Erika Capovilla

(Udine)

«Freilich ist Freundschaft wahre Heimat»
Il carteggio di Stefan Zweig e Joseph Roth come patria spirituale

[«Friendship is indeed true homeland»
The correspondence between Stefan Zweig and Joseph Roth as spiritual homeland]

abstract. This article attempts to explore the intimate yet complicated friendship between Stefan Zweig and Joseph Roth through their exchange of letters. Their personal correspondence has always been regarded as a valuable resource for interpreting their works and for documenting the life of intellectuals during the National Socialist period. However, the relevance of their correspondence does not lie only in its literary and historical testimony, since it is also strictly related to its auto/biographical aspects. Adopting this perspective, the article offers a reading of the letters both as an autobiographical portrait of Zweig and Roth and as a distant narrative of their friendship, conceived as the only possible homeland for the two writers in exile.

I. Introduzione

L’amicizia tra Stefan Zweig (1881-1942) e Joseph Roth (1894-1939) ha pochi eguali nella storia della letteratura del Novecento. Tutta l’intensità di questo rapporto, che sembra travalicare l’ambito meramente relazionale per assumere quasi un’identità spaziale laddove viene definita «wahre Heimat»[1], ben sintetizza i contorni offuscati e al contempo pressoché sconfinati di una connessione intima, complicata, viscerale e a tratti morbosa, ma che proprio per questo risulta meritevole di attenzione. Suggello letterario di questo rapporto sui generis è il carteggio di Zweig e Roth, una raccolta di oltre duecento lettere e cartoline che i due scrittori hanno intrattenuto nell’arco di più di un decennio (1927-1938). L’unicità dello scambio epistolare, che nulla ha da invidiare alle più maestose opere artistiche in quanto a pathos e valore letterario, era già stata captata da Hermann Kesten, loro amico e collega, al quale si deve la curatela della prima edizione del carteggio, pubblicato nel 1970 presso Kiepenheuer & Witsch[2]. Pur essendo stato un decisivo trampolino di lancio per l’analisi della corrispondenza, la raccolta risultava ancora parziale e per alcuni aspetti lacunosa; il compito è stato dunque successivamente ripreso da Madeleine Rietra e Reiner-Joachim Siegel, i quali si sono impegnati a raccogliere e commentare tutte le lettere, i telegrammi e le cartoline pervenute, corredandole di un imponente apparato notulare: l’esito di questo lungo e minuzioso lavoro di ricerca si concretizza nella prima edizione completa della corrispondenza tra Zweig e Roth, pubblicata con il titolo Jede Freundschaft mit mir ist verderblich. Briefwechsel 1927-1938 presso la casa editrice Wallstein nel 2011, ben settantatré anni dopo l’ultima lettera registrata. La postfazione, firmata da Heinz Lunzer, orienta l’interpretazione del carteggio verso una triplice direzione: poetologica, quale chiave di lettura privilegiata per l’œuvre dei due autori; storico-politica, in quanto testimonianza diretta della vita degli intellettuali durante il nazionalsocialismo; auto/biografica, come finestra sulla vita privata dei due corrispondenti. Benché i primi due orientamenti esegetici – finora privilegiati dalla critica[3] – siano tutt’altro che trascurabili, il presente contributo si propone di mettere in luce in particolar modo il valore auto/biografico dello scambio epistolare, spesso lasciato in ombra dagli studiosi. Una volta dimostrata l’appartenenza del carteggio alla scrittura autobiografica (autobiographisches Schreiben), si metterà in evidenza come queste lettere siano da un lato autoritratto, secondo l’antico topos dell’epistola come imago animi e, dunque, forma di auto-rappresentazione per antonomasia, dall’altro racconto di un’amicizia (amicorum colloquia abesentium), quindi chiave privilegiata per comprendere la natura e l’evoluzione del loro rapporto. In questo dialogo scritto a distanza trasparirà così, dietro al ruolo di letterati e intellettuali, in filigrana soprattutto l’individualità di Zweig e Roth e, di conseguenza, una Künstlerfreundschaft “umana, troppo umana”.

II. Il valore autobiografico della corrispondenza

Sie sind klug. Ich bin es nicht. Aber ich sehe, was Sie nicht sehen können, weil Ihre Klugheit eben Ihnen erspart, zu sehen. Sie haben die Gnade der Vernunft und ich die des Unglücks.[4]

Joseph Roth sorseggia un bicchierino di Pernod e osserva la minuziosa esposizione scritta dei propri obblighi contrattuali[5]. Iniziata tre giorni prima e stilata con l’aiuto dell’amico Hermann Kesten, la lista è indirizzata a Stefan Zweig e da egli espressamente richiesta al fine di poter aiutare l’amico a gestire la sua traballante situazione finanziaria: «Sie müssen selbst mit einem Freund wie Kesten zunächst einen Rangierungsplan ausarbeiten, ganz ehrlich, ganz klar. Eine Tabelle aller ihrer Verlagsverpflichtungen grafisch übersichtlich anlegen, damit ich mit Huebsch hier alles durchsehen kann»[6], lo aveva infatti esortato lo scrittore viennese. Stranamente, Roth questa volta ne accoglie il consiglio, ma la sua natura istintiva, esacerbata dall’ennesimo bicchierino ingollato sotto il sole della riviera francese, gli impedisce di trattenersi dal manifestare al suo confidente anche tutta la propria amarezza: «mit größter Anstrengung, in höchster Aufregung»[7], con matite colorate Roth incide quindi su carta la rabbia per l’apparentemente spiccio giudizio morale di Zweig nei propri confronti. Forte del «Recht des Freundes»[8] che gli conferisce il diritto alla sincerità e persuaso che il proprio momentaneo stato di ubriachezza non intacchi le capacità logiche[9], lamenta che il suo destinatario si ostini a dispensare consigli senza comprendere realmente il suo stato d’animo. A tal proposito, con la contorta lucidità che solo una mente geniale in uno stato di prostrazione può manifestare, emette la sopraccitata sentenza[10], che condensa in poche righe tutto il senso del suo rapporto con Zweig: due anime opposte e complementari, l’una benedetta da un’ingenua “razionalità”, l’altra condannata da una lungimirante “sfortuna”. È il 21 luglio 1934 e Joseph Roth contempla il suggestivo panorama della Costa Azzurra dalla sua casa di Nizza, presa in affitto da poche settimane insieme alla compagna Andrea Manga Bell e agli amici Hermann Kesten e Heinrich Mann. Nella riviera francese lo scrittore galiziano sosterà per un anno di riposo, che verrà tuttavia costantemente interrotto dal tormento dei propri demoni interiori. Roth fa così fluire liberamente su carta i suoi amari sentimenti, in ossimorico contrasto con la dolcezza della giornata estiva, per poi stiparli all’interno di una busta, inviandola per espresso il medesimo giorno, tale è la foga che essi possano trovare un destinatario. L’indirizzo del ricevente è Portland Place, 11, Londra, dove l’amico Stefan Zweig si trova, suo malgrado, in esilio volontario. In terra inglese lo scrittore austriaco sta pazientemente tentando di ricomporre i frammenti della propria esistenza, il sogno di una vita votata all’umanesimo erasmico di stampo cosmopolita e pacifista, presto infranto dall’irrompere di una realtà storica dai tratti nazionalistici e bellicosi. Una realtà, questa, che aveva già colpito numerosi altri artisti ma dalla quale l’ingenuo sguardo limpido di Zweig era quasi riuscito, più o meno inconsciamente, a distaccarsi. Ma tanto più è profondo il sonno, quanto più violento è il risveglio, quando il 9 febbraio di quello stesso anno la sua villa salisburghese sul Kapuzinerberg, da anni punto nevralgico della vita intellettuale austriaca, subisce una perquisizione delle SS, chiaro ammonimento da parte del regime. Così come era accaduto quattro secoli prima per il suo alter-ego storico Erasmo[11], che da una Basilea dagli aggressivi ferventi riformisti aveva riparato a Friburgo, allo stesso modo Zweig si accomiata per sempre dall’Austria e cerca rifugio nella più neutrale Inghilterra. Quel 21 luglio 1934 Zweig si trova dunque nella sua abitazione londinese, intrappolato in un complesso triangolo amoroso tra la moglie e migliore amica Friderike e la remissiva e devota segretaria Lotte, quando rimuove il sigillo dalla lettera di Roth e, come da copione, viene colpito dal vortice di risentimento e acredine in essa stipato. Benché turbato dall’asprezza dei rimproveri, si accinge a rispondere con l’usuale equilibrata mitezza, proprio come l’Erasmo della sua biografia storica appena pubblicata nella prima edizione dalla Herbert Reichner di Vienna.

È questo un frammento della sceneggiatura di una Künstlerfreundschaft che, come ricorda Arturo Larcati, è una delle più celebri dell’epoca non soltanto dal punto di vista storico e letterario, ma anche sul piano umano[12]. All’interno di questo denso copione, che vede come sfondo uno dei periodi più tragici della storia europea, Zweig e Roth ricoprono il critico ruolo di scrittori e intellettuali ebrei durante il nazionalsocialismo, mettendo inconsapevolmente in scena un vero e proprio «dramma dell’esilio»[13]. Ma è, paradossalmente, proprio nel momento in cui cala il sipario e gli attori si tolgono la maschera, rivelandosi in tutta la loro umanità – come nel passo sopra riportato – che il dramma acquisisce particolare pregio, divenendo un autentico documento autobiografico in forma epistolare.

Presupposto teorico sotteso alla lettura del carteggio in questa prospettiva è evidentemente la relazione tra due generi letterari – quello autobiografico e quello epistolare – portanti un elevato grado di complessità. La genericità della classificazione tassonomica della lettera quale «eine an einen abwesenden Empfänger adressierte schriftliche Mitteilung»[14] apre infatti la strada a una serie di quesiti pertinenti la natura concreta di tale forma di comunicazione scritta; allo stesso modo, nessuna formulazione dell’autobiografia – neanche la più generica, ancorata alla sua stessa etimologia («die Beschreibung (graphia) des Lebens (bios) eines Einzelnen durch diesen selbst (auto[15]) – sembra conforme a riflettere l’ibridismo di questa categoria letteraria camaleontica e potenzialmente inesauribile, che racchiude in sé un inverosimile ventaglio di modalità rappresentative[16]. Se questi generi letterari costituiscono dunque già singolarmente una crux desperationis per la teoria letteraria, si può ben comprendere quanto controversa e problematica possa risultare l’ascrizione della lettera al genere autobiografico. Per questo motivo si ritiene qui necessario circoscrivere il campo d’indagine al Privatbrief in ambito epistolografico e allo autobiographisches Schreiben in ambito autobiografico, precisando che la relazione ricercata si svolgerà entro questi due perimetri teorici dai confini, benché non ancora del tutto definiti, se non altro un po’ meno equivoci. Con il termine Privatbrief si intende infatti la lettera privata di stampo ciceroniano[17], indirizzata a un individuo o gruppo reale e storico[18], che si contrappone alla lettera aperta[19] di stampo pliniano[20], dove la risonanza della comunicazione non è rivolta unicamente al destinatario esplicitamente dichiarato e il valore della notizia non si esaurisce nella mera informazione scritta. Per quanto riguarda invece l’ambito autobiografico, il termine autobiographisches Schreiben[21] è da ricondurre a quel ramo della tradizione inaugurato da Philippe Lejeune ne Il patto autobiografico (1975)[22] che mette in essere una distinzione tra l’“autobiografia” in senso stretto (il «racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità»[23]) e lo “scritto autobiografico”. Quest’ultima espressione designerebbe, secondo Lejeune, una particolare tipologia di testi che, sebbene ascrivibili all’orbita autobiografica, non possono essere assimilati all’autobiografia “pura”, non soddisfacendo i criteri individuati come sue condizioni fondamentali[24]. Benché gli studi più recenti abbiano ampiamente dimostrato l’eccessiva rigidità di tale categorizzazione, essa ha costituito per lungo tempo la bussola per gli studi sul genere[25] e appare in questo caso funzionale a mettere in luce come il “genere autobiografico” rappresenti un iperonimo ospitante al proprio interno diversi generi limitrofi e «forme ibride»[26], come diari, racconti di viaggio, poesie autobiografiche, romanzi autobiografici e, appunto, lettere. Le tracce di una possibile correlazione tra i due ambiti sarebbero da rintracciare, secondo Gianluca Genovese, già in epoca rinascimentale e, nello specifico, nel libro di lettere cinquecentesco, definito quale «un prodromo tra i più significativi dell’autobiografia moderna»[27]. Adducendo l’esempio di Petrarca il quale, nell’ultima delle Familiares, orienta chiaramente verso un’interpretazione autobiografica della propria raccolta (strutturata secondo un ordine cronologico), Genovese sembra però suggerire che la continuità dei due generi si possa ravvisare a partire da epoche ben precedenti. L’ipotesi trova conferma anche in Antognini, la quale, nella sua indagine della raccolta epistolare petrarchesca nell’ottica autobiografica, mette in luce che «l’atto di raccogliere delle lettere per raccontare la storia della propria vita è veramente senza precedenti»[28]. Le indagini sul Privatbrief come tipologia testuale orbitante attorno all’asse autobiografico in ambito tedescofono risalgono invece a metà Novecento, in concomitanza con i primi studi sul genere. In Begriff und Ursprung der Autobiographie, Misch annovera infatti anche la lettera tra la multiformità delle sembianze dell’autobiografia[29]. Sulla medesima linea si pone anche Müller, laddove sostiene: «In der Bindung an den persönlichen Lebenskontext des Schreibers ist der Brief der Autobiographie verwandt»[30]. Heinze si dimostra ancora piuttosto tiepido in tal senso, nel momento in cui mostra delle chiare riserve circa l’applicazione arbitraria del termine “autobiografia” a qualsiasi tipo di formato narrativo autoreferenziale[31]; ciononostante include anch’egli le lettere tra le diverse forme autobiografiche[32]. Tale direttrice teorica viene poi ripresa e calata in specifici casi-studio, nei quali si mira a dimostrare che una determinata tipologia di lettera assume le sembianze di uno scritto autobiografico. È questo ad esempio il caso dello studio di Kleinschmidt il quale, indagando l’aspetto autobiografico all’interno della Exilliteratur, riconosce tra le sue diverse manifestazioni – insieme alla forma diaristica e al racconto documentario – anche la lettera[33]. Nella letteratura dell’esilio l’epistola diventa infatti, a detta di Kleinschmidt, una delle «Schreiblösungen autobiographischer Natur»[34] in quanto «eine jeweils aktuelle Ereigniswelt des Exils wird dabei deskriptiv aus der subjektiven Sicht des Schreibers dargestellt»[35].

III. Il carteggio come autoritratto

La legittima appartenenza del genere epistolare in alcune sue particolari forme a quello autobiografico è fortemente ancorata all’idea dello Ich Bezug (mittente) quale centro nevralgico della comunicazione. Sebbene la presenza di uno Ich-Schreiber non sia certo una novità in ambito letterario, nella maggioranza dei casi nel Privatbrief esso non svolge meramente la funzione di autore/mittente, ma anche di narratore e di protagonista del racconto epistolare stesso, avvicinandosi così all’idea del “patto autobiografico” lejeuniano. Nella comunicazione epistolare privata l’io è infatti libero di esporsi, di esprimere compiutamente e nelle forme che ritiene più adeguate la propria soggettività. La lettera diviene così «Medium subjektiver Gefühlsäußerung»[36], facendosi «prägnanten Ausdruck der Selbst-Bewusstseins»[37] e «Vehikel der Selbstbekundung, der Selbstdarstellung oder auch der Selbstbetrachtung und Selbstdeutung»[38], strumento attraverso il quale l’individualità dipinge se stessa su carta, auto-motivandosi. L’urgenza di questo slancio espressivo risulta talvolta talmente stringente da affiorare non solo laddove il soggetto incentra la comunicazione sulla propria interiorità, come nel caso dei Briefe an einen jungen Dichter rilkiani (1929)[39], ma persino quando aspira con ogni sua fibra all’oggettività – una tendenza che, secondo Rainer Maria Rilke, sarebbe intrinseca al genere epistolare stesso[40] che, per sua natura, induce alla “tentazione della soggettività’[41]. Ed è proprio a questo antico topos della lettera come imago e speculum animi che il carteggio di Zweig e Roth sembra tendere, nel momento in cui i due artisti, parlando di ciò che è a loro più caro, si auto-definiscono, affermando la propria identità come uomini e come letterati.

Proprio in virtù della loro comune professione, uno dei leitmotiv fondamentali della corrispondenza è la tematica letteraria[42], che si inaugura già a partire dalla prima lettera nota, inviata da Roth a Zweig e risalente all’8 settembre 1927. Nell’epistola, concisa ma accurata, un Roth ancora trentatreenne si rivolge al quarantaseienne Zweig per ringraziarlo del commento positivo riservato al proprio saggio Juden auf Wanderschaft:

Sehr verehrter Stefan Zweig,
ich fühle mich tief und kaum entschuldbar lange Zeit in Ihrer Schuld. Sie haben mir herzliche Worte über mein Judenbuch gesagt. Ich danke Ihnen herzlich.[43]

Manifestandosi dunque fin dal principio, il dialogo letterario costituisce l’ossatura del carteggio e si esplica su diversi fronti. Discussioni riguardanti questioni editoriali, recensioni reciproche e confronti relativi a tematiche significative per gli autori si susseguono ininterrottamente e costituiscono un punto di partenza fondamentale per qualunque discorso critico riguardante Zweig e Roth. Particolarmente rilevante risulta a tal proposito non soltanto il contenuto, ma anche la forma che assumono le innumerevoli recensioni reciproche, le quali suggeriscono già tratti decisivi della personalità degli scrittori. Tali confronti si traducono infatti, per quanto riguarda Zweig verso Roth, specialmente in parole di elogio e consigli delicati e amichevoli, mentre per quanto riguarda Roth nei confronti di Zweig in puntualizzazioni più critiche che sfociano talvolta in aspre correzioni. Il 25 settembre 1930 lo scrittore galiziano dedica diverse pagine alla recensione di Mes­mer[44] e, pur fornendo un giudizio complessivamente positivo, ne commenta la stampa in questi termini: «Dazu ist dieser Abdruck besonders schlecht und voller Fehler»[45]; Roth accompagna quindi il proprio giudizio con puntuali postille, proponendo ad esempio di alleggerire i periodi e rendere il tono più delicato, ammonendo verso un abuso del linguaggio teorico-metaforico[46] e invitando l’amico a modificare la parte iniziale del saggio, giudicata eccessivamente pesante. Non appena ha il piacere di leggere la parte iniziale dell’Erasmo nella Freie Presse, il 27 dicembre 1933 Roth informa immediatamente il suo autore tramite un’epistola della presenza di «ein paar störende Kleinigkeiten»[47]. Pur non mancando di esprimere all’amico anche il proprio gradimento (come confermano le parole di venerazione riservate alla stessa opera in una lettera del 10 agosto 1934[48] o al ritratto di Stendhal contenuto in Sternstunden der Menschheit in un’epistola del 10 giugno 1928[49]) Roth si dimostra sovente fortemente critico, esponendo come egli stesso avrebbe trattato alcuni passaggi. Dei sentimenti di Zweig circa queste osservazioni non è data esplicita testimonianza ma, considerata la sua venerazione verso l’artista galiziano, si può ragionevolmente pensare che non ne risulti offeso. A indicare ciò vi è ad esempio il desiderio, testimoniato da un’epistola del giugno del 1936, di avere Roth al proprio fianco come «literarisches Gewissen»[50] durante il suo soggiorno estivo a Ostenda, riferendosi in particolare alla volontà di un confronto sulla bozza della leggenda Der begrabene Leuchter. È quindi probabile che Zweig, di disposizione generalmente collaborativa e aperta al dialogo, ritenga preziose le osservazioni dell’amico, la cui «Kunst des pointierten Schreibens»[51] ritiene a dir poco geniale. Discorrendo di “poesia”, i due corrispondenti raccontano pertanto la loro “verità” – una “verità” che si discosta sempre più dall’idea di Wirklichkeit come realtà oggettiva ed esternamente documentabile per accostarsi invece maggiormente a quella di Wahrheit, intesa come autenticità individuale del soggetto narrante[52]. In un mondo, come quello novecentesco, dove la consapevolezza centenaria di un Io ragionevole e razionale si disintegra di fronte alle tragedie della storia, una Wirklichkeit che si compone di atroci barbarie non è più in grado di restituire la realtà del panorama interiore del soggetto, il quale non può che attingere unicamente alla propria intimità per auto-esplicarsi. È così che, lettera dopo lettera, il materiale autobiografico viene plasmato in documento umano[53], nel momento in cui vanno delineandosi tra le pagine i profili di due artisti che, pur nella consonanza del loro tracciato storico e culturale, sono così diversi da risultare quasi come opposti compatibili, ognuno il contrappunto dell’altro. L’uno, Zweig, rigoroso e misurato, gode dei frutti del proprio successo milionario con moderazione e parsimonia, non privandosi dei beni necessari e di taluni sfizi ma perennemente attento a non cedere all’ostentazione; l’altro, Roth, vizioso e scialacquatore, non può far altro che condurre una vita sregolata, in un percorso in cui il denaro, ancora prima di essere intascato, è già stato dissipato in lussuose camere d’albergo e smodate bevute al bar; l’uno venera la dea Ragione, ricercando l’equilibrio e il “giusto mezzo”; l’altro si fa guidare dall’istinto, precipitando sovente in un vortice di autodistruzione; l’uno, generoso, magnanimo ed altruista, tenta di comprendere le ragioni di qualsiasi comportamento dell’amico e si dimostra continuamente pronto a tendergli una mano; l’altro, spesso denotando un atteggiamento solipsista e auto-referenziale, è invece sempre pronto a chiedere una mano, divenendo talvolta stressante ed opprimente; l’uno concede spazio, l’altro prende spazio; l’uno, di natura mite, pacifica e conciliante, padroneggia l’arte del compromesso, muovendosi cauto e prudente, col rischio che questa naturale remissività venga tacciata di codardia; l’altro, dall’indole irrequieta, impaziente ed impulsiva, tende spesso all’esagerazione, all’eccesso, risultando drastico ma altrettanto energico e combattivo nelle proprie convinzioni; l’uno tende all’escapismo, l’altro all’assunzione di tutto il peso della responsabilità sociale; l’uno è un teorico, un umanista il cui idealismo corrisponde spesso ad un’ingenuità quasi incomprensibile; l’altro è lungimirante, acuto, pragmatico; l’uno si accomiata infine dalla vita sconsolato e rassegnato; l’altro muore angosciato e disperato.

Particolarmente eloquente risulta questa antinomia caratteriale in campo politico, ove il differente temperamento che anima i due intellettuali emerge con maggior prepotenza: Roth prende atto fin da subito del pericolo che la volontà di potenza tedesca costituisce per lo spirito europeo, come affermato in un’epistola del 23 ottobre 1930, dove descrive con tratti inquietanti l’Europa come un cadavere che si suicida in un processo psicotico:

Europa begeht Selbstmord, und die langsame und grausame Art dieses Selbstmordes kommt daher, daß es eine Leiche ist, die Selbstmord begeht. Dieser Untergang hat eine verteufelte Ähnlichkeit mit einer Psychose. So sieht der Selbstmord eines Psychotischen aus.[54]

I macabri presentimenti dello scrittore divengono ben presto realtà e, in una celebre lettera risalente a poche settimane dopo la salita al potere di Hitler, dipinge uno scenario apocalittico, dove è convinto non vi sia più alcuna prospettiva né di felicità individuale né tantomeno di carriera per qualsiasi artista di origine ebraica:

Inzwischen wird es Ihnen klar, daß wir großen Katastrophen zutreiben. Abgesehen von den privaten – unsere literarische und materielle Existenz ist ja vernichtet – fuhrt das Ganze zu neuem Krieg. Ich gebe keine Heller mehr für unser Leben. Es ist gelungen, die Barbarei regieren zu lassen. Machen Sie sich keine Illusionen. Die Hölle regiert![55]

La minaccia costituita dalla «Hitlerei»[56] verso gli artisti sarà da Roth ribadita più e più volte, laddove realizza che le loro opere artistiche sono incompatibili con il regime[57]; egli ammonisce così l’amico circa la sua condizione precaria, sostenendo che l’appellativo «Weltdichter»[58] attribuitogli dai nazionalsocialisti assuma tinte tutt’altro che elogiative. Già preconizzando una disumanizzazione dell’individuo[59], avulso da qualsiasi sentimento di empatia verso i propri simili, Roth comprende che con la ferocia nazionalsocialista non si può trattare[60]. La sua disillusione sfocerà nella languida sentenza del 28 aprile 1933:

Aber es ist ganz finster – in der Welt und auch für uns, Individuen. Wir haben Alle die Welt überschätzt: selbst ich, der ich zum absoluten Pessimistischen gehöre. Die Welt ist sehr, sehr dumm, bestialisch.[61]

Zweig, da sempre più idealista e visionario, registra con partecipazione le analisi dell’amico, ritenendole però in cuor suo forse un po’ eccessive: reputando ingenuamente che l’umanità abbia già toccato il fondo con la barbarie della prima guerra mondiale, egli confida nella ragione umana, ritenendo quella nazionalsocialista una mera parentesi. Ancor meno a rischio sarebbe stata, secondo i suoi calcoli, la propria posizione in quanto letterato apolitico: dedicandosi unicamente alla propria scrittura e isolandosi nella sua personale bolla letteraria, Zweig auspica di non venire sfiorato in alcun modo dalle politiche culturali del regime. Il drammatico risveglio avverrà solamente nel 1934 con la perquisizione della sua villa salisburghese, che segna la sua metaforica presa di coscienza del punto di non ritorno. Anche nel ruolo di portavoce dell’inquietudine e dell’afflizione che accomuna gli intellettuali dell’epoca, affiora dunque implicitamente l’impronta individuale di Zweig e Roth, laddove l’uno impone al proprio tormento un sommesso silenzio, mentre l’altro lo amplifica in un grido esasperato.

IV. Il carteggio come racconto di un’amicizia

Presupposto fondamentale per l’affermazione di questa loro individualità risulta, paradossalmente, proprio la presenza di un interlocutore, di un ricevente per il messaggio. In virtù della sua imprescindibile Soziabilität, intesa come la capacità dell’individuo di instaurare rapporti interpersonali, ogni Ich-Bezug sembra necessariamente richiedere un Du-Bezug (destinatario), poiché è solo attraverso l’incontro/scontro con l’alterità che è in grado di negoziare – e di conseguenza di stabilire – la propria identità. In questo senso, sottolinea Bürgel, la lettera si pone come «Beziehungsträger»[62], ponte «zwischen einem Ich und der Beziehung zwischen diesem Ich und einem anderen Ich»[63] divenendo «nicht nur Abdruck der Individualität, vielmehr auch der Sozialität»[64]. Diretta conseguenza di tali considerazioni è il respiro dialogico della lettera che, in quanto «persönlicher Anspruch der persönlicher Antwort erwartet»[65], si fa vero e proprio Gespräch[66]. Il paradigma ciceroniano dell’epistola come amicorum colloquia absentium (Cicerone, II Filipp. ) viene esaltata in ambito umanistico[67], radicalizzata nella Romantik e portata poi avanti nel XIV e XX secolo da Flaubert, Fontane e Hofmannsthal[68], fino a trovare la sua sublimazione in Rilke, i cui già citati Briefe an einen jungen Dichter si aprono sovente con lunghi passaggi dallo stampo dialogico concernenti materia privata[69]. Conformemente a questa lunga tradizione, il destinatario del carteggio tra Zweig e Roth emerge generalmente in un rapporto di reciprocità, nel momento in cui Zweig riconosce come proprio iniziale e finale interlocutore Roth, e viceversa. La scrittura si fa quindi dialogo, l’esposizione diviene confronto; le voci dei protagonisti si intrecciano formando un racconto corale di natura genuina, ove il messaggio talvolta giunge a destinazione, altre volte si incaglia e cade nel vuoto, come in una reale conversazione. E, proprio come in un autentico colloquio vi è quasi sempre un parlante che monopolizza il discorso, allo stesso modo all’interno del carteggio la presenza di Roth si avverte fin da subito come preponderante, quasi egemonica. Tale impressione è legata non solo all’evidente maggior quantità delle sue lettere[70], ma anche e soprattutto ai contenuti: non appena il giovane scrittore galiziano prende confidenza con il suo interlocutore, sente l’urgenza di condividere con lui ogni sua minima turba psichica, in un vortice di egotismo che sembra talvolta fagocitare la presenza di Zweig, il quale appare spesso come un mero contrappunto. Quest’ultimo, dal canto suo, non sembra turbato dall’unidirezionalità del discorso, accettando con condiscendenza il proprio ruolo, orientando la corrispondenza prevalentemente alla risposta e concedendo molto meno sovente una finestra sulla propria vita privata.

L’osservazione così precisa delle suddette dinamiche è stata resa possibile grazie alla natura stessa del carteggio, e in particolare da tre fattori essenziali: la copiosità delle lettere (quelle attestate ammontano al momento a 268), la natura delle tematiche affrontate (che spaziano dal contesto socio-politico e la dimensione letteraria fino alla sfera più marcatamente privata) e l’ampiezza dell’arco temporale che ricoprono (tra la prima lettera attestata – quella di Roth a Zweig dell’8 settembre 1927 – all’ultima – di Zweig a Roth del 17 dicembre 1938 – trascorrono ben undici anni). Da questo temporalesco panorama storico-sociale i due artisti trovano riparo in un rapporto che, iniziato dapprima come “platonico”, assume tinte sempre più vive, colorite e sincere, si suggella in una Seelenverwandtschaft, per poi naufragare lentamente fino ad inabissarsi in una relazione che vive principalmente di ricordi. Il tracciato di questo percorso, suggestivo e altrettanto tortuoso, ben si delinea attraverso l’analisi di tre parametri principali della corrispondenza: la frequenza delle lettere[71] (l’assiduità della corrispondenza), le tematiche trattate (più o meno personali) e la variazione dello stile (inteso come grado di formalità e confidenza). Tratteggiando uno schema sommario, dalla considerazione di questi tre indicatori si può riscontrare un andamento piramidale del rapporto, che si articola in tre momenti principali.

Il sentimento che governa all’inizio è di distante cordialità, come si può evincere dalla tutt’altro che assidua frequenza della corrispondenza, così come dalle tematiche affrontate, ancora piuttosto neutre, incentrate prevalentemente sulla letteratura e sulle esperienze più superficiali della vita degli autori; a conferma di ciò anche il grado di formalità risulta alquanto elevato, con epistole che si aprono con formule altamente convenzionali («sehr verehrter Herr Zweig»[72]) e si concludono con riguardosi commiati («mit herzlichem Dank und Gruß»[73]; «ich begrüße Sie mit herzlicher Dankbarkeit»[74]; «mit hochachtungsvollen Grüßen»[75]). Al momento dell’inizio della corrispondenza, l’8 settembre 1927, il trentatreenne Roth è infatti un giornalista ormai stimato e affermato ma deve ancora suggellare compiutamente la sua carriera di scrittore, mentre Zweig, quarantaseienne, si trova già all’apice del successo e della popolarità. Il rapporto tra i due è dunque distaccato ma fondato su una reciproca stima, quella di un giovane che guarda con rispetto verso una semi-leggenda e di un autore affermato che scorge il potenziale di genialità in uno scrittore ancora emergente. Intenso fin da subito è il desiderio di incontrarsi personalmente, come si confidano più volte durante il loro scambio («dabei habe ich die leise Hoffnung, daß der Zufall unser Zusammentreffen begünstigen könnte»[76]; «lassen Sie mich Ihnen noch einmal sagen, daß ich mich sehne, zu Ihnen in eine Vis a vis-Beziehung zu kommen»[77]). È il 13 maggio del 1929 quando avviene il loro primo, tanto atteso incontro a Salisburgo, a testimonianza del quale Zweig scriverà alla moglie: «heute ist Josef Roth zu Tisch, sehr angenehm, klug und interessant»[78]. Pochi giorni dopo, il 24 maggio, Roth confesserà grato all’amico: «es war sehr gut, Sie zu sehen und ich hoffe: auch von Ihnen gesehen zu werden»[79].

A questo incontro ne seguiranno diversi altri, desiderati e pianificati: nelle lettere i due “nomadi” si informano reciprocamente dei propri piani di viaggio, tentando di capire come incastrare i reciproci impegni per riuscire a passeggiare insieme a Parigi o a discutere dei propri progetti letterari a Salisburgo. Mese dopo mese, anno dopo anno, l’amicizia si fa più salda, l’affetto più forte, in un crescendo di confidenza che è ben testimoniato dalle lettere: la frequenza della corrispondenza è sempre più alta e gli scrittori non indietreggiano rispetto a tematiche spinose o private, discutendo ampiamente del contesto socio-politico e confidandosi dolori e turbamenti. Roth, in particolare, tramuta sovente le lettere in una puntuale cronaca del proprio stato di miseria, laddove confessa all’amico di sentirsi un fardello per se stesso e di avere bisogno di aiuto («daß ich mir seit Jahren eine Pflicht und manchmal eine unerträgliche Last bin»[80]; «Ich selbst bin eine Klagemauer, ein Trümmerhaufen»[81]; «Ich bin völlig ruiniert. Ich kann nicht essen und nicht schlafen»[82]; «Ich sinke buchstäblich von Stufe zu Stufe»[83]; «Ich habe nichts mehr zu verlieren. Ich bin in höchster Not»[84]). Lo scrittore galiziano in questi anni è effettivamente vittima di una duplice disfatta esistenziale: da una parte il crollo del Mito Asburgico e la salita al potere dei nazionalsocialisti, che lo spingerà all’esilio; dall’altra il naufragio del proprio matrimonio con Friederike Reichler la quale, a partire dal 1926, inizia a mostrare i primi segni di instabilità mentale. L’antidoto a questa condizione di oggettiva difficoltà viene trovato nell’alcool, che si dimostrerà tuttavia ben presto una crescente dipendenza – mai realmente esplicitata da Roth, il quale la descriverà vagamente come una malattia che porta ogni giorno sintomi diversi[85]. D’altro canto, queste esternazioni di malessere risultano talvolta un po’ forzate, sfruttate – consapevolmente o meno – come pretesto e giustificazione per le continue richieste di aiuto morale e materiale avanzate verso l’amico. In una situazione di costante urgenza economica – causata non soltanto dall’esiguità degli introiti, ma anche da un’incapacità di gestione finanziaria – Roth richiede a Zweig “prestiti” che si tramutano quasi sempre in finanziamenti a fondo perduto. La prima richiesta attestata, risalente alla fine del settembre del 1930, è motivata dalle spese di cura della moglie Friedl, ricoverata in una casa di cura a Vienna[86]; a questa seguiranno tuttavia numerose altre Geldbitten, sempre più frequenti, dirette ed esplicite che, accompagnate dagli onnipresenti riferimenti al denaro all’interno del carteggio, confermano la già netta impressione dell’ossessione di Roth verso un benessere economico che sembra sfuggire continuamente. Queste preghiere verranno puntualmente esaudite da Zweig, accompagnate dalla più viva partecipazione alla «qualvolle Krise»[87] del suo protetto. Anche lo stile delle epistole risulta, di conseguenza, lentamente mutato: le formule di saluto lasciano trasparire l’affetto reciproco («lieber verehrter Freund»[88]; «immer herzlich Ihr ergebener Freund»[89]; «sehr herzlich und getreu, Ihr alter»[90]; «ich umarme Sie herzlich»[91]) e la lingua slitta talvolta verso la Umgangssprache – da non intendere come un segnale di superficialità o trascuratezza, ma piuttosto di familiarità e fiducia[92]. Roth risulta totalmente dipendente da Zweig, il quale funge per lui da mentore, guida spirituale, mecenate, consigliere, fratello maggiore e, talvolta, persino anima gemella[93]: esternazioni quali «ich hoffe jeden Tag, daß Sie kommt»[94] o «ich brauche Sie aber und ich kann ohne Sie nicht weiter leben»[95], se lette fuori contesto, sono di certo più facilmente assimilabili a una relazione amorosa che a un rapporto di amicizia[96]. Di questa totale dipendenza Roth si dimostra perfettamente consapevole («ich kann, ohne mit Ihnen gesprochen zu haben, absolut nichts Neues anfangen. Ihre Güte und Ihre Klugheit muß ich haben»[97]; «ich habe Ihnen nur gesagt, daß ich von Ihnen abhänge»[98]), tuttavia ciò non gli appare problematico, vivendolo anzi come un autentico motivo di gioia («Ihre Freundschaft allein ist seit Monaten der einzige Trost, den ich erlebt habe»[99]; «Sie sind der Einzige, der mir tatsächlich helfen kann. Nur mit Ihnen kann ich mein Leben verändern und retten»[100]). Höhepunkt di questa grande amicizia è il soggiorno del luglio 1936 a Ostenda, finanziato chiaramente da Zweig. Questi aveva più volte espresso all’amico il desiderio di averlo accanto durante il suo soggiorno con Lotte nella tanto amata città belga, come dimostra la già citata lettera risalente a fine giugno del 1936:

Es wäre ein Glück für mich Sie als literarisches Gewissen für jene Legende dort zu haben. Wir könnten abends gemeinsam uns prüfen und belehren wie in alten guten Zeiten. Sie müssen nicht baden, ich tue es auch nicht – Ostende ist kein Badeort, sondern eine Stadt, schöner, cafehäuslicher als Brüssel.[101]

In una cartolina spedita da Ostenda il 4 luglio dello stesso anno Zweig aveva poi rinnovato l’invito, sostenendo che il luogo sarebbe stato ideale per Roth per poter lavorare e – soprattutto – per il fatto che in Belgio vigesse «ein für Sie sehr vorteilhaftes Schnapsverbot»[102]. L’invito viene piacevolmente accolto e i due trascorrono alcune settimane di comunanza spirituale e artistica, dedicandosi alla scrittura e intrattenendosi con gli intellettuali tedeschi e austriaci che convergono a Ostenda, tra i quali Hermann Kesten, Egon Erwin Kisch, Ernst Toller e Irmgard Keun – con la quale Roth avrebbe poi instaurato un legame sentimentale. Definita poeticamente da Volker Weidermann «die Utopie von Ostende»[103], la città belga rappresenta infatti in questi anni uno Zufluchtsort, un ambiente neutrale in cui, crogiolandosi al sole in riva al mare e pranzando in compagnia in un bistrot, gli intellettuali possono discorrere di letteratura e politica e simulare un residuo di ottimismo.

Tuttavia, come spesso accade, tanto più una condizione è paradisiaca, quanto più feroce è il disappunto che ne deriva quando l’equilibrio sembra mutare. Il percorso in crescendo dell’amicizia sembra assumere, prima quasi impercettibilmente poi in modo sempre più evidente, una piega inversa, che l’indagine dei parametri sopra indicati può aiutare a riscontrare: nelle lettere, scambiate con sempre minor frequenza, le conversazioni risultano più brevi e concise e il tono diventa distaccato, come si può osservare in modo evidente anche nelle formule di saluto («herzlich trotzdem Ihr»[104]; «Ihren unglücklichen Liebhaber und abgelegten Freund»[105]). Un distacco, però, ben differente da quello iniziale, che non indica più reverente ammirazione, bensì progressivo allontanamento ed acquisita estraneità. A livello contenutistico esigui sono i riferimenti a future occasioni d’incontro e le condivisioni costruttive vengono spesso tralasciate a favore di una discussione politica che si fa via via più aspra o della discussione circa lo stato fisico e mentale di Roth. Gli incoraggiamenti di Zweig si trasformano in esternazioni di preoccupazione («ich muß Ihnen als Freund ehrlich schreiben – ich habe zum ersten Mal Angst um Sie. Es ist […] in Ihrem ganzen Wesen eine Überreizung, die ich auf Alkohol oder sonst eine Verstörung zurückfuhren muß»[106]): infiniti sono gli accorati appelli affinché l’amico cerchi di condurre una vita più sana, regolata, affinché abbandoni l’alcool e si prenda cura di se stesso, talvolta più pacati («lieber, lieber Roth: bitte Klarheit, bitte Vernunft!»[107]; «bitte kämpfen Sie jetzt vor allem um Ihre Gesundheit»[108]), altre volte più urgenti («um Gotteswillen, Freund, sammeln sie Sich»[109]; «ich flehe Sie an, Roth, Sie sind doch ein gütiger, ein helfender, ein verstehender Mensch: spüren Sie nicht das Böse darin, ein Böses, das nicht in Ihnen ist, das von außen kommt?»[110]). Roth, d’altro canto, in nome della loro amicizia si sente arrogato del diritto di esplicitare in ogni occasione qualsiasi proprio moto interiore, dando spesso origine ad aspri rimproveri e violente recriminazioni. Numerosi sono gli accenni a presunte ingiustizie («Sie sind ungerecht gegen mich»[111]) o supposte mancanze di attenzione («warum schweigen Sie? Warum antworten Sie mir nicht?»[112]); dalle paranoie («meine Freundschaft ist Ihnen unangenehm? Sagen Sie es, sofort!»[113]) si passa alle recriminazioni («Sie sind auch kein ganzer Freund, mein lieber Freund. Ich muß Ihnen diesen Vorwurf machen»[114]; «Ihr bester und vielleicht Ihr einziger Freund ist in der höchsten körperlichen und seelischen Gefahr und Sie kommen nicht»[115]), fino alle vere e proprie accuse («und ich sage Ihnen jetzt mit dem Recht des Freundes, der unweigerlich untergeht, daß Sie mir Unrecht tun, Unrecht, Unrecht[116]). Non rari appaiono inoltre i commenti pungenti volti a instillare nell’amico il senso di colpa, scatenati da un’irrazionale gelosia, come dimostra emblematicamente una lettera dell’8 ottobre 1937. Dalle righe dell’epistola indirizzata a Zweig emerge chiaramente come Roth non riesca a digerire il fatto che egli si sia recato a Parigi per incontrare il direttore d’orchestra italiano Toscanini, piuttosto che lui. In questa occasione lo scrittore galiziano si lascia andare a un parossismo d’ira tipico di un amante offeso più che di un amico fedele:

Ich bin freilich gekränkt, daß Sie mich nicht gesehen haben […]. Ein Bruder liegt auf Ihrem Wege und Sie haben keine Zeit? Sie “müssen” Toscanini sehen? Warum “müssen” Sie? Mich müssen Sie sehn. Nicht Toscanini![117]

Malgrado l’autore viennese, da buon pacifista, non risponda al fuoco, Roth fa seguire allo sfogo un lungo silenzio, interrotto solo da fugaci e distaccate comunicazioni di natura pragmatica, come in una lettera del 2 novembre 1937, nella quale, comunicando un cambio di residenza, si affretterà a chiarire: «dies ist kein Brief, sondern nur eine Mitteilung»[118]. Ciononostante Zweig, con la comprensione e la pazienza che da sempre lo contraddistinguono, non perde la speranza e continua assiduamente a cercare l’amico, auspicando un nuovo vis-à-vis («wann sehen wir einander?»[119]), interrogandolo più e più volte sul motivo del suo silenzio («lieber Josef Roth, ich habe Ihnen drei oder viermal geschrieben, immer ohne Antwort, und glaube durch unsere alte Freundschaft ein Recht zu haben, Sie zu fragen, was Sie mit diesem hartnäckigem und hoffentlich nicht böswilligem Schweigen sagen wollen»[120]) e confessandogli quanto dolorosa gli risulti questa situazione («Sie verstehen darum nicht, wie schmerzlich mir Ihr Schweigen, Ihr Fernsein ist»[121]). Il mutismo viene interrotto realmente solo il 31 dicembre, quando Roth, come un fulmine a ciel sereno, ribadisce all’amico la forza della loro amicizia: «Lieber Freund, die alte Freundschaft besteht»[122]. Circa le motivazioni dell’incomunicabilità si mostrerà però spesso evasivo e ambiguo. In un primo momento quest’ultima viene dipinta come una sorta di ripicca («mein Schweigen ist nur ein chronischer stummer Vorwurf»[123]), dopodiché spacciata per un gesto altruistico nei confronti dell’amico, laddove sostiene: «jede Freundschaft mit mir ist verderblich»[124]. Più volte cercherà di giustificare la sua affermazione, sostenendo «Sie sind ein guter Mensch. Ich mag die Harmonie nicht stören, die ein Bestandteil Ihrer Güte ist»[125], «ich weiß, daß ich das Unglück anziehe […] Ich will nicht, daß Sie Ihre Heiterkeit durch mich beeinträchtigen»[126] e persino «ich bin nicht mehr zu reparieren»[127]. L’impressione che si fa strada è che Roth voglia altruisticamente allontanare Zweig in quanto, considerandosi “rovinato”, non vuole portarlo a fondo. A questi caritatevoli pensieri si intervallano però anche moti opposti, che tendono invece a un riavvicinamento («bitte, bitte, verlassen Sie mich nicht!»[128]), in un estenuante gioco di forza che porta lo stesso carattere di Roth – l’imprevedibilità. Lo stesso Zweig, pur nella sua solita cortese premura, risulta sfibrato dal logorio di questo circolo vizioso.

Sono questi i confusi estremi del tiepido allontanamento dei due artisti che, pur non giungendo mai ad una cesura definitiva, perderanno l’affiatamento di un tempo. Problematico affermare a cosa sia dovuto tale progressivo ma inesorabile mutamento di rotta, ma è possibile supporre che il profondo divario caratteriale dei due scrittori abbia costituito un fattore tutt’altro che marginale. Nonostante inizialmente non sembri tangere in alcun modo l’amicizia (Roth scriverà a Zweig «Schweigen Sie – oder kämpfen Sie: Was sie für klüger halten»[129]), la differenza nell’approccio al contesto storico-politico si rivelerà ben presto di non poco conto nel rapporto, principalmente da parte dell’intellettuale galiziano. Dopo aver più volte accusato Zweig di ingenuità, Roth si mostra infatti sempre più infastidito dalla sua condotta remissiva e poco combattiva, giungendo persino a dargli un ultimatum: il 7 novembre del 1933 è per Roth «die Stunde der Entscheidung»[130], in cui pretenderà da Zweig sincerità e chiarezza, intimandogli «Sie müssen entweder mit dem III. Reich Schluß machen, oder mit mir»[131]. A essere preso di mira sarà poi il suo atteggiamento escapista («Sie widerlegen gar nichts mit Ihrer Sanftmut, die übrigens gar keine ist, sondern eine Flucht. Aber, statt zu sagen, daß die ein Flüchtling sind, nennen Sie Sich einen Einsiedler»[132]) e, infine, il suo approccio negativo e disfattista («Unsere Situation ist keineswegs aussichtslos, wie Sie schreiben. Sie sind ein Defaitist»[133]). Il confronto critico da momento di incontro diventa pertanto occasione di scontro, le differenti tesi non convergono più in una sintesi, ma si radicalizzano in antitesi. «Vielleicht führen wir zwei verschiedene Sprachen und verstehen also einander nicht»[134], converrà Roth nel 1937 poco prima che la corrispondenza si interrompa, in una sentenza dal retrogusto dolceamaro che ben sintetizza il sapore di un’amicizia così complessa, i cui prodromi si possono in realtà desumere già dalla concezione dello stesso concetto di Freundschaft che emerge dal carteggio. Per il pacato e conciliante Zweig l’amicizia rappresenta un aspetto ordinario, persino scontato della vita: l’indole aperta e l’urgenza di viaggiare e di confrontarsi con sempre nuove sfaccettature della realtà lo hanno sempre indotto a conoscere e a misurarsi con personalità diverse, tessendo una notevole rete di contatti in Europa e oltreoceano; fin da giovane Zweig crea un ampio circolo di amicizie che si nutre di fitti scambi epistolari e fugaci ma intensi incontri. Dai numerosi carteggi così come dai ricordi contenuti in Die Welt von Gestern emerge chiaramente che l’esigenza di creare salde amicizie per lo scrittore viennese è un qualcosa di quasi connaturato, ed è forse questo il motivo per cui con gli amici rimane spesso «vorsichtiger, zugeknöpfter und ungenauer»[135]. L’amicizia verso Roth da parte di Zweig sembra pertanto configurarsi come un legame stabile, solido, duraturo, in grado di resistere alle intemperie senza farsi scalfire, tanto è la semplicità dell’affetto che ne funge da radice. Pur lasciandosi raramente andare ad espliciti sentimentalismi, egli segue costantemente le mosse dell’amico, sulla stregua di un angelo custode che veglia sul proprio protetto; qualora la situazione lo necessiti si premura di intervenire, come negli innumerevoli casi in cui esplicita seria preoccupazione per lo stato mentale e fisico di Roth («ich muß Ihnen als Freund ehrlich schreiben – ich habe zum ersten Mal Angst um Sie Es ist […] in Ihrem ganzen Wesen eine Überreizung, die ich auf Alkohol oder sonst eine Verstörung zurückfuhren muß»[136]). Differente è l’approccio del suo interlocutore il quale, sia per il retaggio di un’infanzia complicata sia per la naturale indole irrequieta, viene sovente pervaso da un senso di estraneità, faticando a creare legami di amicizia sani e stabili. Quando dunque, dopo anni di solitudine interiore, inizia a sentirsi apprezzato e accudito da qualcuno che egli a sua volta ammira e stima, Roth sperimenta un sentimento vergine, un autentico «Glücksfall»[137] al quale si aggrappa con ogni fibra del proprio essere. Numerose e commoventi sono le esternazioni verso il suo «einziger wirklicher Freund»[138] riguardo al valore del loro rapporto: «ich bin sehr froh, daß ich in Ihre Nähe geraten bin»[139]; «ich schätzte die Freundschaft so hoch, wie die Freiheit, und ich möchte beide wahren»[140]; «Sie sollen wissen, daß ich an Sie denke, oft und denkbar und mit einer Zuneigung, die ich seit Langem für Niemanden mehr aufgebracht hatte und die mich gleichsam wieder jünger macht»[141]; «Ihre große Freundschaft hat mir Glück gebracht»[142]. La differente esperienza del concetto di Freundschaft, inteso dunque per Zweig come elemento naturale della vita quotidiana e per Roth come rapporto extra-ordinario ed eccezionale, risulta particolarmente significativa nella considerazione del legame tra i due autori e contribuirà fortemente all’andamento del loro rapporto.

Si può inoltre ipotizzare che le tribolazioni personali legate all’ipertensione dell’epoca non fossero certamente propizie allo sviluppo di un rapporto spensierato. Roth nel 1937 è ormai un uomo rovinato dal punto di vista morale e fisico, in preda alla paranoia e alla depressione e con il corpo totalmente consumato da anni di abuso di alcool. Questa già precaria condizione psicofisica verrà esacerbata l’anno successivo dal naufragio della relazione con Irmgard Keun la quale, dopo qualche mese di convivenza, lo abbandonerà, satura della sua gelosia. Dietro improvvisi impeti di solipsista autocommiserazione auto-indotta dall’alcool, Roth riversa alternativamente in se stesso e in Zweig tutta la propria rabbia e amarezza, incolpando quest’ultimo di non conoscere la vera sfortuna («Sie haben niemals meine Zusammenstöße mit der Wirklichkeit erlebt»[143]). Zweig, pur non esplicitandolo spesso, versa anch’egli invero in uno stato di profondo buio interiore: dal 1934 auto-condannatosi ad un ancora tollerabile esilio, dopo lo Anschluss del 1938 – stesso anno del sofferto divorzio con l’ancora cara Friderike – egli vedrà infrangersi definitivamente la speranza di un possibile rimpatrio, come dimostra emblematicamente la messa al rogo delle sue opere. Ciononostante, non manca mai di reagire con partecipazione alle condivisioni del suo protetto, di rispondere con tempestività ai suoi accorati appelli, né tantomeno di inviare denaro ad ogni sua richiesta. È infatti a lui che amici e conoscenti si rivolgono per informarsi circa le condizioni di salute di Roth[144] o per tenerlo informato circa le stesse[145], così come per manifestare preoccupazione[146]. Lo scrittore viennese, pur nella sua risaputa ingenuità, è sempre stato consapevole dell’arduo compito di salvare qualcuno che non vuole essere salvato, come confessa chiaramente a Friderike ancora nei primi anni della loro amicizia: «Roth kann man nicht helfen. Seine Narrheit ist ein Fass ohne Boden»[147]. Malgrado ciò, si adopera senza sosta affinché il mondo riesca a scorgere la luce all’interno del buco nero nel quale spesso viene risucchiato l’amico. Sostituendosi allo stesso Roth, tenta di mantenere i rapporti con conoscenti ed editori e ne subisce spesso gli educati ma decisi rifiuti. Emblematico è il caso di Benjamin W. Huebsch il quale, in una lettera del 28 febbraio 1937, chiarisce con pregnante nitore che ogni cortesia riservata a Roth è merito di Zweig[148]; due anni dopo i toni dell’editore diventano più aspramente sinceri quando confessa, in riferimento a Die Kapuzinergruft:

He writes in a dream world about unreal people. The milieu which he once described so effectively is now shadowy. He no longer takes the trouble to be correct about matters which may not be treated carelessly; [] My criticism would be pedantic if it referred only to an error of chronology, but the mental indolence which it implies is present throughout his work.[149]

Sentendosi ormai privo dell’energia vitale e dello spirito di un tempo, Zweig comincia ad avvertire in modo sempre più pressante la propria impotenza di fronte a questo tragico declino: «Roth ist leider ein Narr, wenn auch ein liebenswerter», sentenzierà, confermando l’impressione già esplicitata anni prima a Friderike. Così, divorato dalla pena ma al contempo convinto di aver agito in ogni modo per il suo bene[150], forse per non dover assistere di persona all’annegamento dell’amico, per conservare almeno un ricordo di quel Roth spiritoso e pieno di energia che aveva conosciuto una decina d’anni prima, decide, nel dicembre 1938, di lasciarlo andare. Accade pertanto che dopo l’ultima lettera – risalente al dicembre del 1938 – la corrispondenza si interrompe e i due amici prendono strade diverse. Roth rimarrà a Parigi, per morire un anno dopo ucciso dalla sua stessa dipendenza; Zweig non parteciperà alle onoranze funebri, ma darà l’estremo saluto al suo protetto attraverso le splendide parole contenute nelle lettere ai conoscenti e nel necrologio scritto per The Sunday Times del 28 maggio 1939, nel quale descrive l’amico come «brilliant journalist»[151] «true poet»[152] e «wonderful friend»[153]. Zweig cercherà poi di rimettersi in sesto e tre anni dopo partirà per il Brasile, la stazione finale del suo esilio, con la moglie Lotte; la dipartita dell’amico rappresenta tuttavia un duro colpo, andando ad aggiungersi al malessere generale che lo attanaglia in una terra che, pur splendidamente accogliente, non sente come propria ma che nondimeno risulta l’unica meta possibile. È così che, subdolamente, in Zweig, che per tutta la vita è stato soggetto a fenomeni depressivi, si insinua il pensiero della morte, come si scorge non troppo velatamente dalla lettera inviata il 13 marzo 1941: «Roth, Rieger, Ernst Weiß waren vielleicht die Klügeren»[154]. Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Zweig giungerà dunque alla tragica decisione di congedarsi spontaneamente dalla vita. Ad accompagnarlo in quest’ultimo passo la devota moglie Lotte, in un doppio suicidio che porta le tracce dell’esperienza di Heinrich von Kleist, al quale lo scrittore austriaco aveva dedicato un Bildnis nella trilogia Der Kampf mit dem Dämon (1925). «Auf der höchsten Höhe seiner Kunst»[155], oramai «weltvergessener, zielverlorener»[156], con la sua patria europea tenuta in ostaggio «als gedemütigte Beute»[157] dalla personificazione del fanatismo, Zweig, esattamente come un secolo prima aveva fatto «der große tragische Dichter der Deutschen»[158] soggetto della sua biografia letteraria, organizza «sachlich und sorglich»[159] la propria fine, predisponendo con inquietante minuzia ogni dettaglio e, insieme alla sua compagna, «wirft er sich hinab in den Abgrund»[160]. L’augurio contenuto nell’ultima epistola a Roth porta un sapore dolceamaro e si carica di tutto il fascino derivante dalla complessità del loro rapporto: «alles Herzliche und daß (trotz allem!) das kommende Jahr nicht schlimmer sein möge als das vergangene»[161]. D’altronde, come sostiene Schemarjah in Hiob quando si accinge a lasciare per sempre il padre Mendel Singer, «Was soll man einander sagen, wenn man Abschied fürs Leben nimmt»[162]?

V. Conclusioni

Dopo aver letto questo ultimo augurio per un anno migliore rivolto da Zweig all’amico, prima di procedere con la postfazione di Heinz Lunzer si sentirà il bisogno di una pausa. Di chiudere il libro che custodisce la personale confessione di due artisti che, attraverso la reciproca corrispondenza, affermano la propria soggettività e raccontano al contempo il proprio complesso legame. Di ritornare al principio e osservare di nuovo, con occhi diversi, quel ritratto in seppia, apparentemente poco riuscito, posto dai curatori in copertina al carteggio. Il senso di questa istantanea apparirà ora d’un tratto, come in un momento epifanico, in tutta la sua intensità: un solo istante immortalato, che cela però in sé l’ineluttabilità di un legame destinato ad essere. Si tratta dell’unica testimonianza fotografica dell’amicizia di Zweig e Roth a noi pervenuta, che risale al soggiorno del luglio 1936 a Ostenda e li ritrae seduti in un café: Roth, piccolo e ricurvo nel suo completo marrone, tiene il volto rotondo dritto verso l’obiettivo; dai capelli chiari ormai radi ricade un ciuffo riccioluto, come a ricordare che lo spirito indomabile è ancora presente, seppur anestetizzato, in quel corpo stremato; gli occhi azzurri, incastonati tra una fronte ampia e zigomi larghi, pur socchiusi e probabilmente inebriati dall’ebbrezza alcolica, mirano indagatori verso il pubblico, specchio di un’anima che non si può addomesticare. Zweig, come sempre impeccabile ed elegante, non svela gli occhi perfettamente in tinta con il suo completo azzurro perché il suo sguardo, così come il suo corpo, sono totalmente indirizzati verso l’amico, come magnetizzati da un’aura misteriosa; i capelli, ancora folti e scuri, non rivelano pienamente la sua età, ma il sorriso morbido e dolce, incorniciato dai baffi ispidi, dichiara in modo inequivocabile di sentirsi a casa nell’altrui volto. «Freilich ist Freundschaft wahre Heimat»[163]: l’esternazione di Roth nei confronti di Zweig, contenuta nella lettera del 24 luglio 1935, sembra costituire la didascalia perfetta per questa immagine, ove due scrittori in esilio riconoscono nella loro amicizia, al di là di ogni confine e difficoltà, l’unica vera patria: quella spirituale.

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[1] Joseph Roth/Stefan Zweig, Jede Freundschaft mit mir ist verderblich. Briefwechsel 1927-1938, Zürich, Diogenes, 2014, p. 239 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 24 luglio 1935).

[2] Joseph Roth, Briefe 1911-1939, hrsg. v. D. Bronsen, Köln/Berlin, Kiepenheuer & Witsch, 1970.

[3] Cfr. Fritz Hackert, «[…] ce qu’une petite embarcation perdue en pleine mer pourrait ressentir en croisant un paquebot». Stefan Zweig et Joseph Roth, in Joseph Roth, l’exil à Paris, sous la direction de P. Forget, S. Pesnel, L. Sigal, Mont-Saint-Aigan, Presses universitaires de Rouen et du Havre, 2017, pp. 179-193; Matjaž Birk, «Vielleicht führen wir zwei verschiedene Sprachen…» Zum Briefwechsel zwischen Joseph Roth und Stefan Zweig, Münster, LIT, 2017; Arturo Larcati, «Wirkung hat im Grunde doch nur das, was die Freundschaft tut». Stefan Zweig und Joseph Roth, in Traum, Sprache, Interpretation. Literarische Dialoge. Festschrift für Isolde Schiffermüller, hrsg. v. C. Conterno, G. Pelloni, Würzburg, Königshäusen & Neumann, 2020, pp. 111-126.

[4] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 198 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[5] Ivi, pp. 193-196 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[6] Ivi, p. 182 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 17 luglio 1934).

[7] Ivi, p. 197 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[8] Ibid.

[9] «Wenn ich besoffen bin, bin ich auch noch so nüchtern, daß ich genau weiß, wer mich betrügen will, wer nicht», ivi, p. 198 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[10] Ci si riferisce qui alla citazione presentata all’inizio del paragrafo (ibid., lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[11] Il parallelismo tra Zweig e l’Erasmo della sua biografia storica emerge all’interno dello stesso carteggio, laddove Roth definisce l’opera come «die Biographie Ihres Spiegelbildes» (ivi, p. 207, lettera di J. Roth a S. Zweig, 10 agosto 1934). Questa impressione non viene confutata da Zweig, che anzi aveva plasmato la sua figura letteraria proprio sulla scorta delle numerose affinità che con essa condivideva (cfr. Romain Rolland/Stefan Zweig, Briefwechsel 1910-1940, vol. 2: 1924-1940, Berlin, Rütten & Loening, 1987, p. 459, lettera di S. Zweig a R. Rolland, 9 maggio 1932). A Roth risponderà dunque: «Ich persönlich bin damit am persönlichen Ziel: ganz wie Erasmus von rechts und links zugleich attakiert zu werden» (ivi, p. 209, lettera di S. Zweig a J. Roth, 24 agosto 1934). Questa tesi verrà poi riconfermata da Zweig in Die Welt von Gestern, dove parlerà dell’opera come una «verschleierten Selbstdarstellung» (Stefan Zweig, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers, Frankfurt a.M., Fischer, 2017, p. 432). La vicinanza tra l’autore e il suo protagonista è inoltre materia di indagine da parte della critica, che ha definito l’Erasmo di Zweig come «a personal confession of its writer» (Jacob Golomb, Erasmus: Stefan Zweig’s Alter-Ego, in Stefan Zweig Reconsidered. New Perspectives on his Literary and Biographical Writings, ed. by M. H. Gelber, Tübingen, Niemeyer, 2007, pp. 7-20, qui p. 7), «Selbstbespiegelung» (Daniela Strigl, Biographie als Intervention. Zum Problem biographischen Erzählens bei Stefan Zweig – Fouché und Erasmus, in Stefan Zweig – Neue Forschung, hrsg. v. K. Müller, Würzburg, Königshäusen & Neumann, 2012, pp. 9-25, qui p. 10), «Versuch einer Selbsterklärung», (ivi, p. 22), «Projektions- und Reflexionsfläche» (ivi, p. 21) e «eine Art von Selbstbiographie» (Alexander Lernet-Holenia, Ich wollte, er lebte uns noch!, in Der große Europäer Stefan Zweig, hrsg. v. H. Arens, Frankfurt a.M., Fischer, 1985, p. 85). Per approfondire la tematica cfr. per es. J. Golomb, Erasmus: Stefan Zweig’s Alter-Ego, pp. 7-20; D. Strigl, Biographie als Intervention, pp. 9-25; Giorgia Sogos, Le biografie di Stefan Zweig tra Geschichte e Psychologie. Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, Marie Antoinette, Maria Stuart, Firenze, Firenze University Press, 2013, pp. 75-180.

[12] Arturo Larcati, «Ce que l’amitié fait». Joseph Roth et Stefan Zweig, in «Europe», n. 1087-1088, 2019, pp. 96-107, qui p. 96.

[13] Cfr. Heinz Lunzer, Nachwort, in J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, pp. 600-603.

[14] Wolfgang G. Müller, Brief, in Handbuch der literarischen Gattungen, hrsg. v. D. Lamping, S. Poppe, S. Seiler, F. Zipfel, Stuttgart, Kröner, 2009, pp. 75-83, qui p. 75.

[15] Georg Misch, Begriff und Ursprung der Autobiographie (1907/1949), in Die Autobiographie. Zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung, hrsg. v. G. Niggl, Darmstadt, Wissenschaftliche Gesellschaft, 1989, pp. 33-55, qui p. 38. Le analisi di Georg Misch, uno dei pionieri dello studio dell’autobiografia moderna, confluiscono nella sua monumentale Geschichte der Autobiographie (6 voll. e 2 postumi, a cura rispettivamente di L. Delfoss e B. Neumann, Frankfurt a.M., Schulte und Bulmke, 1949-1969) che, ricostruendo la storia dell’autobiografia, è risultata fondamentale per il riconoscimento di una dignità letteraria al genere.

[16] A partire dal Secondo Novecento – quando, dunque, l’autobiografia inizia a emanciparsi dal suo status di disciplina ancillare e a essere compiutamente considerata come vero e proprio genere letterario – si susseguono innumerevoli trattazioni contenenti definizioni e sistematizzazioni, che non risultano tuttavia mai pienamente soddisfacenti né tantomeno universalmente riconosciute. Non soltanto il mare magnum delle sue forme (cfr. Ulrich Breuer, Beatrice Sandberg, Einleitung, in Autobiographisches Schreiben in der deutschsprachigen Gegenwartsliteratur, Bd. 1: Grenzen der Identität und der Fiktionalität, hrsg. v. U. Breuer, B. Sandberg, München, Iudicium, 2006, pp. 9-16, qui p. 10; Volker Hoffmann, Tendenzen in der deutschen autobiographischen Literatur 1890-1923, in Die Autobiographie. Zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung, pp. 482-519, qui p. 486; William C. Spengemann, The Forms of Autobiography. Episodes of the History of a Literary Genre, New Haven-London, Yale University Press, 1980, pp. XI-XII; Martina Wagner-Eegelhaaf, Autobiographie, Stuttgart/Weimar, Metzler, 2005, p. 6; Michaela Holdenried, Im Spiegel ein anderer: Erfahrungskrise und Subjektdiskurs im modernen autobiographischen Roman, Heidelberg, Winter, 1991, p. 13), ma anche i nodi teorici intrinsechi al suo stesso statuto (cfr. Ingrid Aichinger, Probleme der Autobiographie als Sprachkunstwerk in Die Autobiographie. Zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung, pp. 170-199; Peter Gasser, Autobiographie und Autofiktion. Einige begriffskritische Bemerkungen, in «… all diese fingierten, notierten, in meinem Kopf ungefähr wieder zusammengesetzten Ichs». Autobiographie und Fiktion, hrsg. v. E. Pellin, U. Weber, Göttingen, Wallstein, 2012 pp. 13-27, qui p. 18; Georges Gusdorf, Voraussetzungen und Grenzen der Autobiographie, in Die Autobiographie. Zu Form und Geschichte einer literarischen Gattung, pp. 121-147; M. Holdenried, Im Spiegel ein anderer, pp. 1-42; M. Wagner-Eegelhaaf, Autobiographie, pp. 6-9) hanno trasformato ben presto un genere di difficile classificazione in un’autentica aporia (cfr. William C. Spengemann, The Forms of Autobiography, p. XI: «The more the genre gets written about, the less agreement there seems to be on what it properly includes»), conducendo i critici a contemplare persino l’ipotesi di una vera e propria impossibilità di categorizzazione (cfr. ad es. James Olney, Metaphors of the Self. The Meaning of Autobiography, Princeton, Princeton University Press, 1972, pp. 38-39: «Definition of autobiography as a literary genre seems to me virtually impossible, because the definition must either include so much as to be no definition, or exclude so much as to deprive us of the most relevant texts»).

[17] Cfr. Epistulae ad Atticum di Cicerone (68-44 a.c.).

[18] W. G. Müller, Brief, pp. 75-79.

[19] La critica in ambiente tedescofono si riferisce a questa tipologia di comunicazione epistolare alternativamente come offener Brief (W. G. Müller, Brief, p. 79; Reinhard M. G. Nickisch, Brief, Stuttgart, Metzler, 1991, p. 102), Kunstbrief (W. G. Müller, Brief, p. 75), literarisierter Brief (W. G. Müller, Brief, p. 75; R. M. G. Nickisch, Brief, p. 101; Paul Raabe, Brief/Memoiren, in Literatur II. Erster Teil, hrsg. v. W.-H. Friedrich, W. Killy, Frankfurt, Fischer, 1965, pp. 100-114, qui p. 106) o Sendschreiben (R. M. G. Nickisch, Brief, p. 102).

[20] Cfr. Epistulae di Plinio il Giovane (61/62-113 d.c.).

[21] U. Breuer, B. Sandberg, Einleitung, p. 9.

[22] Ne Il patto autobiografico, opera pionieristica in materia di teoria letteraria sull’autobiografia, Lejeune provvede alla sistematizzazione del sapere teorico legato a questo particolare genere, definendo tra l’altro quelli che ritiene essere i requisiti fondamentali di un’autobiografia: la natura prosastica del racconto; la tematica legata ad una storia di vita individuale; l’identità tra autore e narratore; la corrispondenza tra narratore e protagonista; la modalità narrativa retrospettiva. Il titolo del saggio trae le sue origini dall’idea dell’autobiografia in quanto “patto’ tra autore e lettore basato proprio sull’identità tra autore, narratore e protagonista: nel momento in cui il lettore si approccia a un’opera autobiografica, egli parte dunque dal presupposto che la storia del protagonista corrisponde a quella dell’autore e viene raccontata dal suo punto di vista.

[23] Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 12.

[24] Cfr. U. Breuer, B. Sandberg, Einleitung, p. 9; M. Wagner-Eegelhaaf, Autobiographie, pp. 5-10.

[25] La differenziazione di Lejeune, mutatis mutandi, persiste infatti nel tempo. A tal proposito si veda a titolo esemplificativo in ambito tedescofono la distinzione tra “Autobiographie’ e “autobiographisches Schreiben’ di Breuer e Sandberg, che definiscono quest’ultimo termine come «Begriff mittlerer Extension zwischen dem umfassenden Begriff der Ego-Dokumente und dem engeren Begriff der Autobiographie» (U. Breuer, B. Sandberg, Einleitung, p. 9) e in ambito italiano quella tra “autobiografia’ e “autobiografismo’ di Battistini, in Genesi e sviluppo dell’autobiografia moderna così illustrata: «Autobiografismo è la presenza generica del soggetto nella propria opera letteraria. [] Autobiografia è invece un vero e proprio genere letterario con le sue costanti, le sue convenzioni, i suoi orizzonti d’attesa, la sua genesi storica» (Andrea Battistini, Genesi e sviluppo dell’autobiografia moderna, in «The Italianist (supplement)», n. 17, 1997, pp. 7-22, qui p. 7).

[26] U. Breuer, B. Sandberg, Einleitung, p. 10.

[27] Gianluca Genovese, La lettera oltre il genere. Il libro di lettere, dall’Aretino al Doni, e le origini dell’autobiografia moderna, Roma/Padova, Editrice Antenore, 2009, qui p. XXVII. L’ipotesi di Genovese è portata avanti anche da Chemello, la quale dichiara che il libro di lettere «lascia intravedere una embricatura primaria con il genere autobiografico» (Adriana Chemello, Introduzione a Bernardo Tasso, Lettere. Secondo volume, rist. an. dell’ediz. Giolito 1560, a cura di A. Chemello, Sala Bolognese, Forni, 2002, p. LI). D’obbligo risultano tuttavia alcune precisazioni, prima fra tutte la distinzione tra il “libro di lettere’ preso in considerazione da Genovese e l’“epistolario’, dall’autore stesso descritto come «raccolta indistinta e neutra di missive composte nel corso degli anni, [] che manca di un progetto narrativo, è soggetto a un’estrema frammentazione temporale e, soprattutto, non propone l’interpretazione globale di una vita, dal momento che l’interpretazione passa innanzitutto per un processo di selezione degli eventi, qui assente» e la cui «pubblicazione è [] una forzatura e non rientra nelle intenzioni originarie di chi scrive» (G. Genovese, La lettera oltre il genere, p. 39). Il libro di lettere, dunque, a differenza dell’epistolario, rientra più facilmente all’interno del “patto autobiografico’ di Lejeune per almeno due ragioni: in primo luogo, trattandosi di lettere non fittizie, si può constatare l’identità tra autore, narratore e protagonista (ivi, p. XXVIII e 38); in secondo luogo perché, essendo il materiale organizzato dall’autore in un momento successivo alla scrittura, la prospettiva retrospettiva del racconto viene in qualche modo garantita (ivi, p. 40). È inoltre necessario specificare che lo Ich-Bezug del libro di lettere risulta in funzione di soggetti esterni, dunque «non è un io-per-sé ma un io-per-gli-altri, una costituzione artificiale e tesa a raggiungere un obiettivo, un’autorappresentazione che può mutare sia in diacronia [] sia sincronicamente» (ivi, p. XXXV).

[28] Roberta Antognini, Il progetto autobiografico delle Familiares di Petrarca, Milano, LED, 2008, p. 30.

[29] G. Misch, Begriff und Ursprung der Autobiographie, p. 37.

[30] W. G. Müller, Brief, p. 75.

[31] «Schon die genauere Betrachtung der forschungspraktischen Verwendung der Kategorie “Autobiographie’ oder “autobiographisch’ – die gattungstypologisch besetzt ist – zeigt bereits, wie inflationär und unpräzise mit diesem Begriff umgegangen wird, wie ungenau seine Applikationen auf sämtliche selbstbezogene Erzählformate oder subjektive Darstellungsformen sind, ohne trennscharf zwischen den einzelnen Subgattungen wie Tagebuch, Reisebericht oder Briefsammlungen als schriftliche oder Oral History als mündliche Erzählungen zu unterscheiden» (Carsten Heinze, Autobiographie und zeitgeschichtliche Erfahrung. Über autobiographisches Schreiben und Erinnern in sozialkommunikativen Kontexten, in «Geschichte Und Gesellschaft», Bd. 36, n. 1, 2010, pp. 93-128, qui p. 98).

[32] Cfr. ivi, p. 126.

[33] Cfr. Erich Kleinschmidt. Schreiben und Leben. Zur Ästhetik des Autobiographischen in der deutschen Exilliteratur, in «Jahrbuch Exilforschung», Bd. 2, 1984, pp. 24-40, qui p. 24.

[34] Ivi, p. 25.

[35] Ivi, p. 24.

[36] R. M. G. Nickisch, Brief, p. 17.

[37] Peter Bürgel, Der Privatbrief. Entwurf eines heuristischen Modells, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte (DVjs)», n. 50, 1976, pp. 281-297, qui p. 283.

[38] R. M. G. Nickisch, Brief, p. 14.

[39] Qui, fa notare Polledri, l’attenzione è totalmente catalizzata verso il soggetto, sul suo stato fisico e mentale (cfr. Elena Polledri, La forma epistolare nella scrittura critica di Rainer Maria Rilke: la lettera da imago animae a sachliches Sagen, in «Cultura tedesca», n. 56, 2019, pp. 175-196, qui pp. 179-180).

[40] Cfr. ivi, pp. 189-190.

[41] Degne di nota sono a questo proposito le considerazioni di Elena Polledri riguardanti la tematica in Rainer Maria Rilke il quale, anche nel momento in cui, nei Briefe über Cézanne (1952), tenta di prendere le distanze dal soggettivismo che aveva caratterizzato i Briefe an einen jungen Dichter, ne risulta sconfitto. Tutti i tentativi del poeta di tradurre in forma epistolare il Sachliches Sagen dei Dinggedichte si concludono infatti con uno scacco in quanto, benché non espressa direttamente dallo Ich-Bezug, la soggettività zampilla dagli oggetti stessi che vengono descritti (cfr. E. Polledri, La forma epistolare nella scrittura critica di Rainer Maria Rilke, pp. 186-187).

[42] Per un approfondimento sulla rilevanza del dialogo letterario all’interno della corrispondenza si veda anche A. Larcati, «Ce que l’amitié fait», pp. 96-107.

[43] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 7.

[44] La biografia di Zweig, dedicata al medico tedesco Franz Anton Mesmer, sarebbe poi confluita nella raccolta di saggi Die Heilung durch den Geist. Mesmer, Mary Baker-Eddy, Freud, pubblicata per la prima volta dalla casa editrice Insel nel 1931.

[45] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, pp. 46-47.

[46] Cfr. ivi, pp. 46-49.

[47] Ivi, p. 142.

[48] Cfr. ivi, p. 207.

[49] Cfr. ivi, pp. 10-11.

[50] Ivi, p. 327.

[51] Heinz Lunzer, Nachwort, p. 599.

[52] A tal proposito si veda M. Wagner-Eegelhaaf, Autobiographie, p. 2.

[53] Cfr. Carola Hilmes, Auf verlorenem Posten: Die autobiographische Literatur, in Hansers Sozialgeschichte der deutschen Literatur, Bd. 9: Nationalsozialismus und Exil 1933-1945, hrsg. v. W. Haefs, München, Hanser, 2009, p. 418.

[54] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 53 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 23 ottobre 1930).

[55] Ivi, p. 91 (lettera di J. Roth a S. Zweig, metà febbraio 1933).

[56] Ivi, p. 245 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 19 agosto 1935).

[57] «Unsere ganze Lebensarbeit ist [...] vergeblich gewesen», ivi, p. 100 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 6 aprile 1933).

[58] Ivi, p. 79 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 7 agosto 1932).

[59] «Die Stumpfheit der Welt ist großer, als 1914. Der Mensch rührt sich nicht mehr, wenn man das Menschliche verletzt und mordet. Es war 1914, daß man sich von allen Seiten bemüht hat, die Bestialität mit humanen Gründen und Vorwänden zu erklären. Es ist aber heute so, daß man die Bestialität einfach mit bestialen Erklärungen versieht, die noch grausamer sind, als die Bestialitäten», ivi, p. 96 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 26 marzo 1933).

[60] «Es gibt kein Kompromiß mit diesen Leuten», ivi, p. 100 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 6 aprile 1933).

[61] Ivi, p. 101 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 28 aprile 1933).

[62] P. Bürgel, Der Privatbrief, p. 287.

[63] Ibid.

[64] Ivi, p. 291.

[65] Ivi, p. 286.

[66] W. G. Müller, Brief, p. 77.

[67] «Für die Humanisten war der Brief dabei grundsätzlich eine dialogische Gattung, ein Gespräch zwischen Abwesenden» (Ivi, p. 81).

[68] Cfr. Ivi, p. 82.

[69] Cfr. E. Polledri, La forma epistolare nella scrittura critica di Rainer Maria Rilke, p. 179.

[70] Uno dei motivi principali dello squilibrio quantitativo delle lettere tra Roth e Zweig è riconducibile alle circostanze di vita degli stessi: malgrado l’indole nomadica di entrambi, Zweig dispone infatti comunque di un’abitazione che utilizza in pianta stabile, dove può conservare i suoi beni e le sue lettere; Roth, al contrario, trascorre gran parte della sua vita in stanze d’albergo.

[71] La frequenza si riferisce evidentemente alle lettere attestate.

[72] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 7 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 8 settembre 1927).

[73] Ibid.

[74] Ivi, p. 9 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 24 gennaio 1928).

[75] Ivi, p. 10 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 1 giugno 1928).

[76] Ivi, p. 12 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 26 novembre 1928).

[77] Ivi, p. 13 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 15 gennaio 1929).

[78] Stefan Zweig/Friderike Zweig, «Wenn einen Augenblick die Wolken weichen». Briefwechsel 1912-1942, hrsg. v. J. B. Berlin, G. Kerschbaumer, Frankfurt a.M., Fischer, 2006, p. 220.

[79] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 22.

[80] Ivi, p. 43 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 22 settembre 1930).

[81] Ivi, p. 80 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 18 settembre 1932).

[82] Ivi, p. 161 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 13 aprile 1934).

[83] Ivi, p. 162 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 13 aprile 1934).

[84] Ivi, p. 179 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 15 luglio 1934).

[85] «Es ist keine bestimmte Krankheit. Jeden Tag bringt und erzeugt andere Symptome», ivi, p. 319 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 29 maggio 1936).

[86] «Ich muß dringend Geld nach Wien schicken», ivi, p. 45 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 23 settembre 1930).

[87] Ivi, p. 25 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 5 settembre 1929).

[88] Ivi, p. 87 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 26 ottobre 1932).

[89] Ibid.

[90] Ivi, p. 110 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 19 luglio 1933).

[91] Ivi, p. 144 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 14 gennaio 1934).

[92] Cfr. H. Lunzer, Nachwort, in ivi, p. 588.

[93] Cfr. Volker Weidermann, Die Hölle regiert! Stefan Zweig und Joseph Roth – eine Freundschaft in Briefen, in Das Buch der verbrannten Bücher, hrsg. v. V. Weidermann, Köln, Kiepenheuer & Witsch, 2008, pp. 237-238.

[94] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 34 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 20 giugno 1930).

[95] Ivi, p. 254 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 18 ottobre 1935).

[96] Cfr. V. Weidermann, Die Hölle regiert!, p. 232.

[97] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 90 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 18 gennaio 1933).

[98] Ivi, p. 141 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 22 dicembre 1933).

[99] Ivi, p. 37 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 27 giugno 1930).

[100] Ivi, p. 276 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 20 gennaio 1936).

[101] Ivi, p. 327 (lettera di S. Zweig a J. Roth, fine giugno 1936).

[102] Ivi, p. 328 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 4 luglio 1936).

[103] Volker Weidermann, Ostende. 1936, Sommer der Freundschaft, München, btb, 2017, p. 161.

[104] Ivi, p. 374 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 10 ottobre 1938).

[105] Ivi, p. 363 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 17 ottobre 1937).

[106] Ivi, p. 179 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 16 luglio 1934).

[107] Ivi, p. 199 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 21 luglio 1934).

[108] Ivi, p. 218 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 9 ottobre 1934).

[109] Ivi, p. 180 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 16 luglio 1934).

[110] Ivi, p. 200 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 21 luglio 1934).

[111] Ivi, p. 295 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 22 marzo 1936).

[112] Ivi, p. 282 (lettera di J. Roth a S. Zweig, fine gennaio 1936).

[113] Ibid.

[114] Ivi, p. 211 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 9 settembre 1934).

[115] Ivi, p. 308 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 30 aprile 1936).

[116] Ivi, p. 197 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 luglio 1934).

[117] Ivi, p. 358.

[118] Ivi, p. 364.

[119] Ivi, p. 363 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 17 ottobre 1937).

[120] Ivi, p. 374 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 17 dicembre 1938).

[121] Ivi, p. 369 (lettera di S. Zweig a J. Roth, prima del 10 gennaio 1938).

[122] Ivi, p. 367.

[123] Ivi, p. 371 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 13 luglio 1938).

[124] Ivi, p. 80 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 18 settembre 1932).

[125] Ivi, p. 81.

[126] Ivi, p. 84 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 24 settembre 1932).

[127] Ivi, p. 189 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 20 luglio 1934).

[128] Ivi, p. 170 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 22 giugno 1934).

[129] Ivi, p. 100.

[130] Ivi, p. 128 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 7 novembre 1933).

[131] Ivi, p. 129.

[132] Ivi, p. 360 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 8 ottobre 1937). Zweig, ben consapevole delle potenziali conseguenze negative della propria indole conciliante, non contraddirà Roth in questa accusa, sostenendo anzi, nella sua epistola di risposta del 10 ottobre 1937: «Ich widerspreche nicht, wenn Sie mir sagen, daß ich flüchte. Wenn man Entscheidungen nicht durchkämpfen kann, soll man vor ihnen davonlaufen – Sie vergessen, Sie, mein Freund, daß ich mein Problem im «Erasmus» öffentlich gestellt habe [] Ich verstecke mich nicht, schließlich ist der Erasmus da, in dem ich auch die sogenannte Feigheit einer concilianten Natur darstelle ohne sie zu rühmen, ohne sie zu verteidigen – als Faktum, als Schicksal». (ivi, p. 361).

[133] Ivi, p. 374 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 10 ottobre 1938).

[134] Ivi, p. 358 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 8 ottobre 1937).

[135] H. Lunzer, Nachwort, in J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 589.

[136] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 179 (lettera di S. Zweig a J. Roth, 16 luglio 1934).

[137] H. Lunzer, Nachwort, in ivi, p. 589.

[138] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 202 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 21 e 27 luglio 1934).

[139] Ivi, p. 30 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 1 aprile 1930).

[140] Ivi, p. 60 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 24 marzo 1931).

[141] Ivi, p. 32 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 19 maggio 1930).

[142] Ivi, p. 89 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 15 dicembre 1932).

[143] Ivi, p. 251 (lettera di J. Roth a S. Zweig, 1 settembre 1935).

[144] «Wie geht es Roth? Ich grüße ihn von Herzen» (lettera di E. Weiß a S. Zweig, 18 agosto 1936), Stefan Zweig Collection in The Daniel A. Reed Library, State University if New York, College at Fredonia, Fredonia, New York.

[145] «Roth sah ich gestern, fand ihn klar und heiter, humoristisch sogar» (lettera di E. Weiß a S. Zweig, 24 dicembre 1935), ibid.; «Rothi ist wieder hier und sehr vorteilhaft verändert, denn Irmg. K. und mir ist es gelungen, ihn zur Arbeit zu bringen» (lettera di F. Zweig a S. Zweig, 27 maggio 1937), Erben Stefan Zweigs, London; «Roth sitzt nebenan im Gasthaus u. arbeitet» (lettera di F. Zweig a S. Zweig, 15 giugno 1937), ibid.

[146] «Der arme Roth, der gescheit und hellseherisch genug wäre und mir auch etwas Charakteristisches über Dich sagte, ist zu sehr eingesponnen in die Dämonenwelt, in die er sich und seine Frau verstrickt hat» (lettera di F. Zweig a S. Zweig, 18 luglio 1938), S. Zweig/F. Zweig, Briefwechsel 1912-1942, p. 228; «ich fürchte, niemand hat Einfluß auf ihn» (lettera di E. Weiß a S. Zweig, 9 luglio 1934), Stefan Zweig Collection in The Daniel A. Reed Library; «Roth habe ich gesehen, aber einen ziemlich zwiespältigen Eindruck gewonnen, er war furchtbar gereizt» (lettera di E. Weiß a S. Zweig, 26 giugno 1934), ibid.

[147] S. Zweig/F. Zweig, Briefwechsel 1912-1942, p. 235 (lettera di S. Zweig a F. Zweig, 20 agosto 1930).

[148] «He should have known that we published the last few books more because of your faith in his eventual recovery than for any other reason» (lettera di B. W. Huebsch a S. Zweig, 28 febbraio 1937), Benjamin Huebsch Collection in The Library of Congress, Washington D.C., nr. 431.

[149] B. W. Huebsch a S. Zweig, 28 aprile 1939, ivi, nr. 559.

[150] A Friderike Stefan Zweig confesserà: «Ich habe gegen wenig Menschen ein so gutes Gewissen» (lettera di S. Zweig a F. Zweig, 12 dicembre 1936), Stefan Zweig Collection in The Daniel A. Reed Library.

[151] Stefan Zweigs Nachruf an Joseph Roth, The Sunday Times, London, 28 maggio 1939.

[152] Ibid.

[153] Ibid.

[154] S. Zweig/F. Zweig, Briefwechsel 1912-1942, p. 367. Il riferimento è qui agli intellettuali emigrati che hanno deciso di abbandonare spontaneamente la vita. Il fatto che tra di essi Zweig annoveri anche Roth, deceduto formalmente a causa di una polmonite bilaterale non repentinamente diagnosticata, peggiorata da una crisi di delirium tremens, è piuttosto eloquente circa il suo pensiero riguardo alla morte dell’amico. Da sempre Zweig aveva infatti intuito come lo stile di vita sregolato di Roth fosse una sorta di punizione autoinflitta derivante da un connaturato malessere interiore; gli infiniti ammonimenti auspicanti un mutamento di rotta rivelavano già dunque il timore un suicidio a piccole dosi mascherato da morte naturale.

[155] Stefan Zweig, Der Kampf mit dem Dämon. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, Frankfurt a.M., Fischer, 1982, p. 191.

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158] Ivi, p. 200.

[159] Ivi, p. 199.

[160] Ivi, p. 197.

[161] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 374.

[162] Joseph Roth, Hiob. Roman eines einfachen Mannes, Köln, Kiepenheuer & Witsch, 1982, p. 55.

[163] J. Roth/S. Zweig, Briefwechsel 1927-1938, p. 239.