere e agire umano. Sarebbe come dire che Antigone rivendica in fondo l’impossibilità di conoscere e di agire, di prendere una decisione che non sia infondata. Ma anche lei non vive all’altezza di questa incertezza, compie soltanto un’ultima azione con cui rinuncia a rischiarne ogni altra. Più ancora che ribellarsi alla violenza della certezza, Antigone si sottrae definitivamente al rischio dell’incertezza. Proprio come Creonte, in fondo, soltanto per un’altra via. Lui cerca di controllare l’incontrollabile, lei vi si sottrae tout court. Anche in questi termini messi a fuoco da Lehmann, non è possibile ritrovare l’incertezza da una parte e contrapporla alla certezza dispotica dell’altra, ciascuno dei due poli già vibra di dialettica. Basti pensare, lo vedremo più avanti, che è Creonte a mostrarsi incerto ad un certo punto: lui mostra di saper cedere e cambiare, non Antigone. C’è una certezza ostinata anche in lei, lo rimarca più volte il coro nel testo, che può ben gareggiare con quella del suo re tiranno. Se si omettono questi punti di scivolamento delle due parti l’una nell’altra si finisce per ripetere schematismi eroicizzanti e demonizzanti che la tragedia ha proprio il merito di far saltare non appena si accetti di scendere, ma lo si fa di rado, sul suo stesso piano di gioco.

È significativo che proprio un Brecht preservi questa scena della sepoltura incerta. La sua rielaborazione tende a razionalizzare l’elemento misterioso-religioso nel testo non per ostilità di principio, ma perché tende ad essere oggi soltanto una via d’ingresso per un fatalismo e un’irrazionalità di tipo moderno, cioè per una forma di inerzia o indolenza. Ma di questa scena Brecht conserva proprio la sua incertezza. Forse non è difficile capire perché. Se la si valorizza dal punto di vista teatrale, instilla un dubbio su dove cada davvero l’accento di quest’atto di pietà: sulla pietà che si deve al morto come a tutti i morti, o su qualcos’altro? Il dettaglio drammaturgico avvolge l’atto in un’atmosfera sospesa: forse è stato davvero qualche dio, oppure è stato solo il vento, più pietoso degli esseri umani, a gettare terra sul corpo di Polinice. Forse Antigone non ha avuto il coraggio di farlo, proprio come tutti gli altri. Ma ora che tutti sospettano di lei, coglie l’occasione e acconsente, lascia che l’atto diventi suo. Di fatto, l’atto stesso sembra vagare per il dramma, minacciando di agganciarsi a qualcuno, rivendicato da qualcuno che potrebbe non averlo compiuto, come Ismene, come la stessa Antigone, sconfessato da altri, come le guardie, che temono si sospetti di loro. L’atto si presenta ovunque sotto forma di atti di parola: la sentinella riporta di averla vista. Lei [Antigone] riporta di averlo fatto per prima[20]. Ed è così che la pietà finisce sullo sfondo, mentre in primo piano sale una rivendicazione di merito: «no, tu non l’hai voluto e io non ti ho voluta»[21], dice Antigone a Ismene. Ed è gelosa della proprietà del suo gesto. Non vuole dividere la sua «colpa» con Ismene, «non fare tua un’azione che non ti appartiene»[22]. Certamente in questo modo Antigone rimette i presenti alle loro mancanze. Ma è ancora in termini di proprietà che rivendica il diritto/dovere di seppellire il fratello. Polinice non va sepolto come vanno seppelliti tutti i morti, ma perché è sangue del proprio sangue, e in un senso specialissimo: perché non può essere più sostituito da nessuno. Lo spiega lei stessa: per un figlio o per un marito non avrebbe fatto altrettanto, perché ci possono essere altri figli e altri mariti, ma nel suo caso non possono più esserci altri fratelli[23]. Ciò che lei vuole onorare non è un uomo morto, non è Polinice, chiunque sia stato: ma il valore esclusivo che lui aveva per lei in quanto fratello suo[24]. Hegel aveva già messo l’accento su questo aspetto: «mediante i suoi intrighi, l’elemento femminile […] trasforma il fine universale del governo in un fine privato»[25]. Questo, di fatto, fa Antigone, o anche questo.

Antigone si appropria, dunque, della sua stessa ribellione. Ne fa una questione privata, personalissima, non una questione collettiva. Se Creonte avesse permesso la sepoltura del fratello, mostrando, come non di rado fanno i tiranni, una magnanimità anche solo a fini di propaganda, Antigone non si sarebbe ribellata al suo potere. Ciò a cui si ribella è solo il divieto di sepoltura. Fatto questo, lei e tutti i suoi epigoni possono mettersi il cuore in pace. Al di sotto del gesto eclatante di sfida, anche Antigone, quindi, si sottomette. Questo è il contenuto reale, nel senso della Realpolitik, del suo gesto, ed è percepibile già in Sofocle. Esaudito il suo desiderio personale, Antigone lascia campo libero. Non contrasta il potere di Creonte e i suoi eventuali altri soprusi: si limita a tracciare un cerchio sacro intorno al corpo di Polinice. Qui il potere non deve trovare accesso, e ciò lascia aperta la possibilità, che ovviamente è già una certezza, che al di fuori di questa zona franca esso continuerà a fare come crede.

Antigone, insomma, non tocca la questione cruciale in cui vive immersa e di cui sopravvive, e cioè che tutti, lei compresa, si trovano già nella condizione di Polinice, o in quella che subisce una volta punita: essere dei corpi a disposizione della politica, ma senza vita politica, o sepolti vivi. Il gesto di Antigone sfiora soltanto la miccia, e nel farlo la disinnesca.

IV.

Di recente se n’è accorto Slavoj Žižek che proprio nella sua celebre ribellione riconosce la «mostruosità» di Antigone: «la passione [di Antigone] è la pulsione di morte in forma pura», «la sua purezza è quella di un significante», del «puro significante»[26]. Žižek segue qui la lettura che dà Jacques Lacan[27] della tragedia, quando mette a fuoco un momento non etico nella posizione apparentemente etica di Antigone: Antigone si abbarbica, secondo Lacan, proprio sul confine di qualsiasi ordine simbolico, lì dove ha inizio e fine qualsiasi fondazione di senso, e non ne ammette più nessuno. In questo senso incarnerebbe alla perfezione la pulsione di morte di Freud, un’esclusione auto-conservativa. Il suo piano, chiosa Žižek, è una sorta di «ground-zero della simbolizzazione»[28]. Detto in termini comuni: Antigone mette radici ai margini della cultura e non intende fare più un solo passo all’interno della storia. Formulata così, si comincia a capire per quale motivo nel dopoguerra Antigone sia potuta diventare la tragedia antica più rappresentata in occidente. Il suo è un gesto di congedo dalla storia con i suoi ricorsi di violenze e ragioni di parte, e quindi di torti inevitabili. Questa posizione di rifiuto assoluto non poteva non suscitare subito simpatia all’epoca in cui vi mise mano Brecht, dopo un paio di decenni di guerre, poteri e ideologie devastanti. Anche oggi Antigone si trova volentieri a guardia di un presunto spazio non-politico, indipendente dalle vicissitudini storiche. Più che l’umano universale, denudato così della sua dimensione storica e pratica, pare di riconoscere qui oggi la nostra deriva umanitaria, i singoli schiacciati solo sulla loro sopravvivenza, al limite sul loro cadavere da rintracciare e a cui restituire almeno la dignità di morti che non hanno avuto da vivi. L’essere umano può esistere qui solo in quanto nuda vita che campa più o meno bene o che non scampa, vittima in ogni caso. Ad uno sguardo più lucido, che resista all’identificazione facile, Antigone dovrebbe dunque apparire oggi come l’antesignana di questa deriva umanitaria che investe tanto il potere quanto la critica diffusa al potere.

A questo proposito c’è un altro aspetto della sua vicenda che ci torna troppo congeniale. Žižek lo riconosce nel fatto che la ribellione di Antigone si limiti a un «gesto simbolico. Simbolo lo è certamente, ma in un senso povero: non è certo segno che annuncia e incalza, non è il primo atto di un’azione che irrompe, piuttosto il surrogato di ciò che non viene e che per questo, perché appagato dalla sua stessa rappresentazione, non verrà. In tutto e per tutto quello che oggi si dice “un gesto di protesta”, intendendo con “gesto” qualcosa di debole e vano, ma che viene fatto per mostrare che almeno si è fatto qualcosa. Antigone diventa così il comodo riferimento di una protesta che si accontenta dei suoi simboli e dei suoi gesti, ossia di una messa in scena del dissenso. Il successo del mito di Antigone, forte già al tempo di Brecht e ripetutamente confermato nell’ultimo secolo fino ad oggi, ha strettamente a che fare con una progressiva spettacolarizzazione della critica, della resistenza, della disobbedienza. Il dissenso non si articola più in conflitto e azione concreta, ma si limita ad esprimersi, in gesti e simboli, gesti puri, segni puri, cioè surrogati e quindi intralci, non inizi. Non a caso, il gesto più diffuso di critica e protesta è quello che intende liberare la “vita” occupata, posseduta, sfruttata dalla manipolazione, ad opera del diritto, dell’economia, della medicina, dell’informazione. Il fatto immediato di vivere viene celebrato come affrancamento non solo dal potere ma anche da una dimensione politica in generale. In questo senso biopotere moderno e strategie o tattiche di resistenza finiscono spesso per perseguire lo stesso fine, o almeno ottenere lo stesso effetto. Questo perché impiegano, in fondo, la stessa logica.

Sicché la protesta finisce per protestare contro la dimensione politica attiva delle singole vite, in pratica contro la storicità della vita umana.

Sta dunque qui, secondo Žižek, la mostruosità di Antigone: nel formalismo del suo gesto di ribellione, e nel fatto che questo formalismo si presti come non mai all’estetizzazione[29]. Come di fatto è avvenuto e avviene.

V.

Alla luce di queste osservazioni, per guardare in faccia questi tempi e non esserne solo un sintomo, la materia di Antigone avrebbe bisogno di una rilettura che, prima di tutto, non ne prevenisse la tragedia. Žižek stesso ha proposto di recente una correzione del racconto tragico di Antigone, nello stesso senso in cui già Kierkegaard[30] o Brecht lo hanno fatto. Il punto non sta nel “migliorare” la materia mitica a livello estetico-espressivo, quanto nell’aggiornare le occasioni di contatto critico con il tempo in cui viene recepita. Si tratta di fare in modo che Antigone ridiventi, come già in Sofocle, «parte del problema», scuotendo il nostro «autocompiacimento umanitario»[31] alla radice.

Žižek propone tre possibili sviluppi della vicenda di Antigone, da presentarsi assieme come alternative. A questo scopo tiene a modello non l’Antigone di Brecht, che evidentemente giudica ancora troppo “tradizionale” nella trama, ma il suo dramma didattico, nella fattispecie la coppia complementare Il consenziente e Il dissenziente, i quali presentano appunto la stessa situazione con epilogo opposto. Il primo epilogo seguirebbe in sostanza la versione di Sofocle. Il secondo sviluppa che cosa sarebbe successo se Antigone fosse riuscita a convincere Creonte a concedere la sepoltura a Polinice, mettendo così in luce il valore privato e politicamente conciliante che è già il contenuto effettivo del suo gesto di ribellione. Una terza soluzione infine muove nella direzione che ci saremmo forse aspettati da Brecht. E che invece Brecht, come vedremo dichiaratamente non ha potuto né ha voluto prendere.

Così la riassume Žižek:

Nella terza versione il coro non è solo lo strillone di banali universalismi, ma diventa esso stesso una forza in gioco. Al culmine dello scontro concitato tra Antigone e Creonte, [il coro] si fa avanti e falcia entrambi per la loro stupida contesa che sta mettendo in pericolo la città intera. Alla maniera del Comité de salut public, della commissione per la sicurezza durante la Rivoluzione Francese, assume il controllo in qualità di organo collettivo, impone un nuovo diritto e introduce a Tebe la democrazia popolare. Creonte viene detronizzato, arrestato insieme ad Antigone, entrambi vengono portati davanti al tribunale, condannati immediatamente a morte e liquidati.[32]

Questo terzo epilogo a prima vista suonerebbe quasi più brechtiano di Brecht: il popolo che prende l’iniziativa e liquida i contendenti della falsa contesa è una soluzione che ci si sarebbe aspettati dal Brecht “comunista”, almeno per come lo si (dis)conosce (e liquida) in genere. Invece, alcune sue osservazioni in margine alla sua rappresentazione del 1948 chiariscono che questa sarebbe proprio la soluzione drammaturgica (e politica) inadeguata ai tempi. Tanto quanto sente inadeguato il gesto di Antigone. Brecht, infatti, ammette che il testo di Antigone ora è un ripiego. Lo rielabora in luogo di un’opera che avrebbe dovuto essere scritta, ma che, date le circostanze, non è possibile proporre. Certamente il testo di per sé presenta «numerose analogie con il recente passato, ma queste si sono rivelate «più uno svantaggio»[33] che un vantaggio. Corrispondenze di superficie hanno deflesso l’attenzione dal vero punto: «la grande figura della resistenza nel dramma antico non rappresenta i combattenti della resistenza tedesca, che devono apparirci come i più significativi in assoluto»[34]. A chi pensa Brecht qui? Non solo agli attentatori di Hitler o alla resistenza antifascista, anche ai comunisti fatti prigionieri durante la guerra e sopravvissuti o annientati nei campi di concentramento. Insomma, tutti quegli avversari politici uccisi subito o internati che hanno tentato di lottare non solo contro Hitler e il nazismo ma contro violenze che lo precedono, che gli sopravvivono e che lo hanno reso possibile. Non hanno lottato cioè solo per una libertà astratta, per essere liberi di circolare come merci, ma per essere una forza in gioco nel tessuto sociale, per non subire soltanto le condizioni del proprio tempo. Ora, il gesto di ribellione di Antigone non può in alcun modo rappresentare quella resistenza. Qui sta il limite della tragedia oggi secondo Brecht, e ammette che continua a rimanerlo anche nella sua versione. Ma allora perché mai servirsi della traduzione di Hölderlin dell’Antigone di Sofocle e non scrivere direttamente un testo nuovo? Brecht lo dice chiaro e tondo: «Il testo poetico [di questa resistenza] non ha potuto essere scritto qui, e questo rincresce tanto più che oggi accade molto poco per farla ricordare, e invece accade così tanto per farla dimenticare»[35]. Il testo di questa resistenza non ha potuto essere scritto, e non perché questa resistenza non ci sia stata. I resistenti sono stati o disertori, come Polinice, e come tali adesso verrebbero considerati traditori, oppure avversari politici, non solo del nazismo, ma spesso, in quanto comunisti, anche della società capitalista degli alleati[36]. Se non sono stati annientati fisicamente dai nazisti, si sono ritrovati neutralizzati politicamente, in un primo momento dalla necessità di unire tutti i fronti nella lotta comune sempre più impolitica, astorica, o antistorica, dell’umano contro il disumano, e poi dalla soddisfazione per la fine del nazismo, come se con questo fossero cessati anche tutti i soprusi e le violenze. Questa resistenza che mirava a rinnovare radicalmente la società, non solo a fermare un potere totalitario, si ha fretta di metterla da parte, non la si ricorda già più. I crimini del nazismo rubano, per forza di cose, la scena. Mentre per quei resistenti si prepara quell’oblio che, a conti fatti, sopravvive oggi. La loro resistenza rischia di essere dimenticata da un modo di ricordare il nazismo che si annuncia già allora e che contempla solo boia e vittime. La “tragedia” in senso moderno del potere violento e della vita innocente che lo subisce è diventata poi, in effetti, il paradigma della narrazione contemporanea, non solo del nazismo ma della storia presente.

VI.

«Il fatto che di questi combattenti non si parli nemmeno qui, non sarà chiaro senz’altro a tutti»[37], prosegue Brecht: non tutti saranno in grado di percepire questo silenzio come un’omissione, Antigone come il rimpiazzo di una mancanza. Eppure: «solo chi avrà chiaro questo, riuscirà a portare con sé quella quota di estraneità necessaria affinché ciò che merita di essere visto in questo dramma di Antigone, vale a dire «il ruolo dell’impiego della violenza [Gewalt] nel crollo del vertice di uno stato», possa essere visto con profitto»[38]. Per ricavare qualcosa dalla visione di questa Antigone bisogna sentire tutto il tempo la mancanza di quella resistenza che essa non fa vedere. Solo in questo modo si potrebbe eludere la tentazione, in cui in realtà si cade in genere e gli spettatori, a giudicare dalle recensioni, caddero anche allora, di leggere la vicenda come una storia morale, in modo «pericolosamente vicino alla massima dabbene “il crimine non paga”»[39]. Nel suo Diario di lavoro Brecht racconta la stizza per questo tipo di ricezione perché finisce per neutralizzare una questione attualissima, posta dalla sua rielaborazione. Si tratta di una questione elementare eppure cruciale, che le moralizzazioni e le metafisiche del potere e del male boicottano di continuo, e cioè:

niente di più (o di meno) di questo: le imprese che necessitano di troppa violenza, falliscono facilmente. Ciò non vorrebbe dire nient’altro che le imprese non-pratiche non sono pratiche e sarebbe decisamente banale se non si potesse qui intravedere una specie del tutto particolare di violenza, e cioè quella che deriva dall’inadeguatezza; si tratta quindi di ricondurre la crudeltà alla stupidità. In questo modo l’elemento morale viene messo in relazione con la non-praticità, in modo da perdere quel carattere assoluto e rigido che troneggia nel sovrasensibile.[40]

Prima ancora che Hannah Arendt parli di «banalità del male» e di «perdita del senso pratico» nella società moderna[41], Brecht tenta qui di infilzare il nesso che c’è tra violenza contemporanea e atrofia diffusa del senso pratico, quella che chiama stupidità. Di questa stupidità o non-praticità partecipa anche l’elemento morale incarnato da Antigone, col suo «carattere assoluto e rigido che troneggia nel sovrasensibile». Di questa perdita di contatto con la situazione i gesti e le azioni isterizzate della storia contemporanea sono la reazione e insieme la causa, in un circolo vizioso che, appunto, non riguarda solo le violenze conclamate dei potenti.

Brecht si rende conto che la materia di Antigone rischia oggi di far percepire la questione del potere e della violenza solo sul piano oggettivo: come se riguardasse soltanto «il piano estraneo dei dominatori»[42], ci parlasse cioè della violenza solo come ansia di controllo da parte dei potenti, che le vittime possono solo subire. Quello che invece dovrebbe interessarci è il «problema soggettivo»[43]: come ci si comporta soggettivamente verso la violenza che pur si subisce. Che il dominio sia un male non c’è bisogno di ripeterlo l’ennesima volta crogiolandosi nel facile consenso sull’ovvietà. Il vero punto, che si elude volentieri, è quanto la connivenza o l’inerzia dei dominati agevoli questo male, e soprattutto da che cosa dipenda questa connivenza. Non si tratta di colpevolizzare le vittime, questa sarebbe una conclusione isterica a cui facilmente si ricorre per sventare ogni tentativo di far saltare gli schemini oppositivi buoni-cattivi, vittime-carnefici. Ma è proprio con questi schemini che si finisce per inchiodare le vittime allo stato di vittime come fosse una sorta di seconda natura a cui sono ormai ridotte, perdendone di vista l’aspetto di “ruolo” impolitico in cui sono state cacciate e da cui si tratta sempre di uscire al più presto.

Brecht riconosce che l’aspetto soggettivo della questione è rimasto appena accennato. Anche il prologo che scrive per la rappresentazione a Chur del 1948 non ha potuto fare altro che «porre una questione attuale e abbozzare il problema soggettivo»[44]. Brecht ambienta questa scena a Berlino nell’aprile del 1945. Due sorelle trovano tracce del fratello che sapevano essere al fronte, intuiscono che deve aver disertato, ma quando l’SS chiede loro se conoscano l’uomo che penzola ancora caldo nel cortile, esitano entrambe. Significativamente Brecht non le nomina, non sappiamo con certezza quando è Antigone e quando Ismene a parlare. I due atteggiamenti, solo leggermente diversificati, rimangono per lo più intercambiabili. E questo può mettere sulle tracce di una somiglianza tra le due che è già in Sofocle, e che è molto più interessante di qualsiasi celebrazione della differenza di Antigone: la remissività di Ismene corrisponde bene a un nucleo di remissività che, come si è visto, è già al cuore della ribellione di Antigone. La scena di Brecht si chiude sull’esitazione di una delle due di fronte all’SS, con il coltello in mano davanti al corpo del fratello, non si sa se ancora vivo o morto. In questione qui non è più il «problema oggettivo» di un potere che dispone dei vivi e dei morti, non è più se seppellire o meno Polinice. In questione è il «problema soggettivo» di riconoscerlo: nel senso di stare ufficialmente dalla sua parte al momento giusto e non solo quando i giochi sono fatti, riuscendo magari ancora a salvarlo, perché: «forse non era ancora morto»[45]. Un prologo è troppo marginale, viene ovviamente travolto dalla rappresentazione che gli succede. Ma se potesse idealmente rimanere impresso nella retina, presente tutto il tempo come uno sfondo o un ritornello (e si potrebbero immaginare drammaturgie a questo scopo), funzionerebbe come una domanda in margine ad ogni scena: quali sono le azioni mancate che avrebbero potuto sventare e non solo seppellire l’accaduto, quelle che avrebbero potuto impedire il disumano e non solo restituire l’ultima umanità a dei cadaveri?

VII.

Brecht sottopone la vicenda mitica a quella che chiama una «Durchrationalisierung»[46], cerca cioè di contenere il più possibile il fattore misterioso e paradossale, la necessità imperscrutabile. Ma anche, al contrario, l’autoevidenza, ossia quei punti della vicenda che filano lisci e comprensibili, come la guerra finita a inizio della storia, o, appunto, la nobiltà del gesto di Antigone e il dispotismo senz’altro di Creonte. Su niente deve cadere quell’alone di sacralità o necessità a priori che volentieri emana invece dalla nostra ricezione della materia mitica e tragica in particolare.

Brecht rivede dunque i punti di snodo della vicenda, così come le azioni, gli atteggiamenti dei personaggi, che vengono dati per scontati e che invece vanno chiariti. Il che significa nient’affatto spiegati, problematizzati piuttosto. Altrimenti cadono dall’alto in modo assoluto, come carattere o destino appunto, forme della necessità che piacciono tanto ai moderni perché chiudono subito ogni questione invece che aprirla.

Nella versione di Brecht la guerra viene fatta contro un’altra potenza, la città di Argo, per estorcerle materia prima necessaria alla sopravvivenza di Tebe. E il ribelle Polinice viene descritto come un disertore che a un certo punto non ha più voluto combattere una guerra privata, una guerra non sua. Detto ciò, per Brecht non si è trattato soltanto di storicizzare il conflitto per il potere, così come figura nel mito, traducendolo in una guerra moderna di colonizzazione e sfruttamento. Queste sono in fondo le attualizzazioni più di superficie, che saltano subito all’occhio e su cui si insiste forse troppo, perdendo di vista altri interventi di Brecht, meno appariscenti e tuttavia più radicali. Queste attualizzazioni più radicali riguardano non tanto il potere, l’esercizio della violenza, ma, appunto, quello che lui chiama il «problema soggettivo» del potere: chi lo subisce, chi vi resiste, e chi crede di averlo vinto troppo presto. Tutta l’ultima parte della tragedia, dal momento che precede il colloquio con Tiresia, viene intensamente rimaneggiata da Brecht in questo senso. Non in maniera plateale, ma con piccoli ritocchi e interventi che tentato di spostare l’accento, o almeno di farne valere un altro. Al centro dell’attenzione ora non è più soltanto il potere al governo, giusto o ingiusto che sia, nemmeno il gesto di protesta astratto, quanto la condotta collettiva che in un modo o nell’altro vi acconsente e lo sostiene. Qui è rappresentata da un coro di vecchi, intesi però in un senso molto moderno: gente di cui il massimo che si può dire è che ha vissuto abbastanza per vedere abbastanza, che ha già visto come altri non siano stati «risparmiati»[47], eppure vuole dimenticare al più presto e spera di essere risparmiata, perché, come insinua Creonte con Tiresia: «Nessuno è tanto vecchio / Che non voglia invecchiare ancora un po’»[48]. Questi vecchi, insomma, fuoriescono dall’iconografia tradizionale, sono meno saggi e prudenti di quanto siano semplicemente attaccati alla vita e desiderosi di continuare a vivere ancora nel modo in cui sono riusciti a scampare finora. Proprio questa massa di “vecchi”, anagrafici o meno, più o meno letterali, che vogliono soltanto essere risparmiati dal cambiare, diventa in Brecht figura in causa. Forse la vera figura in causa, ancor più di Antigone e di Creonte. È la connivenza di questa massa a “fare” il potere di Creonte, e sempre la sua connivenza a “fare” e “disfare” una come Antigone, a rendere la sua ribellione eroica, ossia necessaria e insieme inutile.

Sono loro a commemorare Antigone ancora in vita come fosse già morta, facendone un monumento vivente all’eroismo. La paragonano alle grandi eroine mitiche come se non restasse nient’altro da fare, a lei, a loro, che consolarsi: «Certo tu muori / Ma muori grande; non dissimile / da vittime divine»[49]. La trattano cioè come un caso eccezionale, anziché guardare a quel che possono ancora fare e non fanno («Voi mi abbandonate. / Guardate in alto, non nei miei occhi»[50]). Ammirano, e come tutti gli ammiratori, allontanano su un piedistallo per non dover imitare ciò che ammirano. Sono loro a chiamare in causa la forza invincibile del destino, e nel senso sbrigativo in cui lo intendiamo noi, come condizione che toglie responsabilità e possibilità d’intervento in un accadere, non certo quello che intendevano i greci. Antigone li riporta al punto: «Non parlate, vi prego, del destino. / Questo lo so. Parlate / di chi mi uccide, innocente; a lui/ Collegate un destino!»[51]. È uno di quei casi in cui invocare ciò che esula dall’umano serve solo a distogliere da quello che è ancora in potere dell’uomo fare. Questi hanno fretta di guardare alla vicenda non ancora conclusa come a una storia mitica di cui si conosce già l’esito. Si ritirano cioè a bordo scena nella posizione di spettatori, dove rischiano di essere sempre stati, nella speranza di risparmiarsi quello che, almeno per il momento, guardano soltanto e non subiscono. Antigone allora allarga il campo visivo dello “spettacolo” a cui assistono, mettendo tutti gli spettatori di fronte o dentro alla scena che è poi diventata una delle più ossessionanti dell’ultimo secolo: «Non crediate / Di essere risparmiati, infelici. / Altri cadaveri a pezzi / Vedrete a mucchi giacere insepolti / Sull’insepolto»[52]. L’immagine del cadavere insepolto di Polinice sfuma nelle immagini contemporanee dei cadaveri anonimi ammucchiati a cielo aperto, da Auschwitz alla Bosnia-Erzegovina, ai migranti morti in mare dei nostri giorni.

«Aiutatemi nell’afflizione / E aiutate voi stessi»[53], dice Antigone ai vecchi. Ma i vecchi tacciono. Quando si scopre che la guerra non è finita affatto e che Tebe è ancora in pericolo, ammettono di aver udito «brutte voci», e di averle ignorate per «paura della paura»[54]. E Creonte gli ricorda come abbiano approfittato dei vantaggi del suo potere per indignarsi solo ora che non ci sono più vantaggi da godere, da perfetti «ingrati! Divoratori delle carni, ma / Non vi piace il grembiule sporco di sangue del cuoco»[55]. Questa formula ritorna in Brecht in varie versioni, riferita a chi bolla la violenza, magari con sincera indignazione, eppure continua a mangiarne i frutti, incapace di collegare cause e conseguenze: «continuano a pensare di poter avere il macellaio proibendogli per legge di macellare»[56]. È la battuta con cui Brecht inchioda spesso la falsa coscienza degli intellettuali umanisti, dei pacifisti, degli antifascisti che non si preoccupano delle violenze indirette del capitalismo e intervengono solo laddove la violenza sia cruenta e manifesta: «Hitler sa almeno che non può avere il capitalismo senza guerra. Cosa che non sanno i liberali. Per esempio, la letteratura tedesca, che secondo Karl Kraus è tramontata anche con Mann e Mehring»[57]. Sono quelli che continuano a volere ciò che si può ottenere solo tramite violenza, ma non vogliono vedere la violenza, tantomeno commetterla in prima persona.

Siccome non potete più trarne benefici, dice Creonte al coro, dice a noi oggi, «curvi, cianciate di eccidi e biasimate / La mia durezza»: è l’»indignazione […] di quando il bottino non arriva»[58]. O di quando non si vuole vedere da dove arriva. Ma finché la durezza del nazismo o di altri regimi lungo il secolo ha fatto comodo, gli eccidi sono stati, e tuttora sono, ignorati o perfino provocati. Qui non sono certo solo i tedeschi del dopoguerra ad essere apostrofati: sono anche i liberatori, i vincitori del nazismo, noi che veniamo più di cinquant’anni dopo e ancora ci sentiamo dalla parte “giusta”.

Anche questa Antigone che chiede aiuto e preferisce morire piuttosto che fare parte di quelli che si risparmiano, non ha l’ultima parola, i vecchi inchiodano anche lei alle sue omertà: «anch’essa un tempo / Mangiò del pane che nell’oscena roccia / Veniva cotto»[59]. Anche lei ha vissuto del privilegio, al riparo dalla vita, «all’ombra delle torri / Che celano la sventura»[60], senza subire e nemmeno vedere quel che accadeva ad altri. Siede «a suo agio» in questa comodità finché le conseguenze del potere colpiscono lontano dai suoi affetti e interessi. Solo quando le ripercussioni arrivano a toccare la cerchia dei suoi e ciò che è suo, «esce allo scoperto con la sua rabbia / spinta verso il bene!»[61].

Anche quando il popolo di Argo si ribella, si riversa per le strade e muove contro Tebe facendo quello che il popolo di Tebe non ha fatto, anche in questo momento i vecchi tentano di salvare il salvabile: consigliano a Creonte di far combattere Eteocle, il nipote che gli resta, in un ultimo tentativo di vincere la guerra di conquista, e fare così sopravvivere il potere di Creonte. Ancora una volta sopportano, facendo quello che pare necessario fare pur di continuare a godere dei frutti della violenza. Su questa «Duldung»[62] insiste Brecht, questa sopportazione dei molti che ne traggono qualche vantaggio, forse anche solo quello di risparmiarsi. E non nel senso di averne salva la vita: ci si risparmia, come la gente di Tebe, per continuare a mangiare della carne finché ci è possibile ignorare il macello. Questa docilità è il vero punto di forza della violenza inferta e subita, diretta e riconoscibile come quella del fascismo, oppure indiretta ed esportata altrove, giuridicamente impeccabile come quella del neoliberismo, che non si lascia riconoscere subito come il potere esplicito di qualche tiranno.

Pure la decisione di Creonte di liberare infine Antigone non avviene in Brecht, come in Sofocle, per «agnizione»: nessuna comprensione fulminante del proprio limite come nella tragedia greca. Semplicemente riconciliarsi con Antigone è l’unico mezzo che resta a Creonte per mobilitare il figlio nella guerra contro Argo, nel tentativo estremo di ribaltare una situazione già compromessa. La “svolta” di Creonte in Brecht, supportata dal coro di Tebe, non è che la speranza diffusa di continuare a vivere come hanno vissuto finora. Anche le ultime parole di Creonte non sono più di disperazione per la morte del figlio, come in Sofocle, ma perché con la morte di Emone svanisce l’ultima speranza di battere Argo («Ancora una battaglia, e Argo sarebbe stata / A terra!»[63]). Piuttosto che le cose cambino, meglio che periscano del tutto. È l’ultima volontà di cui è capace questo Creonte, e richiama certamente l’ultima volontà di Hitler. Ma solo di Hitler?

Le ultime parole sono per la colpa di Antigone, «colei che ha visto tutto», ma nel suo capire ha «saputo solo aiutare il nemico, che / Adesso viene / E ci stermina»[64]. La resistenza di Antigone, come quella di chi combatte per la salvezza dell’umano universale contro la violenza di ogni potere, ha certo aiutato a far fuori il potere spudoratamente violento. Ma nella sua ingenuità ha aiutato anche un altro nemico, «quello che viene adesso». Chi è questo nemico che viene dopo Creonte, dopo il nazismo, e «ci stermina»? Rientrata l’emergenza nazista, l’oppressione non è finita, perché non è finita la disponibilità generale a «risparmiarsi».

VIII.

Nelle sue osservazioni in margine a questa rielaborazione, Brecht registra le sue perplessità verso l’atteggiamento diffuso nel primo dopoguerra: la pur sacrosanta voglia di ricominciare che si respira attorno sembra avere un po’ troppa fretta di lasciarsi tutto alle spalle. Domina la sensazione troppo ottimistica che il passato sia passato per definizione, senza chiedersi quanto di quello che c’era fino a ieri possa davvero essere cessato di colpo oggi. C’è troppa «confusione», scrive Brecht, su «che cosa sia vecchio e cosa nuovo»[65]. Non è così facile distinguerli come si crede. La «sete di novità» che c’è nell’aria viene ovviamente dalla paura che il recente passato possa tornare, ossia che in realtà non sia passato affatto. Al tempo stesso c’è «paura per l’incursione del nuovo»[66]. Si ha paura che il nuovo non sia poi così nuovo, ma anche che qualcosa di cui non si è ancora fatto esperienza possa irrompere sul serio. Quest’ansia di novità forse non è così ansiosa di novità come sembrerebbe. In effetti, che cos’è vecchio, il nazismo? Può considerarsi morto, superato, passato, soltanto perché è stato ufficialmente sconfitto? La domanda vale certo l’indomani della fine della guerra, ma non è senza senso nemmeno più tardi. E cos’è nuovo, la democrazia liberal-capitalista, che si propone come custode dell’umano, al di là di qualsiasi politica, custode chiaramente interessata, in questo senso politica, di una dimensione apolitica, umanitaria, dei suoi cittadini-sudditi ridotti a vittime impotenti da difendere? Forse potremmo dire che tutta la seconda metà del Novecento fino ad oggi sta sotto il segno di questa «vaga sete di novità» registrata da Brecht, che è in realtà una paura molteplice: paura di un passato che forse struttura ancora il presente, e paura di una vera innovazione da scongiurare ad ogni costo, anche al costo di non vedere le nuove spoglie in cui ci si limita a rinnovare il passato.

All’epoca questa paura si esprime secondo Brecht nel fatto che «i vinti vengono istruiti su più fronti a superare il nazismo soltanto sul piano intellettuale e psicologico»[67]. È chiaro a cosa si riferisce qui Brecht: alla cosiddetta opera di denazificazione, quella sorta di lavaggio del cervello in positivo messa in atto con proverbiale piglio manualistico dagli alleati. Come se il nazismo fosse solo un’idea, un’opinione, come se l’ideologia fosse solo un oggetto di coscienza e sapere, una questione di convinzioni, e non soprattutto struttura, logica dei comportamenti, organizzazione della realtà quotidiana, abitudini e automatismi d’azione. Così il nazismo viene trattato soltanto come un fatto psichico-soggettivo, un’idea malsana accolta da menti deboli o deviate che vanno disinfestate e riprogrammate. Mentre si escludono dall’angolo visuale le condizioni oggettive che hanno favorito genesi e proliferazione di quest’ideologia che è prima di tutto una logica comportamentale prima di un’idea, e che sopravvivono alla sua sconfitta ufficiale. Lo noterà Hannah Arendt solo pochi anni più tardi da Brecht: i fattori la cui cristallizzazione storico-sociale ha permesso il nazismo non cessano di esistere con la sconfitta di uno o tutti i governi totalitari.

È stata, per esempio, la presenza di questi fattori […] a rendere la vittoria dei nazisti in Europa non soltanto possibile, ma anche così vergognosamente facile. Se le potenze mondiali extraeuropee, che impiegarono sei anni per sconfiggere la Germania di Hitler, avessero capito questi fattori, non avrebbero appoggiato la restaurazione dello status-quo in Europa, compreso il vecchio sistema politico, di classe, partitico, che, come niente fosse successo, continua a dissodare e a preparare il terreno per altri movimenti totalitari.[68]

IX.

Nel periodo in cui Brecht è in Svizzera e lavora all’Antigone, il suo diario di lavoro intreccia appunti di lettura e drammaturgia con osservazioni preoccupate in margine a quello che nel frattempo sta succedendo oltre confine, in Germania. La guerra è finita, il nazismo sconfitto, almeno ufficialmente, ovunque sono rovine e troppa fretta di ricominciare:

ogni cosa mostra con chiarezza che la Germania ancora non ha capito la crisi in cui si trova. Il piagnisteo quotidiano, la mancanza di tutto, il movimento in circolo di ogni processo mantengono la critica a un livello sintomatico. Andare avanti è la parola d’ordine. Si rimanda e si rimuove. Da ogni parte si ha paura di quel demolire senza il quale è impossibile costruire.[69]

È questo il contesto con cui questa messa in scena si confronta direttamente, non la guerra e il nazismo appena “superati”. Non sono questi a stare in primo piano, o meglio, davanti alla scena. Molte letture e rappresentazioni odierne mancano questo punto, e con esso il punto di contatto che ci sarebbe tuttora tra questa rielaborazione e il nostro tempo. Quella sete di novità che c’è nell’aria nell’immediato dopoguerra, e poi lungo tutto il secolo fino ad oggi, va guardata con un minimo di sospetto. Perché rischia di alimentare un rito sbrigativo di catarsi collettiva, a cui partecipa anche l’arte.

Dalla caverna in cui è sepolta viva Antigone si possono sentire in lontananza i baccanali, la città che ricomincia a vivere e celebra la gioia di vivere, il potere dell’oblio. Al momento in cui va in scena l’Antigone di Brecht, questi festeggiamenti risuonano, appunto, del clima di festa dell’immediato dopoguerra per la vittoria sul nazismo e soprattutto per la pace ritrovata. Nella versione di Brecht i festeggiamenti sono prematuri, Tebe non può ancora cantare vittoria su Argo, ma festeggia lo stesso. Tutti, o quasi, esultano, gustando la vittoria. La danza bacchica, al momento della rappresentazione, intercetta solo di striscio l’esaltazione dei nazisti per le vittorie intermedie prima della sconfitta o la loro falsificazione dei rapporti di guerra. Coglie invece in pieno l’entusiasmo collettivo e internazionale per la sconfitta del nazismo. Insomma, la realtà che irrompe nel testo non è solo il passato recente dell’arroganza e della millanteria nazista: è anche la festa della democrazia contro il nazifascismo sconfitto, è la celebrazione della pace ritrovata, della vita che ricomincia dopo la guerra, della libertà contro il potere. Con questi festeggiamenti è l’invito all’oblio e alla riconciliazione frettolosa che viene mostrato e insieme messo in questione: la fretta di tornare a vivere, di ricostruire, passando sopra a quello che è appena successo, dando per scontato che ciò che lo ha reso possibile sia morto con esso. A questo proposito ci sono continui richiami lungo il testo, che dovevano fischiare nell’orecchio dello spettatore di allora, o avrebbero dovuto. A quanto risulta dallo spoglio delle recensioni dell’epoca, non fu così[70] Si vuole dimenticare, bere «il vino della vittoria», senza chiedersi di quali «molte erbe» sia fatto, «mescolate nell’oscurità»[71]. In questa vittoria come in altre vittorie ci sono ombre che non si vogliono vedere. Come Tiresia, Brecht viene a guastare la festa di chi è ubriaco di vittoria prematura e sordo per il clamore dell’entusiasmo. È finita la guerra»[72], dice Creonte. È davvero finita? Gli chiede Tiresia, e Brecht lo chiede a chi vede lo spettacolo.

Nel momento storico in cui quest’Antigone viene messa in scena, quando i crimini del nazismo sono ancora freschi per poi emergere più tardi in tutta la loro portata, l’invito “dionisiaco” all’oblio alla gioia di vivere, l’esortazione del coro tragico a voltare pagina e ad aderire al flusso della vita, assumono un valore grottesco. Sofocle e la tragedia antica in genere mettevano l’accento sul momento positivo di questo “saper divenire”, e Brecht probabilmente sarebbe d’accordo, fatte le dovute distinzioni tra i contesti. Il pericolo sociale nell’Atene del V secolo sembrerebbe addensarsi più laddove si irrigidiscono le posizioni piuttosto che in questo senso pratico del saper cedere e cambiare. Quest’ultimo in fondo risuona pure bene con un concetto centrale in Brecht, quello di «Einverständnis», o l’esigenza di essere d’accordo con la situazione in cui ci si trova, non per rassegnarvisi, ma per poter trovare un punto di presa da cui metterla in moto.

Eppure la tragedia antica sembra già mettere in crisi questa saggezza dionisiaca che all’epoca dei tragici, in fondo, è filosofia popolare. E lo fa nel momento stesso in cui la mostra come una via necessaria nel momento in cui si accetta di vivere. Dove corre la linea sottile che distingue la saggezza dionisiaca di chi asseconda il ritmo del vivere dall’opportunismo di chi asseconda di volta in volta il potente di turno? Questa è la domanda indiretta che sembrano già porre i protagonisti della tragedia greca. A un oblio già umano troppo umano, forse poco dionisiaco, un’Antigone, un’Elettra, pur con le differenze sopra viste, oppongono la necessità di rimanere in rapporto con ciò che non c’è più e che tuttavia non è ancora davvero scomparso.

A maggior ragione nel dopoguerra, proprio come oggi, questo senso pratico rischia di declinarsi troppo in fretta soltanto nel senso perverso: “dobbiamo pur vivere, dobbiamo ricominciare, non possiamo perdere tempo a capire”. Adesso, e si tratta di un “adesso” lungo quasi un secolo, il pericolo sta meno nell’eventuale sopruso del singolo che nella paura dei molti, spacciata per voglia di vivere.

Non a caso, nel periodo in cui Brecht è in Svizzera e lavora all’Antigone, il suo diario di lavoro intreccia appunti di lettura e drammaturgia con osservazioni preoccupate in margine a quello che nel frattempo sta succedendo oltre confine, in Germania. La guerra è finita, il nazismo sconfitto, almeno ufficialmente, ovunque sono rovine e fretta di ricominciare:

ogni cosa mostra con chiarezza che la Germania ancora non ha capito la crisi in cui si trova. Il piagnisteo quotidiano, la mancanza di tutto, il movimento in circolo di ogni processo mantengono la critica a un livello sintomatico. Andare avanti è la parola d’ordine. Si rimanda e si rimuove. Da ogni parte si ha paura di quel demolire senza il quale è impossibile costruire.[73]

È questo il contesto con cui questa messa in scena si confronta direttamente, non la guerra e il nazismo appena “superati”. Non sono questi a stare in primo piano, o meglio, davanti alla scena, ma questo pubblico, questa Germania e la politica dei vincitori. Sono questi i problemi ora. La furia del rinviare e rimuovere, la paura di demolire e quindi anche di costruire davvero, questo muoversi in circolo che non porta da nessuna parte, fatto di migliorie e restauri senza autentici cambiamenti: quest’atteggiamento diffuso e trasversale impedisce al pensiero critico di andare a fondo della situazione, lo trattiene a registrare e ad affrontare solo sintomi.

Di fatto, molte letture e rappresentazioni odierne rischiano di mancare questo punto[74]. Insistono sulla rappresentazione e la condanna del nazismo all’opera in questa Antigone, dimenticando che Brecht è davvero scrittore di teatro. Il centro di gravità e di interesse di una messa in scena non sta mai per lui in che cosa o in come si rappresenta, non è cioè mai collocato sul palco, ma è spostato in fuori, nella frizione tra ciò che accade in scena e davanti alla scena. Non si tratta mai di raccontare una storia, men che meno di fare una lezione di storia, nemmeno del presente. Piuttosto di scoprire all’improvviso insieme al pubblico, attraverso una storia, quindi in maniera indiretta, pseudonimica si potrebbe dire, aggirando le resistenze della coscienza empirica, dove ci si trova davvero in un momento storico rispetto a dove ci si illudeva di stare. Mancando questo intento fondamentale di Brecht, si manca di percepire e di usare il punto di contatto che ancora ci sarebbe tra questa rielaborazione della materia di Antigone e il nostro tempo.

X.

Brecht fiuta con la lucidità che gli è propria questo pericolo: alla fretta di “vivere”, di essere “nuovi” e fare cose “nuove”, mantra o parola d’ordine allora come oggi, corrisponde la fretta di seppellire subito un passato talmente prossimo da intralciare ancora i passi. «Il passato lasciato a se stesso / Non rimane passato»[75], dice la sua Antigone. Eppure, a guardare bene, dovrebbe apparire paradossale, e insieme rivelatorio, il modo in cui Antigone cerca di trattenere quello che tutto intorno vorrebbe rimuovere troppo in fretta. Il suo sforzo di “tenere presente” si articola attraverso un gesto di sepoltura. Antigone è colei che non dimentica, e lo fa seppellendo: il mezzo smentisce il suo fine. Proprio la questione della sepoltura è uno dei momenti di questo mito tragico divenuti storicamente, e quindi drammaturgicamente, deboli. Il fatto che la resistenza di Antigone a un potere oppressivo si attui attraverso un gesto di sepoltura dovrebbe stonare a ridosso della Seconda guerra mondiale: è allora che si vedono, di fatto, «altri cadaveri a pezzi / […] a mucchi giacere insepolti / Sull’insepolto»[76]. Ma è stato necessario in un certo senso disseppellirli, perché il potere che li ha sterminati avrebbe voluto cancellarne ogni traccia. E ciò continua a valere per altri poteri e altri mucchi di morti che sono seguiti.

È difficile immaginare un potere contemporaneo che lasci i suoi cadaveri esposti, come vuole Creonte, a monito di eventuali dissidenti. Il potere come lo conosciamo noi, che si tratti dei totalitarismi novecenteschi o della democrazia-spettacolo dei nostri giorni, non ci tiene a lasciare i propri “morti”, letterali o metaforici, insepolti sotto agli occhi di tutti. Al contrario, seppellisce volentieri, in ogni senso, il prima possibile, al limite commemora e celebra anche, pur di stenderci sopra subito dopo uno strato di oblio. Le cerimonie della memoria finiscono spesso per essere in questo senso veri e propri atti di sepoltura reiterati: ogni volta la vittima va sigillata più a fondo. Il valore religioso dell’atto arretra subito sullo sfondo rispetto a quello politico-sociale. Seppellire, sul piano simbolico e storico-politico, significa per noi soprattutto metterci una pietra sopra, dimenticare, rimuovere le tracce.

In questo il gesto di Antigone risulta in fondo curiosamente solidale con la nostra fretta di toglierci i morti, letterali o metaforici, dalla vista e dalla memoria. C’è qui un punto cruciale con cui oggi qualsiasi messa in scena o rimessa in gioco teorica di Antigone dovrebbe misurarsi. Va tenuto conto che sotterrare in fretta nell’anonimato e nell’oblio, oppure commemorare ogni tanto per poter poi meglio fare come nulla fosse stato, è proprio il comportamento del potere odierno, e non da ultimo un comportamento di massa. Se non si considera questo, si resta dentro ai vecchi slogan di vecchie battaglie, di gesti simbolici poveri contro violenze reali, di resistenze clamorose ma episodiche, contro oppressioni diffuse ma poco appariscenti. Si resta cioè dentro al luogo comune, spesso indistinguibile dal mito in senso moderno, quello che incontra subito la simpatia di tutti perché mette d’accordo lì dove è facile andare d’accordo, nei generalismi al di fuori e al di sopra di contesti e conflitti di interessi concreti.

Ci sarebbe allora bisogno oggi di un vero e proprio rovesciamento della fabula originaria di Antigone: da una parte un potere aggiornato, che si affretta a seppellire i suoi morti, magari anche con tutti gli onori e le commemorazioni possibili, come è ripetutamente accaduto con le fosse comuni dell’ultimo secolo, come accade oggi con i migranti morti in mare. Dall’altra, una “signora delle ossa” che, come i medici legali in Bosnia ed Erzegovina, come una Cristina Cattaneo che oggi cerca di restituire un’identità e una dignità ultima ai migranti morti[77], lavori a “disseppellire”. Stavolta però per dare loro più di un nome e più di una voce: per dare soprattutto una parola precisa e lucida, capace di nominare non solo le vittime, non solo le ferite, ma anche di costruire il nesso attuale che stringe insieme ciò che sembra lontano e separato, e non solo di ricomporne i resti.

Bibliografia

Agamben, Giorgio, Il potere sovrano e la nuda vita. Homo Sacer, Einaudi, Torino 1998.

Arendt, Hannah, «Understanding and Politics (The Difficulties of Understanding)», in Essays on Unterstanding 1930-1954, pp. 307-327, Shocken Books, New York 1994.

Brecht, Bertolt, «Die Antigone des Sophokles» in: Gesammelte Werke, pp. 2273-2329, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967.

Brecht, Bertolt, «Zu Die Antigone des Sophokles. Vorwort zum Antigonemodell 1948», in: Gesammelte Werke 17, pp. 1211-1220, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967.

Brecht, Bertolt, «Flüchtlingsgespräche», in Gesammelte Werke 14, pp. 1381-1515, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967.

Brecht, Bertolt, Arbeitsjournal 1938-1955, Aufbau-Verlag, Berlin und Weimar 1977.

Butler, Judith, Antigone’s Claim. Kinship between Life and Death, Columbia University Press New York 2000.

Castellari, Marco, Hölderlin und das Theater: Produktion – Rezeption – Transformation, De Gruyter, Berlin 2018.

Castellari, Marco, «Ri-scrivere per il teatro, Hölderlin, Brecht, Müller», in: BAIG VII, febbraio 2014, pp. 51-60.

Castellari, Marco, «La presenza di Hölderlin nell’Antigone di Brecht», in: Studia theodisca XI, 2004, pp. 143-182.

Cattaneo, Cristina, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano 2018.

Ciani, Maria Grazia (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia 2000.

Del Zoppo, Paola / Lozzi Giulio (a cura di), Sulle tracce di Antigone, Istituto di Studi Germanici, Roma 2018.

Fornaro, Sotera, Antigone. Storia di un mito, Carocci, Roma 2012.

Forte, Luigi, «L’Antigone di Bertolt Brecht ovvero la tragedia del potere» in Cultura Tedesca 36, 2009pp. 9-18.

Foucault, Michel, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 2012, ebook.

Foucault, Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2013, ebook.

Guidorizzi, Guido, Letteratura greca. Da Omero al secolo VI d.C., Mondadori, Milano 2002.

Hamacher, Gottfried (unter Mitarbeit von André Lohmar, Herbert Mayer, Günter Wehner und Harald Wittstock), Gegen Hitler. Deutsche in der Résistance, in den Streitkräften der Antihitlerkoalition und der Bewegung “Freies Deutschland”. Kurzbiografien, Karl Dietz, Berlin 2005.

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Fenomenologia dello spirito, testo tedesco a fronte, Rusconi Milano 1995.

Hölderlin, Friedrich, «Anmerkungen zur Antigonae», in: Übersetzungen, Sämtliche Werke 5, pp. 265-272, Verlag W. Kohlkammer, Stuttgart 1952.

Lacan, Jacques, Il Seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994.

Lehmann, Hans-Thies, Tragödie und Dramatisches Theater, Alexander Verlag, Berlin 2013.

Pewny Katharina / Van den Dries, Luc / Gruber, Charlotte / Leenknegt, Simon (ed. by), Occupy Antigone: Tradition, Transition and Transformation in Performance, Tübingen 2016.

Porciani, Elena, Nostra sorella Antigone, Villaggio Maori, Catania 2017.

Steiner, George, Antigones. How the Antigone Legend has endured in Western Literature, Art and Thought, Yale University Press, New Haven and London 1996.

Wagner, Frank Dietrich, Antike Mythen Kafka und Brecht, Verlag Königshausen und Neumann, Würzburg 2006.

Žižek, Slavoj, Die drei Leben der Antigone. Ein Theaterstück, Fischer, Frankfurt am Main 2015.



[1] Per una ricostruzione della storia e della fortuna di questo mito si veda il classico George Steiner, Antigones. How the Antigone Legend has endured in Western Literature, Art and Thought, Yale University Press, New Haven and London 1996. Più di recente in area italiana il bel contributo di Sotera Fornaro, Antigone. Storia di un mito, Carocci, Roma 2012.

[2] Per la traduzione italiana del testo di Sofocle e di Brecht faccio riferimento a: Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia 2000. Per il testo originale di Brecht mi riferisco a: Bertolt Brecht, «Die Antigone des Sophokles», in: Gesammelte Werke, pp. 2273-2329, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967. Laddove non diversamente indicato, tutte le traduzioni di citazioni da testi in lingua tedesca e inglese sono a cura di chi scrive.

[3] Per ragioni di spazio in questo articolo non discuterò la scelta singolare di Brecht di lavorare sulla vertiginosa traduzione di Hölderlin, che suscitò ilarità tra i contemporanei Goethe e Schiller tanto quanto è stata riscoperta e riutilizzata, insieme a quella di Edipo re, lungo il Novecento. Per una rassegna ragionata e approfondita di questi confronti con il teatro e le traduzioni di Hölderlin si veda tra i contributi più recenti e documentati: Marco Castellari, Hölderlin und das Theater: Produktion – Rezeption – Transformation, De Gruyter. Berlin 2018. Più nello specifico su Hölderlin e Brecht, sempre Marco Castellari, «La presenza di Hölderlin nell’Antigone di Brecht», in: Studia theodisca XI, 2004, pp. 143-182, e «Ri-scrivere per il teatro, Hölderlin, Brecht, Müller», in: BAIG VII, febbraio 2014, pp. 51-60.

[4] Bertolt Brecht, «Zu Die Antigone des Sophokles. Vorwort zum Antigonemodell 1948», in: Gesammelte Werke 17, pp. 1211-1220, qui p. 1214, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967.

[5] Per una discussione recenti di questi motivi in una prospettiva interdisciplinare cfr.: Katharina Pewny / Luc Van den Dries / Charlotte Gruber / Simon Leenknegt (ed. by), Occupy Antigone: Tradition, Transition and Transformation in Performance, Narr Francke Attempto Verlag Tübingen 2016. In ambito italiano si veda: Paola Del Zoppo / Giuliano Lozzi (a cura di), Sulle tracce di Antigone, Istituto di Studi Germanici, Roma 2018.

[6] Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 2013, versione ebook.

[7] A partire dall’età moderna «la vita naturale comincia a essere inclusa nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale e la politica si trasforma in bio-politica». Come è noto, questo è il contributo fondamentale di Giorgio Agamben (prima di tutto nel 1998 con Il potere sovrano e la nuda vita. Homo Sacer, Einaudi, Torino), che si serve del concetto ripreso da Walter Benjamin di «nuda vita» per chiarire il concetto di «biopotere» e «biopolitica», così centrale (e anche così abusato) nella discussione estetico-politica contemporanea.

[8] Per una disamina della ricezione femminista della materia di Antigone, o comunque in relazione alla questione femminile, si veda il recente: Elena Porciani, Nostra sorella Antigone, Villaggio Maori, Catania 2017.

[9] Sofocle, «Antigone», p. 45, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito 2000, cit.

[10] Ivi, p. 38-39.

[11] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), testo tedesco a fronte, pp. 630-643, qui p. 641, Rusconi, Milano 1995.

[12] Sofocle, «Antigone», p. 26, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, cit.

[13] Anche Judith Butler lo constata: «i due atti», quello di Creonte e quello di Antigone, si rispecchiano l’un l’altro piuttosto che opporsi» (in: Judith Butler, Antigone’s Claim. Kinship between Life and Death, p. 10, Columbia University Press, New York 2000). Cfr. a proposito della corrispondenza tra Antigone e Creonte anche ciò che ne dice Slavoj Žižek a p. 25 dell’introduzione «Antigone rennt», in Die drei Leben der Antigone. Ein Theaterstück, Fischer, Frankfurt am Main 2015.

[14] Friedrich Hölderlin, «Anmerkungen zur Antigonae», in Übersetzungen, Sämtliche Werke 5, pp. 265-272, qui p. 271, Verlag W. Kohlkammer, Stuttgart 1952.

[15] Ibidem.

[16] Cfr. Giulio Guidorizzi, Letteratura greca. Da Omero al secolo VI d.C., pp. 156-157, Mondadori, Milano 2002. Judith Butler nel suo Antigone’s Claim (cit-) legge nei versi in questione un sentimento incestuoso di Antigone verso Polinice. Il che, se da una parte confermerebbe la maledizione della stirpe di Edipo, dall’altra sembrerebbe articolare una ribellione ancora più radicale di quella etica, in grado di mettere in discussione anche quelle “leggi eterne”, situate proprio al confine tra natura e cultura, che inaugurano la storia umana, come, appunto, il tabu dell’incesto. In questo senso il saggio di Butler mi sembra rientrare nella serie di letture intelligenti del mito, che attraverso una rilettura innovativa, diretta o, come in questo caso, indiretta, vorrebbero aprire una prospettiva inedita sulla violenza della e nella storia e sulla storicità stessa. A ben guardare finiscono però per rinnovare ancora una volta i paradigmi dominanti nella nostra ricezione del mito in questione, e prima ancora nella nostra critica del potere e della violenza. Cambiano cioè i motivi, ma il “culto” di Antigone come rivendicazione di una zona franca al di là o al di qua della violenza della storia non ne viene intaccato.

[17] Sofocle, «Antigone», p. 28, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, cit.

[18] Hans-Thies Lehmann, Tragödie und Dramatisches Theater, p. 224, Alexander Verlag, Berlin 2013.

[19] Ivi, p. 225.

[20] Così Butler, Antigone’s Claim, cit., p. 7.

[21] Sofocle, «Antigone», p. 36, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, cit.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 46.

[24] Cfr. a questo proposito Judith Butler, Antigone’s Claim, cit., pp. 21-22.

[25] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), p. 641, Rusconi, Milano 1995. Nelle pagine in cui si serve del mito di Antigone come fenomeno concreto, Hegel rileva una «eterna ironia «giocata storicamente dall’elemento femminile all’interno della comunità: in quanto preserva i valori famigliari, quest’elemento tende a ricondurre l’orizzonte comune della comunità all’indietro, verso interessi più particolari. Fa cioè deviare dal processo che dovrebbe portare, oltre la semplice negazione dei singoli nel gruppo, a una vera maturazione dell’individualità. Nell’ottica dialettica di Hegel, l’elemento femminile è, da una parte, un momento sempre necessario, perché rimette una dimensione pubblica ancora astratta di fronte alla concretezza empirica dei singoli. Dall’altra, questa concretezza dei singoli, a cui l’elemento femminile richiama, rimane troppo finita in se stessa, troppo privata ed esclusiva, in fondo ancora troppo astratta a sua volta: deve ancora imparare a stare in rapporto con l’orizzonte comune per poter diventare davvero individuale. Così succede, sono esempi di Hegel, che la madre esalti il figlio che ha generato, contro tutti gli altri e soprattutto contro il suo stesso processo di individuazione, o che la sorella, e qui è immediato il collegamento ad Antigone, esalti «[…] il fratello, nel quale […] vede la propria uguaglianza con il maschio». Lui incarna fuori di lei, ma in qualche modo facendo ancora parte di lei, il valore politico e umano che lei non ha in sé.

[26] Slavoj Žižek, «Vorwort: Antigone rennt», in Die drei Leben der Antigone. Ein Theaterstück, pp. 7-29, qui p. 13, Fischer, Frankfurt am Main 2015.

[27] Jacques Lacan, Il Seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994.

[28] Slavoj Žižek, «Vorwort: Antigone rennt», in Die drei Leben der Antigone, cit., p. 25.

[29] Ibidem.

[30] Søren Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un esperimento di ricerca frammentaria, il melangolo, Genova 2012.

[31] Slavoj Žižek, «Vorwort: Antigone rennt», in Die drei Leben der Antigone, cit., qui p. 29.

[32] Ivi, pp. 28-29.

[33] Bertolt Brecht, «Zu Die Antigone des Sophokles. Vorwort zum Antigonemodell 1948», cit., p. 1212.

[34] Ivi, pp. 1212-1213.

[35] Ivi, p. 1213.

[36] Nel 2005 la Rosa-Luxemburg-Stiftung ha provveduto a pubblicare una raccolta di nominativi e relative biografie dei militanti rintracciabili, che documenta, per quanto in maniera non esaustiva, l’estensione della resistenza tedesca attiva: Gottfried Hamacher (unter Mitarbeit von André Lohmar, Herbert Mayer, Günter Wehner und Harald Wittstock), Gegen Hitler. Deutsche in der Résistance, in den Streitkräften der Antihitlerkoalition und der Bewegung “Freies Deutschland”. Kurzbiografien, Karl Dietz, Berlin 2005.

[37] Bertolt Brecht, «Zu Die Antigone des Sophokles. Vorwort zum Antigonemodell 1948», cit., p. 1214.

[38] Ibidem.

[39] Bertolt Brecht, Arbeitsjournal 1938-1955, p. 444, Aufbau-Verlag, Berlin und Weimar, appunto del 10/4/1948, Suhrkamp. Frankfurt am Main 1977.

[40] Ivi, p. 444.

[41] Cfr. Hannah Arendt, «Understanding and Politics (The Difficulties of Understanding)», in Essays on Unterstanding 1930-1954, pp. 307-327, qui p. 314, Shocken Books, New York 1994.

[42] Bertolt Brecht, Zu «Die Antigone des Sophokles». Vorwort zum Antigonemodell 1948, cit., p. 1213.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Bertolt Brecht, «Antigone», in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, cit., p. 126.

[46] Bertolt Brecht, Zu «Die Antigone des Sophokles». Vorwort zum Antigonemodell 1948, cit., p. 1212. Cfr. a proposito Frank Dietrich Wagner, Antike Mythen Kafka und Brecht, p. 63, Verlag Königshausen und Neumann, Würzburg 2006.

[47] Bertolt Brecht, «Antigone», p. 162, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, cit.

[48] Ivi, p. 166.

[49] Ivi, p. 161.

[50] Ibidem.

[51] Ivi, p. 162.

[52] Ibidem (traduzione modificata).

[53] Ivi, p. 144.

[54] Ivi, p. 171 (traduzione modificata).

[55] Ivi, p. 172 (traduzione modificata).

[56] Bertolt Brecht, «Flüchtlingsgespräche», in Gesammelte Werke 14, pp. 1381-1515, qui p. 1485, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967.

[57] Ibidem.

[58] Bertolt Brecht, «Antigone», p. 162, in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, cit.

[59] Ivi, p. 163.

[60] Ibidem.

[61] Ibidem (traduzione modificata).

[62] Ivi, p. 180 (traduzione modificata. La versione italiana traduce solo «sofferenza» per «Duldung»).

[63] Ivi, p. 179.

[64] Ivi, p. 180 (traduzione modificata).

[65] Bertolt Brecht, Zu «Die Antigone des Sophokles». Vorwort zum Antigonemodell 1948, cit., p. 1211.

[66] Ibidem.

[67] Ibidem.

[68] Hannah Arendt, «Understanding and Politics (The Difficulties of Understanding)», in Essays on Unterstanding 1930-1954, cit., pp. 307-327, qui p. 324.

[69] Bertolt Brecht, Arbeitsjournal 1938-1955, cit., p. 440.

[70] Tutte le recensioni di quotidiani ritagliate da Brecht e ora conservate al Brecht-Archiv di Berlino leggono la rappresentazione in senso morale-moralistico, cadendo nella trappola della facile contrapposizione tra violenza totalitaria e istanza umanitaria. Si veda a questo proposito anche il disappunto di Brecht verso questo tipo di lettura nell’appunto già citato del 10/4/1948 (Brecht, Arbeitsjournal 1938-1955, cit., p. 444).

[71] Ivi, p. 163.

[72] Ivi, p. 167.

[73] Bertolt Brecht, Arbeitsjournal 1938-1955, cit., p. 440.

[74] Cfr. ad esempio la lettura di Luigi Forte «L’Antigone di Bertolt Brecht ovvero la tragedia del potere» in Cultura Tedesca 36, 2009, pp. 9-18, a p. 17: «Sofocle gli [a Brecht] servì da scenario per un sotteso apologo contro la violenza. Tra le macerie della Germania Brecht fu tra i primi a cogliere nel passato l’indispensabile richiamo al risveglio politico che ora finalmente poteva generare, dopo l’orrore, la speranza della democrazia».

[75] Bertolt Brecht, «Antigone», in Maria Grazia Ciani (a cura di), Sophokles, Jean Anouilh, Bertolt Brecht. Variazioni sul mito, cit., p. 129 (traduzione modificata).

[76] Ivi, p. 162 (traduzione modificata).

[77] Cristina Cattaneo, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano 2018.