Giulia Fanetti

(Bologna)

Il demiurgo è ibrido, ovvero ermafrodita
Letture postasburgica e postcoloniale di
«Die andere Seite» di Alfred Kubin

[The demiurge is a hybrid, that is a hermaphrodite
Post-Habsburg and post-colonial interpretations of «Die andere Seite» by Alfred Kubin]

abstract. The Other Side narrates the story of an anachronistic regime built up in Asia with remains of Decadent Europe. Before its collapse, due to the impossibility of existing against history and nature, the narrator concludes: «The demiurge is a hybrid». This paper studies the identity of the demiurge in order to clarify the meaning of this alienating statement. In doing so, it recognizes that the extraordinary regime reflects many features of the Habsburg myth; and also, that as an “experiment of Austria” it needs to take place elsewhere, where the western repressed dreams of power can be fulfilled: in a colony.

Con Die andere Seite. Ein phantastischer Roman (1909) l’illustratore trentunenne Alfred Kubin (1877-1959) sottrae all’oblio la storia del Regno del Sogno, costruito in Asia con scarti d’Europa. Nel pieno di una profonda crisi creativa, il giovane artista boemo sceglie di trasformare i suoi disegni in segni, parole. Il romanzo, redatto nel 1908, in seguito da lui stesso illustrato e pubblicato da Langen Müller Verlag nel 1909, in effetti funge da sblocco per la sua produzione: Kubin diviene uno dei più grandi disegnatori fantastici del Novecento, ancora oggi scelto per illustrare Fëdor Dostoevskij, Georg Trakl, Franz Kafka[1], solo per citarne alcuni. Il romanzo stesso raggiuge grande notorietà, eppure, come scrive Horst Bienek nel commento alla versione del 1962, a soli tre anni dalla morte dell’autore questo libro ha già la forma di una reliquia letteraria[2], relegata sullo scaffale dei molti romanzi fantastici di inizio Novecento e messa in ombra da altri[3].

Si tratta della storia del ricco Patera, che costruisce in mezzo all’Asia uno strano impero e convince alcuni selezionati individui ad abitarlo. Il protagonista, illustratore come l’autore, è uno di questi. Il Traumreich viene proposto come una seconda opportunità e una novità, ma è interamente costruito con scarti della Mitteleuropa di metà XIX secolo. Tutto nel Regno deve necessariamente essere secondhanded: solo ciò che ha già vissuto può entrare nel Sogno. Così le case, le suppellettili e le opere d’arte sono scelte tra quelle abbandonate, deturpate dal tempo o da atti violenti, e lì trasportate per godere di nuova vita. In questo contesto, Patera ha il pieno controllo sulle scelte degli abitanti, che vivono «im Bann»[4]. La fine del Regno comincia con l’arrivo dell’americano Hercules Bell, che inneggia alla giustizia e alla sovversione di Patera. La resistenza a questo movimento indebolisce il vecchio sovrano e i suoi cittadini risultano sempre più, letteralmente, fuori controllo. Inevitabilmente, i due contendenti arrivano allo scontro, che ha la forma di una lotta fra titani, da cui l’americano esce illeso, mentre Patera si trasforma in un essere fantasmatico, costudito in una caverna, eppure non realmente sconfitto. Infine, il narratore conclude con l’alienante costatazione «Der Demiurg ist ein Zwitter» – il demiurgo è un «ibrido» è la traduzione italiana scelta nella maggior parte dei casi. L’affermazione chiude un capitolo diverso dai precedenti, costituito da una serie di considerazioni a posteriori da parte del narratore che è riuscito a uscire dal Regno, a tornare nel mondo reale. Bloccato in una casa di cura, sogna spesso ciò che ha vissuto, dovendo dolorosamente ammettere che la realtà non è all’altezza del Sogno. Si sente perciò attratto dalla morte, eppure, proprio quando il legame con la vita sembra sfuggirgli definitivamente, capisce che non ne può fare a meno, che vita e morte sono due forze coesistenti e costrette a una lotta continua la quale, come effetto, esaurisce gli esseri viventi – morenti – bloccati in questo inferno: «Die wirkliche Hölle liegt darin, daß sich dies widersprechend Doppelspiel in uns fortsetzt»[5].

Che si sia trattato di sogno o veglia, questi avvenimenti al confine tra fantasia e pazzia – «Gehörte doch ein großer Teil der Traumleute früher zu den ständigen Gästen der Sanatorien und Heilanstalten»[6] – hanno fornito al protagonista una lucida visione del mondo e della storia, che egli esprime nell’ultimo schizzo del quadro, nelle ultime pagine del romanzo: il riconoscimento dell’ibridismo del demiurgo, fulminante e apparentemente decontestualizzato. In effetti, non vi è una figura che risponda a questo nome o al concetto classico, platonico, di demiurgo. In questo ibrido concetto, il riferimento più immediato per il lettore è quello di una figura che pilota la lotta continua tra le due antagoniste da cui provengono tutte le forze di attrazione e repulsione del mondo: vita e morte. Tuttavia, la declinazione di questa lotta nel Regno, nonché la ragione che ha portato il protagonista ad affacciarsi alla questione ontologica nelle ultime pagine, non può che essere l’ibrido costituito dalle due forze ugualmente violente e opposte, l’americano e Patera, che trasformati in entità gigantesche cancellano il Regno, plasmando così un mondo diverso. Essi riflettono però un altro scontro ancora, quello tra due gestioni del potere, democrazia e dittatura lascia supporre una prima lettura – anche se, in molti aspetti, quella che si rivela in realtà essere la demagogia dell’americano Bell risulta più diabolica e ingiusta della dittatura impercettibile del vecchio Patera, che non ha altro scopo se non far vivere i suoi nella pace di un tempo passato, del tempo fermato. Il demiurgo, l’ibrido, il frutto e l’artefice di questa battaglia eterna, ha dunque varie sfaccettature. Improvvisamente balena il sospetto che le affermazioni finali del narratore si possano leggere come l’ultimo passo di una riflessione più ampia, che soltanto in fondo, sintetizzando e semplificando, si riduce alla questione ontologica dell’Essere come lotta tra vita e morte. Una riflessione di cui si possono seguire le tracce osservando con sguardo più attento proprio il Regno, la sua forma e funzione: questo è il luogo dove cercare risposte sull’opaca identità dell’ibrido, sulla ragione di questa straniante osservazione finale e, forse, sul messaggio che l’autore voleva lasciare ai posteri.

1. L’ibrido postasburgico

C’è un elemento che compare spesso nella narrazione, tanto da escludere che si tratti di mera casualità, ed è una certa sovrapposizione tra il Regno del Sogno e l’Austria decadente di fine secolo, patria dell’autore. Sorge il dubbio che i connotati di sogno di questa memoria siano la forma che la mente del narratore ha dato a fatti realmente avvenuti, inscrivendo in essi emozioni, distorsioni, fantasie. È possibile che quella che il narratore sta riportando alla luce sia in realtà la storia della fine di un regno conosciuto, con reali coordinate geografiche, che ha prosperato per anni non in mezzo all’Asia, bensì in mezzo all’Europa, ma come corpo ugualmente estraneo perché eccezionale. Un impero, la cui fine è stata per molti la fine del mondo conosciuto, una fine apocalittica – si leggano Franz Werfel, Stefan Zweig, Joseph Roth, per esempio – qui rappresentata nella lotta fra titani finale, un esempio di «postreligiöse Apokalypse-Narrative, indem er (der Autor) eine Verbindung zwischen individuellem Traum und kollektivem Trauma herstellt»[7]. Il testo dice che l’incalzare degli eventi conferiva alla vita qualcosa di onirico[8]: stando a questa ipotesi, l’autore deve aver già vissuto o deve essere al cospetto dell’incalzare degli eventi che hanno portato allo sgretolamento dell’impero danubiano, e ciò conferisce alla decadente realtà asburgica questa forma di sogno. In effetti, le crepe nel sistema plurisecolare erano ormai, nel 1908, così visibili che si aveva provveduto a creare un complesso sistema narrativo che ne mitizzava i tratti in maniera autocelebrativa e conservatrice: il mito asburgico. Un mito moderno che non presuppone presenze divine o ultraterrene, bensì un chiaro, semplice e immortale racconto che disegna una società narrandone l’origine e l’essenza con tratti rigidi, senza spazio per interpretazioni. Propaganda, di fatto, che una personalità acuta come Kubin senz’altro aveva riconosciuto: «Daß solche Zustände einer Katastrophe zuführen mußten, war den wenigen einsichtigen Elementen klar»[9], recita il narratore di fronte all’imminente fine del Regno del Sogno.

L’ipotesi è, dunque, che questo racconto apertamente sarcastico sia la storia del crollo del grande impero raccontata attraverso un mito, che in effetti corrisponde a un modo di significare, una forma, secondo la celebre definizione di Roland Barthes[10]: nella fattispecie, attraverso il mito asburgico, la «completa sostituzione di una realtà storico sociale con un’altra fittizia ed illusoria, la sublimazione di una concreta società in un pittoresco, sicuro e ordinato mondo di favola», così Claudio Magris[11]. In effetti, il Regno del Sogno viene venduto come luogo in cui rinascere e lasciare da parte le proprie preoccupazioni, ma la contraddizione tra narrazione di favola e realtà salta agli occhi costantemente, ed è la principale fonte di nonsense, disordine e vita fantasmatica che conferisce al testo quello sfondo grottesco cifra di tutta la produzione artistica di Kubin.

La realtà del Regno è una grande ipnosi generale. Patera ha infatti il potere di suscitare e manipolare l’immaginazione di un’intera comunità[12]: ciò che faceva anche il perno della grande operazione di marketing asburgica, Franz Joseph, pater di tutti i suoi popoli, come recitava l’incipit di ogni proclama imperiale[13]. Allo stesso modo Patera era padre di tutte le genti del Regno del Sogno, anche a livello genetico – non senza una certa ironia, il narratore nota che «an einer seiner großen, wohlgeformten Hände das Nagelglied des Daumens fehlte»[14], come a tutti i bambini nati nel regno. Il parallelo tra il pater e Patera, nomi che condividono la stessa radice, è evidente anche a livello iconografico: «In ein schleierhaftes, silbergraues Gewand gehüllt, stand Patera aufrecht da – stand schlafend da»[15], stanco e grigio, specchio dell’immagine dell’anziano imperatore Franz Joseph, la cui mitica immobilità aveva il dono di procrastinare ogni scelta e a mantenere così la nazione nella calma e nella pace. La sua figura di capo dell’ordine, «sommerso dal tempo e consapevole della fine vicina, chiuso nella sua solitudine come una vecchia quercia percossa dagli anni e dalle amarezze»[16], incarna l’eroica mediocritas asburgica, perfettamente rappresentata dai subordinati del monarca, i burocrati, figure chiave del mito asburgico e classe ampiamente presente anche nel Regno del Sogno, costantemente dipinta come inconcludente e dormiente, «kakanische Form der Verwaltungssatire»[17]. In ambito asburgico burocrate non rimanda infatti a chi lavora con le scartoffie, bensì a colui cui bisogna sottomettersi in favore dell’ordine ma che è egli stesso perennemente sottomesso all’immobile stato delle cose.

Mito e Sogno si rivelano, dunque, pericolosi strumenti di controllo. Patera usa l’«Einbildung-Kraft»[18] per tenere le redini del proprio impero, specie contro il suo nemico giurato, un personaggio definito attraverso la sua nazionalità, l’americano, il quale non mette a ferro e fuoco il Regno, bensì risveglia il sentimento politico del popolo[19]. Di fronte alle rivendicazioni delle singole nazionalità imperiali, il maggior pericolo di disgregazione dell’impero, la Corona aveva eretto uno dei pilastri del proprio mito: l’idea di sovranazione, Übernationalität, un luogo dove nonostante tutte le differenze i vari popoli riuscivano a vivere in armonia e rispetto reciproco, grazie a un sovrano che permetteva a tutti di mantenere la propria identità, purché si consacrassero alla causa dell’unità imperiale. La storia che intercorre tra i due personaggi del romanzo ricalca la dinamica tra Franz Joseph e le nazionalità del suo grande impero: l’americano dice di essere riuscito a entrare nel regno dopo aver fatto richiesta a Patera per sette anni[20] così come Franz Joseph, dopo i moti del 1848, le concessioni e il ritiro delle stesse, è infine costretto ad accordare alle nazionalità, o almeno a quella ungherese, di entrare nel proprio Regno, che nel 1867 diventa Austria-Ungheria – sette anni dopo quel 1860 indicato dal narratore come la data in cui è rimasto fermo il Regno del Sogno.

Einem Schwindler seid ihr in die Falle gegangen, einem Hochstapler, einem Magnetiseur! Er hat euch um eure Gesundheit, euer Hab und Gut und euren Verstand gebracht! Unglückliche! Ihr seid einer Massen­hypnose verfallen![21]

così l’americano Bell. La privazione della ragione, motore della modernità alla quale l’anacronismo asburgico e quello del Regno del Sogno non lasciano varcare la soglia, è un altro elemento di sovrapposizione: nel regno di Patera non può entrare nulla di nuovo ed è esplicitamente definito come rifugio per gli insoddisfatti della civiltà moderna[22]. Non è un caso che l’americano non sia di nazionalità mitteleuropea, ma venga da un luogo che è emblema del mondo occidentale, tecnologico, democratico e allo stesso tempo ingiusto e violento che la Corona così disegnava per tenerlo lontano[23]. Un’Austria chiusa in se stessa e che chiude le porte all’Occidente di cui dovrebbe far parte: un invito di Kubin, implicito e forse inconscio, a pensare alla Corona come a qualcosa di opposto all’Occidente, qualcosa di orientale, che in effetti trova un riflesso delirante e onirico proprio in questo Regno del Sogno asiatico. Si conosce, da scambi epistolari e appunti di viaggio, il disprezzo[24] che Alfred Kubin provava per le regioni più orientali dell’impero, specie per l’Ungheria, e si può supporre che sentisse la propria patria ormai corrotta da una certa matrice orientale, sonnambula e soprattutto multipla e incoerente, di cui questo regno degenerato è caricatura. Si tratta di un’ipotesi, ma l’idea che alcune parti della Corona rispecchiassero una Halb-Asien era diffusa tra gli scritti delle periferie imperiali – concetto esplicitato per la prima volta da Karl Emil Franzos, nell’opera omonima, uscita tra il 1876 e il 1888. Un’idea rivoltante per Kubin, che forse proprio per questo ha deciso di trascorrere gran parte della vita al confine con la Germania dove la cultura tedesca che lo affascinava nel suo essere europea, capitalistica e occidentale[25] non era in balia di quella dimensione di sogno da mille e una notte che ormai permeava l’impero asburgico.

Gli elementi del mito asburgico sono dunque fondanti il Regno del Sogno, ma sono posti accanto al proprio smascheramento, ad essi compresente e simultaneo, fatto che acuisce l’alienazione del lettore ed estremizza i tratti deformi degli abitanti e del Regno. La nazione si scopre essere una comunità di scelti perché persone liminali – per lo più malati psichiatrici – predisposte ad accettare l’irrealtà come ambiente ideale per condurre la propria esistenza. Inoltre, questa costruzione si trova in un luogo dove non c’è mai sole: qui si mette in scena nuovamente il passato e perciò necessariamente non vi è alcuna prospettiva futura – non nasce quasi nessun bambino e l’economia lentamente tracolla. Si tratta di un luogo come l’Europa ma traslato in un’altra dimensione, nascosta da una nebbia che ne dissolve i contorni: un fantasma di Europa, non a caso abitato da morti che cantano[26], «Kreaturen, strotzend von Ungeziefer, mit abgefressenen Nasen, eiterigen Augen, faustgroßen Geschwüren, Krätzenschorf»[27], con le mani che tendono rigide verso l’alto[28]. La realtà passata può rivivere solo come morto vivente: le figure zombie, che ne sono prova, si manifestano infatti vicine alla fine del Regno, proprio come gli uomini di un’epoca finita che si aggirano per le città morte[29] della Fin de siècle in Europa, la cui cifra è la decadenza, la consapevolezza di essere stati superati dalla storia, mentre si rifugiano in qualche luogo sicuro come il passato o come il sogno. Eduardo Lourenço, riferendosi alla saudade portoghese, definisce questa volontà di vivere nel ricordo del passato, incapaci di accettarne la fine, come tentazione onirica[30]: non solo per i suoi tratti lontani dalla realtà della veglia, ma perché potenzialmente inestinguibile, come il sogno, nel quale non c’è spazio per la morte. In questo contesto, il ritiro di Patera in una sorta di cripta protetta da adepti può essere letto come una fine-non fine, un flash forward di quella che sarà la Kapuzinergruft[31] per Franz Joseph: un rifugio dove non si è estinti, ma ci si prepara per tornare. Le modalità di ritorno di un morto vengono spiegate da Franz Kafka, ammiratore di Kubin, nel suo racconto In der Strafkolonie, redatto tra il 1914 e il 1919, che termina con una profezia scritta sulla tomba, ormai dimenticata, del vecchio comandante della colonia – luogo anacronistico inghiottito da pratiche più civili e moderne:

Hier ruht der alte Kommandant. Seine Anhänger, die jetzt keinen Namen tragen dürfen, haben ihm das Grab gegraben und den Stein gesetzt. Es besteht eine Prophezeiung, daß der Kommandant nach einer bestimmten Anzahl von Jahren auferstehen und aus diesem Hause seine Anhänger zur Wiedereroberung der Kolonie führen wird. Glaubet und wartet![32]

Ciò che permette il ritorno del comandante è qualcosa che non si estingue mai, che fa parte dell’essere umano e della storia: l’invisibile governo[33] dell’eterno ritorno del rimosso, che nel caso della decadente epoca asburgica è il passato glorioso che torna sottoforma di sogno collettivo. Non è un caso che l’incantesimo e la conseguente professione di fede di ogni abitante del Regno avvenga all’interno di un grande orologio.

L’autore sembra voler mostrare al lettore dell’epoca la realtà nascosta dietro la coltre di mito asburgico, eppure non si tratta di una denuncia: la satira è evidente, la si trova in piccoli dettagli, come nei ritratti appesi negli hotel, raffiguranti due grandi falliti asburgici, Maximilian I. e Ludwig von Benedek, così come in palesi contraddizioni, per esempio il degenero finale del Regno che inizialmente pare una conseguenza della stanchezza e dell’imminente fine del sovrano, ma acquista valore sarcastico quando ci si accorge che a Patera rimangono tutte le forze necessarie per combattere un’ultima, terribile battaglia: il decadimento pare allora molto più un’arma che questi usa contro il moderno, contro lo scorrere del tempo, contro l’americano, che in effetti si trova in grossa difficoltà nel gestire questa situazione fuori controllo.

Proprio laddove, volgendo verso la fine del romanzo, questa satira leggera diventa pungente sarcasmo nasce una prima ipotesi sulla figura del demiurgo. La terribile sensazione di soffocamento, nel cosmico finale che non lascia quasi nessun superstite, proviene dal fatto che entrambi i titani hanno evidenti tratti diabolici: Patera ha mani e orecchi ovunque, è capace di risvegliare i tratti più bestiali dell’uomo, cambia volto, ha gli occhi di un verde penetrante, la sua presenza è accompagnata da un acre puzzo – tutte caratteristiche classicamente raffiguranti il diavolo; il suo antagonista risveglia sì la consapevolezza politica del popolo, tuttavia introduce armi e violenza nel regno, esegue fucilazioni di massa, fonda una società chiamata Lucifer e ha un aspetto espressamente diabolico[34]. Non si tratta di una lotta manichea tra bene e male: l’amara sensazione è quella di essere spacciati, chiunque sia il vincitore. Poniamo allora che Patera, con il suo progetto di impero riesumato dal passato, rappresenti l’anacronismo o lo spirito contro il tempo, mentre l’americano, uomo pieno di fascino e dall’inestinguibile energia, sia invece abitato dallo Spirito della Storia in termini hegeliani: tra i due lo scontro è inevitabile, come è evidente nella quotidianità decadente che sta vivendo Kubin. Il vincitore non può che essere la storia, che prosegue inesorabile: infatti l’americano ne esce incolume, si cambia le vesti con quelle moderne e prosegue sulla sua strada. Ma di Patera sopravvive una reliquia e un ricordo, resti che per definizione rimangono, sono inespugnabili. Per sempre si potrà riesumarli, di tempo in tempo – come nella profezia di Kafka. La fine del romanzo allude a un’asfissiante storia senza fine, una storia di infinito ritorno e di infinita sconfitta, un difetto di costruzione dell’uomo che continua a convincersi della possibilità dell’impossibile: egli non ha scampo di fronte alla storia da un lato e alla fantasia di vincere la storia dall’altro. L’americano e Patera sono dunque due rappresentanti delle forze invisibili che distruggono e creano il mondo e non resta che ratificare la scoperta con l’amara affermazione «Der Demiurg ist ein Zwitter», con il sarcasmo di chi ha compreso la condizione infernale umana, senza via d’uscita: come nei suoi disegni, Kubin riconosce il lato oscuro, diabolico e profondamente doloroso della realtà, conscio di vivere in un mondo di finzione e sicuro che, anche quando questo finirà, prima o poi tornerà sotto forma di una costruzione simile a limitare e soffocare la libertà dell’uomo, in un circolo senza fine.

Questa prima ipotesi proviene dunque da considerazioni definibili post­asburgiche, dove post, più che dal valore cronologico, viene definito dal suo significato di superamento, Aufhebung della visione asburgica mitica attraverso il racconto sarcastico, perspicace e critico dei propri tratti onirici, che trova in questa illuminazione finale sul (non)senso dell’uomo e della storia la sua sintesi. Il prefisso si mantiene mentre cambia la radice, invece, quando ci si addentra nella seconda ipotesi, che nasce da una lettura postcoloniale[35] del testo.

2. L’ermafrodita postcoloniale

Il Traumreich è un non luogo, è passato traslato nel presente e perciò è falso, come dimostra l’intricata messa in scena che sostituisce i rapporti personali, lavorativi e sociali nel Regno. L’Austria è un esperimento di mondo, scriveva Musil[36]: il Traumreich è un esperimento di Austria, che perciò deve essere collocato altrove, da un’altra parte. Un non luogo, eppure anche luogo geografico lontano dall’Occidente, dove letteralmente i sogni diventano realtà: una colonia.

Il romanzo di Kubin viene redatto in un tempo in cui, a seguito del grande movimento espansionistico europeo, cominciano a circolare importanti dibattiti sulle modalità e le conseguenze dell’imperialismo: nel 1908 in tutto il mondo si stanno discutendo, per esempio, le atrocità della Corona belga sulla popolazione del Congo, così come le ampiamente contestate ambizioni coloniali intraeuropee dell’impero asburgico in Bosnia Erzegovina, formalmente annessa proprio in quell’anno, le quali portano il continente e il mondo intero un passo più vicino al conflitto[37]. Perciò, benché la componente colonialista sia sicuramente la più dimenticata e sottovalutata sfumatura del mito, questo testo riflette parzialmente le discussioni reali che al tempo dell’autore la strategia narrativa e politica asburgica accendeva: l’Austria veniva raccontata come un impero coloniale, almeno in potenza. Essa aveva ampi progetti, che Walter Sauer svela nello studio k.u.k. kolonial (2002), tutti falliti in partenza. E poi c’era la Bosnia Erzegovina, l’unica vittoria coloniale asburgica. Se si considera colonia un luogo che subisce l’occupazione armata di una civiltà autoproclamatasi superiore e autolegittimatasi al dominio politico e culturale su di esso, nonché lo sfruttamento delle risorse naturali e umane per asservire i bisogni della madrepatria[38], ciò può corrispondere anche all’imparità nel rapporto fra centro e periferia tra i territori della Corona, in particolar modo rispecchiata nei territori bosniaci[39] che, a differenza delle altre regioni, non avevano nemmeno un organo politico che permettesse loro di far pesare la propria voce nel complesso sistema imperiale[40]. Terra con una grande presenza ortodossa e islamica, benché situata nel continente europeo, la Bosnia Erzegovina era la Porta Orientis dell’impero asburgico e questo fascino orientale le restituiva un’immagine ibrida, perciò facilmente manipolabile: l’Austria ha infatti esasperato le sfumature orientali della regione ed ha restituito al mondo l’immagine di sé come salvatrice di quel popolo dalla barbarie musulmana. Questa zona era stata visitata dall’autore in uno dei suoi viaggi a ridosso della stesura del romanzo, dove aveva potuto toccare con mano l’«Innere Exotismus»[41] di quelle zone, che può avergli suggerito l’idea per questa storia di nomi fantastici come fiabe d’Oriente, ma con vicoli puzzolenti e palazzi fatiscenti. Non è un caso che questo testo venga citato nello studio condotto da Clemens Ruthner dal titolo Habsburgs “Dark Continent” (2017), in cui si propongono letture postcoloniali di alcune opere prodotte nella civiltà asburgica del tempo del mito.

Sulla base di ciò, quello del narratore pare un viaggio alla scoperta non solo delle contraddizioni della civiltà austriaca, ma anche dei fantasmi asburgici di e dell’altro: interessante è per esempio la gerarchia etnica all’interno del Regno del Sogno, in cui i poveri e i malfattori, che abitano il cosiddetto quartiere francese – da cui parte la rivolta democratica di Bell – siano soprattutto slavi, ebrei e persone che parlano lingue romanze, coloro che corrispondevano all’altro periferico e che subiva trattamento di sfruttamento e razzismo coloniale nell’impero asburgico. L’idea stessa di costruire un regno cacciando tutti i nativi presenti, tranne un popolo scelto dagli occhi azzurri, suona come una pratica coloniale. Il tutto avviene traslato ad est, una moda per i narratori distopici di quegli anni, ma che dà ancor più credito alla teoria coloniale: un mondo in cui qualsiasi ricchissimo uomo occidentale può usurpare con facilità una terra e disegnare lì un altro tipo di società, sperimentale, addirittura onirica. Che onirico, inquieto, promiscuo ed Oriente siano sovrapposti, insieme a una certa Tiefsinnigkeit che Patera acquisisce solo dopo aver passato un po” di tempo con le tribù orientali, è infine uno dei tratti dell’orientalismo che Edward Said (2013) riconosce nel pensiero e nella plurisecolare narrazione occidentale sull’Oriente, di cui Alfred Kubin sembra essere un inconscio rappresentante.

Altre allusioni alla mentalità coloniale, che ancora permeava il mito asburgico e di conseguenza il Sogno, si trovano nei diffusi cliché sparsi nel testo: per esempio, il fiume che passa per la capitale viene chiamato «Negro»[42], nella lingua dei conquistadores, in questo senso un rimando storico – nonché biblico – all’usanza di dare il nome e così definire la proprietà sulle cose e sulla natura dei margini. Si osserva inoltre con particolare frequenza il riferimento alla copiosità della natura, che cresce così rigogliosa da dover essere tenuta sotto costante controllo, e a una sorta di sovrapposizione tra gli abitanti indigeni e gli animali. La presenza degli animali nel regno comincia in maniera comica, con la descrizione di una scimmia apprendista parrucchiere, ma a ciò segue un’esponenziale e apparentemente immotivata invasione di ogni genere di specie, con cui inizialmente si tenta di convivere ma contro la quale bisogna in seguito prendere seri provvedimenti: lo stesso americano, quando istiga il popolo alla ribellione, promette tra le altre cose la fine del degrado prodotto dagli animali infestanti. Si può leggere la situazione in termini metaforici come impossibilità di controllare la natura, reale impotenza umana che contraddice l’auto narrazione di dominatore di tutti esseri viventi – ulteriore smascheramento di un sogno, di un mito umano. Ma la corrispondenza tra esseri umani e animali, suggerita attraverso una terminologia animalesca atta a descrivere la fisionomia e le azioni di alcuni uomini, suggerisce l’idea che si tratti non di un’invasione, bensì di una riappropriazione della propria terra, istintiva e violenta, da parte della popolazione che la abitava precedentemente. Non a caso, a seguito della diffusione degli animali comincia la disgregazione di tutte le cose, l’inizio della fine del Regno, pressoché esplicito rimando allo sbriciolamento dell’impero asburgico. La ribellione degli animali ha i tratti, dunque, di una guerra coloniale, alla quale «È inutile ribellarsi»[43], come recita il titolo dell’illustrazione di Kubin scelta per la copertina dell’edizione italiana del romanzo[44], dato che è ormai evidente che gli animali, i nativi, o le etnie che la Corona ha oppresso per secoli, non possono essere sostituite ed estirpate. Né la natura né la storia lo permettono.

In breve, di questo Regno, che è mito realizzato, fa parte ogni componente del sogno austriaco, anche quella fallimentare coloniale. È possibile che Kubin re-immagini e modelli le idee coloniali della Kakania in questa forma fantasmatica, anche se è escluso che con questo riferimento all’Altra parte Kubin alluda alle reali colonie orientali, che esistevano solo nel sogno asburgico. Rimane il dubbio, comunque, che Kubin abbia scelto di localizzare la storia in Oriente non per criticare o canzonare un aspetto del mito poco conosciuto, ma per motivi dai presupposti orientalistici, volendo inscriverla in un luogo che fosse esattamente come la realtà occidentale, ma traslata, parallela, distorta: aveva bisogno che i fatti fossero quelli europei, presi e impiantati in un luogo diverso, come l’Est, come l’immaginazione, come l’inconscio. «Perle liegt auf dem gleichen Breitegrad wie München, aber das Klima ist derartig mild, daß sich selbst die nervösesten Menschen in kurzer Zeit außerordentlich wohl fühlen»[45]: stessa latitudine, ma più in là. Stesso impero ma altrove.

Veniamo infine alla questione del demiurgo. Allontanandosi dall’Europa è possibile costruire un regno come si vuole, asservire un territorio ai più assurdi esperimenti umani. Il modello sociale di Patera è potenzialmente perfetto e pacifico, come all’inizio del romanzo, potenzialmente degenerato e tossico, come alla fine: l’Altra parte è un luogo in potenza, paradisiaco o infernale a seconda di come l’uomo europeo sia capace di convivere con l’ambiente circostante, con la terra, con la natura. Secondo la lettura postasburgica, il sogno crolla per la sua impossibilità di esistere contro la storia, ma un’altra decisiva causa della fine è la rivolta delle forze naturali scaturite dalla follia dell’uomo, come l’invasione degli animali o il disgregamento di tutte le cose. In questa direzione si può leggere la fine del pater Patera come la vittoria della mater per eccellenza, Madre Natura, che in Kubin, specie nei suoi disegni, è «Madre divorante»[46]: in effetti, quando il Regno finisce non si trova più nulla, tutto è sprofondato, inghiottito dalla terra-forza, che l’uomo si illudeva di poter controllare in quanto forza ugualmente capace. Al contrario, non c’è progetto che l’uomo possa intraprendere senza che la natura lo segua a ruota, o meglio lo insegua nell’imaginatio kubiniana, rispondendo con la sua arma più efficace, l’evoluzione, e non venendo mai sconfitta. L’uomo, specie l’occidentale colonialista, tratta la terra come una pagina bianca da inscrivere a suo piacimento, ma la Terra è agens, è la controparte dell’uomo, die andere Seite della sua stessa storia, non un weißes Blatt. La terra costringe l’uomo a rimettersi in discussione, a ricominciare, a ricostruire dalle macerie. La morale di una storia che sembra la rappresentazione di un patriarcato totalizzante[47] è, in realtà, che «Der Demiurg ist ein Zwitter», il demiurgo è un ermafrodita – un’altra plausibile traduzione[48]: il demiurgo è Pater e Mater insieme. Come materia e antimateria, uomo e natura coesistono e si combattono eternamente, forze positive che creano, forze negative che fagocitano il creato, senza pace. In questa lettura, la storia di Kubin ricorda un romanzo scritto vent’anni dopo da un altro membro dell’ex periferia asburgica, Alfred Döblin, in cui la follia colonizzatrice dell’uomo sulla natura porta al risveglio di forze primigenie, i Giganten[49], che insieme e contro l’uomo distruggono e ricostruiscono, in un circolo senza fine. Questo breve romanzo, dal contenuto assurdo e dalla forma pulita e lineare, pone dunque le basi anche per considerazioni dai tratti estremamente contemporanei: ci si chiede se la presenza di questa tematica possa rispecchiare una sorta di coscienza ambientale diffusa tra i lungimiranti intellettuali dell’epoca delle macchine, dell’industrializzazione senza freno e delle prime guerre meccanizzate, con particolare sensibilità proprio nelle periferie che, nell’impero asburgico come altrove, da un lato avevano mantenuto un legame con la natura più intenso delle città, dall’altro tuttavia erano al ravvicinato cospetto dei danni che l’uomo stava apportando alla propria Madre Terra – visti gli investimenti delle grandi compagnie presso foreste o fonti d’acqua. Uno spunto che senz’altro merita ulteriori analisi.

La Madre è origine e fine, dà la vita e prepara la tomba come nel disegno di Kubin Das Ei[50]; l’uomo, che si trova in questo labirinto[51], anch’egli abitato da spirito vitale e creatore, non accetta di sottomettersi e conduce con essa una tragica lotta per la supremazia: la Madre è vita e morte, l’uomo è vita e morte. Si torna ad affrontare, dunque, la questione demiurgica iniziale e ci si ritrova così improvvisamente lontani dalla trama del libro, percependo, ora con chiarezza, che la voce cupa di quell’ultimo capitolo non appartiene al narratore, bensì all’autore, nel quale chiosa con quella che sembra la chiave di lettura di tutta la sua opera, nella quale oggi, in un’epoca di cambiamento climatico e di ricerca di nuove strategie di adattamento, si è tentati di leggere ulteriori profetici significati. Fatto che dà a un romanzo geniale e dimenticato un motivo in più per essere ripreso in mano.

Riferimenti

Albertazzi, Silvia (2013), La letteratura postcoloniale: dall’impero alla World Literature, Roma (Carocci).

Barthes, Roland (1974), Miti d’oggi, Torino (Einaudi).

Bienek, Horst (1962), “Nachwort”. In Kubin Alfred, Die andere Seite. Ein phantastischer Roman (1962), München (Dtv).

Cacciari, Massimo (1983), Kenosi del simbolo. In Nigro Alessandro (1983), Alfred Kubin profeta del tramonto, Roma (Officina Edizioni).

Döblin, Alfred (1924), Berge Meere und Giganten, Berlin (S. Fischer).

Döblin, Alfred (1932), Giganten. Ein Abenteuerbuch, Berlin (S. Fischer).

Franzos, Karl Emil (1888), Halb-Asien: Land und Leute des östlichen Europa, 5. Bde., Stuttgart (Bonz).

Hüchtker, Dietlind (2003), “Der ‘Mythos Galizien’. Versuch einer Historisierung”. In Müller Michael, & Rolf Petri, Die Nationalisierung von Grenzen. Zur Konstruktion nationaler Identität in sprachlich gemischten Grenzregionen (p. 81-108), Marburg (Herder Verlag)..

Kafka, Franz (2006), In der Strafkolonie. Text und Kommentar, Frankfurt am Main (Suhrkamp).

Kubin, Alfred (2010), Die andere Seite. Ein phantastischer Roman, Hamburg (Rowohlt).

Kubin, Alfred (1965), L’altra parte. Un romanzo fantastico, Milano (Adelphi).

Lourenço, Eduardo (2006), Il labirinto della saudade. Portogallo come destino, Reggio Emilia (Edizioni Diabasis).

Magris, Claudio (1996), Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino (Giulio Einaudi editore).

Musil, Robert (1913), Der mathematische Mensch. In Bettelheim Peter (Hg.), Janusköpfige Metropole (2011), Wien.

Roth, Joseph (2011), Die Kapuzinergruft, Köln (Anaconda).

Ruthner, Clemens (2017), Habsburgs “Dark Continent”. Postkoloniale Lektüren zur österreichischen Literatur und Kultur im langen 19. Jahrhundert, Tübingen (Narr Francke Attempto).

Said, Edward (2013), Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano (Feltrinelli).

Sauer, Walter (2002), k. u. k. Kolonial. Habsburgermonarchie und europäische Herrschaft in Afrika, Wien (Böhlau Verlag).

Staufe Simiginowicz, Ludwig Adolf (1884), Die Völkergruppen der Bukowina. Ethnographisch-culturhistorische Skizzen, Czernowitz (Verlag von H. Czopp).

 



[1] Cf. Fëdor Dostoevskij, Il sosia: romanzo, 1991, TEA, Milano. Georg Trakl , Offenbarung und Untergang: die Prosadichtungen, 1995, O. Müller, Salzburg. Franz Kafka, Ein Landarzt: kleine Erzählungen, 2003, Insel Verlag, Frankfurt am Main.

[2] Cf. Bienek (1962).

[3] Ruthner 2017, p. 179.

[4] Kubin 2010, p. 65.

[5] Kubin 2010, p. 192.

[6] Ibidem, p. 19.

[7] Ruthner 2017, p. 186.

[8] Kubin 2010, p. 121.

[9] Ibidem.

[10] Cf. Barthes 1974.

[11] Magris 1996, p. 15.

[12] Kubin 2010, p. 7.

[13] «An meine Völker!» (N.d.A).

[14] Kubin 2010, p. 144.

[15] Ibidem.

[16] Magris 1996, pp. 22-23.

[17] Ruthner 2017, p. 195.

[18] Kubin 2010, p. 104.

[19] Ibidem, p. 113.

[20] Kubin 2010, p. 117.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem, p. 9.

[23] Cf. Magris 1996.

[24] Ruthner 2017, pp. 176-177.

[25] Ibidem, p. 196.

[26] Kubin 2010, p. 144.

[27] Ibidem, p. 156.

[28] Ibidem, p. 147.

[29] Ruthner 2017, p. 186.

[30] Lourenço 2006, p. 9.

[31] Cf. Roth 2011. Nel romanzo, la Kapuzinergruft è luogo di sepoltura ma non di morte, anzi di vita nella memoria: è l’unico posto in tutta Vienna dove il vecchio imperatore ancora vive e l’unico posto dove il protagonista Trotta può sopravvivere a un presente insopportabilmente non asburgico (N.d.A).

[32] Kafka 2006, p. 42.

[33] Kubin, 1965, p. 70: «Il vero governo si trovava altrove».

[34] Kubin 2010, p. 112.

[35] Per una definizione di postcoloniale, cf. Albertazzi 2013.

[36] Cf. Musil 1913.

[37] Ruthner 2017, pp. 195-196.

[38] Cf. Said, 2013.

[39] Un trattamento che si può definire coloniale è riscontrabile in altre regioni orientali asburgiche. Di seguito l’esempio della Galizia: «Die Gesellschaft wurde in einer stereotypen Sozialstruktur wahrgenommen: agrarischer Großgrundbesitz, zumeist in der Hand des polnischen Adels, auf der einen und Armut auf der anderen Seite, bei den im Westen der Provinz polnischsprachigen und im Osten ukrainischsprachigen Bauern wie auch bei den jüdischen Dorfhandwerkern, Pächtern von Schenken und Kleinhandeltreibenden. Aus dieser Sozialstruktur wurde eine besondere Reformbedürftigkeit der Provinz abgeleitet. Dass mit der Teilung Polens die alten Handelsverbindungen durch neue Grenzziehungen gekappt wurden, der habsburgische Staat aber kaum neue Gewerbestrukturen förderte, sondern Galizien als Rohstoff- und Rekrutenlieferant sowie Absatzgebiet für gewerbliche Waren, nachgerade wie eine Kolonie behandelte, spielte dem gegenüber kaum eine Rolle». Hüchtker 2003, p. 81.

[40] Ruthner 2017, p. 227.

[41] Ibidem, p. 196.

[42] Kubin 2010, p. 39.

[43] Kubin Alfred, È inutile ribellarsi!, Graphische Sammlung Albertina, Wien.

[44] L’altra parte. Un romanzo fantastico, 1965, Milano (Adelphi).

[45] Kubin 2010, p. 19.

[46] Cacciari 1983, P. 13.

[47] Ruthner 2017, p. 185.

[48] Traduzione non riscontrata in alcuna edizione italiana consultata (N.d.A.).

[49] Döblin 1924, Berge Meere und Giganten, successivamente modificato e ripubblicato sotto il seguente titolo: Döblin 1932, Giganten. Ein Abenteuerbuch.

[50] Alfred Kubin, 1900 ca., Das Ei, Vienna, Albertina.

[51] Cacciari 1983, pp. 14-17.