Alessandra Goggio

(Milano)

Con un colpo di spugna e sapone “Gallseife”
La rielaborazione del passato nazionalsocialista
in «Heimat» di Nora Krug

[With a wipe of a sponge and “Gallseife” soap
The Reworking of the Nazi past in Nora Krug’s «Heimat»]

abstract. This paper intends to show how and to what extent the practices of postmemo­ry (Hirsch) and “cumulative heroization” (Welzer), which are typical of the so-called generation of grandchildren in Germany, are embedded in Nora Krug’s graphic novel Heimat. Ein deutsches Familienalbum [Heimat. A German Family Album] (2018). It will be shown how these practices contribute to creating a work that in the end idealizes the German and family (Nazi) past rather than coming to terms with it, thus also reiterating a Germano-centric concept of Heimat.

«Das Erbe der Vergangenheit, es lässt die deutschen Schriftsteller nicht los. Nun drängt sie, heftiger denn je, in den Blick der Enkelkinder»[1]: con queste parole, ormai quasi venti anni fa, il critico Volker Hage constatava un cambio generazionale nella letteratura di lingua tedesca incentrata sulla rielaborazione del passato, in particolare quello relativo alla dittatura nazionalsocialista e alla Seconda guerra mondiale. Ai cosiddetti “figli”, le cui voci si erano levate spesso cariche di rabbia nei confronti dei loro genitori, accusati di essersi rinchiusi in un ostinato e obliante silenzio, subentravano per l’appunto i “nipoti”, pronti a raccogliere il testimone della storia – intesa non tanto come storiografia ufficiale bensì piuttosto come sua ricostruzione narrativa – e a interrogarsi sia sulle colpe degli avi che sulle loro responsabilità in qualità di “eredi” di un passato criminoso e non ancora del tutto rielaborato. Strumento d’indagine (e d’invenzione) privilegiato di questi giovani autori divenne ben presto un genere tradizionale della letteratura di lingua tedesca, il Familienroman, che vide di fatto, nei primi due decenni del nuovo millennio, un vero e proprio “boom” che solo ora sta lentamente volgendo al suo naturale termine.

Tuttavia, questa sete di sapere dei nipoti non pare affievolirsi: continuano infatti a indagare sul passato della loro nazione, ma soprattutto a interrogarsi su come questo abbia influito e ancora influisca su un’identità, quella tedesca, oggi destinata a delinearsi a partire anche proprio dalla consapevolezza dei crimini commessi dal popolo tedesco e dall’urgenza di mantenerne viva la memoria[2]. Mutato pare essere però il modo con cui le giovani generazioni si approcciano a questo argomento, ricorrendo sempre più spesso a nuove forme espressive talora sperimentali e/o che esulano dalla scrittura letteraria stricto sensu: è anzitutto il fumetto, con la sua mistione di parole e immagini e nella sua declinazione “adulta” del graphic novel, ad affascinare gli “ultimi” nipoti[3]. Sdoganata, seppur in contesto differente (ma pur sempre complementare), già dalla generazione dei “figli” grazie al capolavoro di Art Spiegelman Maus (1980-1991), nell’ultimo decennio circa questa «unica forma d’arte figlia del nostro tempo»[4] è stata sempre più spesso sfruttata per il confronto con il passato nazionalsocialista da parte di giovani artisti, vogliosi anche di aprirsi a nuovi pubblici, ad esempio quello dei ragazzi. Dalla commistione, dunque, fra un genere “nuovo” come il graphic novel e un tema potremmo dire doppiamente “vecchio”, in quanto da un lato dominante nel panorama culturale tedesco da ormai molti decenni, dall’altro imperniato su un passato che a livello materiale si allontana sempre più dal presente, sono nate numerose opere che confermano la volontà più viva che mai di confrontarsi con la Storia del proprio paese e, segnatamente, con quella privata della propria famiglia, rendendo altresì concretamente visibile il processo di scavo archeologico e di costruzione della memoria compiuto. Esempi concreti di questa recente tendenza sono titoli come Großväterland (2015)[5], romanzo grafico a episodi nato dalla collaborazione fra l’illustratore Markus Freise e lo storico Christian Hardinghaus e basato su alcune testimonianze dirette dei “nonni” – vale a dire donne e uomini tedeschi che hanno vissuto in prima persona il periodo della Seconda guerra mondiale; Irmina (2014)[6], graphic novel di Barbara Yelin in cui, sulla scorta di una figura di fantasia, è rielaborata la storia della nonna dell’autrice durante il Terzo Reich, con un focus specifico sulla sua ambigua posizione di Mitläuferin; o ancora Heimat (2018)[7], un «album di famiglia» – così il sottotitolo – nel quale l’illustratrice tedesca (ma da lungo tempo residente negli Stati Uniti) Nora Krug, unendo testo, illustrazioni, fotografie, documenti ufficiali e vari cimeli si propone di ricostruire il passato sinora taciuto dei suoi antenati.

È proprio quest’ultima opera a rivelarsi particolarmente stimolante per un’indagine volta a mettere in luce come, ancor più che in letteratura – ove la parola, pur con il suo potere evocativo di riproduzione e conversione delle immagini[8], non può supplire del tutto alla mancanza della dimensione visiva –, nel graphic novel la costruzione della memoria comunicativa e famigliare e il suo intrecciarsi con quella collettiva si rendono strutturalmente manifesti, divenendo tangibili nella loro processualità. Prodotti artistico-documentari come Heimat, infatti, oltre servirsi di strategie già in larga misura impiegate dal Familienroman contemporaneo, come una certa episodicità e frammentarietà della narrazione, sono in grado di riprodurre e (rap)presentare l’atto mnestico inteso non solo come mero

Archivieren und Speichern abgeschlossener und damit statisch gewordener Vergangenheiten, sondern […] als performativer Prozess, der seinen Gegenstand konstituiert, inszeniert, re-inszeniert und dabei ständig modifiziert und in dessen Verlauf immer wieder neue Modelle und Medien des Erinnerns vorgebracht werden.[9]

In tale contesto, essi fungono inoltre spesso da simbolico punto di cristallizzazione di differenti topoi dominanti i meccanismi sociali (e di conseguenza spesso anche letterari) di costruzione della memoria soprattutto famigliare, quali la tendenza a trasformare le reminiscenze altrui in ricordi “propri”, tipica di quel particolare tipo di memoria delle generazioni più giovani che Marianne Hirsch definisce appunto «postmemory»[10], la propensione a discolpare i propri avi e a sottoporli a una kumulative Heroisierung[11] («eroicizzazione cumulativa»), e infine, la volontà – ambigua per sua natura – di costruire un archivio personale e famigliare, dove conservare, ma allo stesso tempo anche nascondere alla vista, il passato o parti di esso.

Heimat offre quindi la possibilità di osservare in maniera vivida ed esemplare come, quantunque sia possibile constatare un mutamento di paradigma nel medium scelto, all’espressione estetica dei “nuovi” nipoti non corrisponda necessariamente un affrancamento da modelli memoriali ormai catacresizzati; l’opera di Krug (di)mostra anzi – in maniera più o meno consapevole – come ancora a distanza di così tanti anni dalla dittatura nazionalsocialista e dalla Seconda guerra mondiale e di fronte ormai alla definitiva scomparsa della generazione dei testimoni diretti, la costruzione e trasmissione del ricordo di questo periodo siano “condannati” a rimanere incatenati a modalità mnestiche tramandatesi nel tempo e che nel loro continuo reiterarsi non solo non permettono di raggiungere un nuovo stadio all’interno del processo di Vergangenheitsbewältigung, ma rischiano di vanificarne gli obiettivi, portando addirittura alla rimozione di alcuni aspetti del passato e a un suo superamento in nome non tanto di un confronto critico con esso quanto piuttosto di una generica assoluzione dalle colpe “tedesche”.

1. Da Familienroman a Familienalbum

Onde meglio comprendere il tipo di procedimento mnestico presente alla base di Heimat così come esso si allontani parzialmente dal classico genere del graphic novel, è necessario innanzitutto evidenziare alcune peculiarità della sua struttura. L’opera, aperta da una sorta di prologo e chiusa da un vero e proprio Nachwort, è suddivisa in 15 capitoli nei quali si alternano classiche tavole fumettistiche suddivise in vignette corredate di didascalie e/o nuvolette, illustrazioni (talora anche rifacimenti di dipinti celebri della cultura tedesca) a tutta pagina, collage di disegni, fotografie, riproduzioni di oggetti e documenti reali. I singoli capitoli sono inoltre arricchiti da elementi ricorrenti quali le pagine del cosiddetto «catalogo delle cose tedesche», che offrono rappresentazioni grafiche di manufatti e prodotti tipici tedeschi corredate da un commento sia generale che personale, e quelle dedicate ai cosiddetti Flohmartkfunde, sulle quali sono montati a mo’ di collage cimeli risalenti al periodo della dittatura e della Seconda guerra mondiale raccolti dall’autrice presso alcuni mercatini delle pulci; oltre a denotare culturalmente l’opera, tali tavole ricoprono anche una funzione narrativa in quanto riprendono, modulano e re-interpretano gli argomenti esposti nelle pagine immediatamente precedenti o successive.

Al di là di quelle che sono particolarità attinenti alla dimensione visiva, è da sottolineare come la struttura di Heimat – sul titolo e il rapporto dell’opera con questo concetto così tedesco torneremo più tardi – rispecchi quella di molti Familienromane contemporanei: voce narrante in prima persona delle vicende è una giovane donna – inequivocabilmente identificabile con la stessa Krug – residente negli Stati Uniti, dove si è trasferita alcuni anni prima dalla Germania. Proprio in America, dove il suo essere tedesca viene di continuo accostato, ora in situazioni delicate ora invece in maniera canzonatoria[12], all’oscuro passato della sua nazione, si fa strada in lei una nostalgia che non manca di tradire anche un certo orgoglio nei confronti della propria Heimat[13], sentita come tale a livello emozionale ma impossibile da definire e identificare sul piano razionale. Per questo motivo ella decide di intraprendere un viaggio – quasi una Wanderung, come esplicitato visivamente dall’immagine ripresa anche in copertina, che la ritrae di spalle in una versione attualizzata di uno dei dipinti simbolo par excellence della cultura tedesca, il Wanderer über dem Nebelmeer di C.D. Friedrich – alla ricerca delle proprie origini. Un viaggio, questo, che – Krug se ne rende conto ben presto – non può che portarla a confrontarsi con la recente storia della Germania e, in particolar modo, con il passato della sua famiglia:

Forse l’unico modo di trovare la HEIMAT che ho perso è voltarmi indietro; superare la vergogna astratta e fare le domande veramente difficili: sulla mia città natale, sulle famiglie di mio padre e di mia madre. Tornare nelle città dove loro due sono nati. Riandare alla mia infanzia, risalire all’inizio, seguire le briciole di pane e sperare che concludano a casa.[14]

Come una novella Gretel – si noti l’ulteriore allusione a un altro caposaldo della tradizione tedesca, le fiabe dei Fratelli Grimm – Krug si cala nella tipica posizione della nipote che, nel tentativo di tornare a “casa”, sceglie di interrogare la storia famigliare, sino ad allora occultata da un ostinato silenzio, e dà avvio a un lavoro di ricerca che la porta infine a tornare fisicamente in Germania e a muoversi fra reliquie di famiglia, materiali d’archivio e testimonianze dirette di alcuni Zeitzeugen e dei loro discendenti, assumendo quasi il ruolo di una “detective”[15]. Il riferimento al complesso famigliare è – quasi a sostituire l’etichetta di genere “Familienroman” – reso inoltre sin da subito evidente nell’opera: sui risguardi del volume sono infatti riprodotti gli alberi genealogici – un collage di illustrazioni e fotografie di volti – dei due rami, materno e paterno, della famiglia di Krug. Due sono anche le figure su cui si concentra l’attenzione dell’autrice e le cui biografie – insieme a vicende che coinvolgono altri membri dei due nuclei famigliari – vengono (ri)costruite, in ordine cronologico, in capitoli fra loro più o meno regolarmente alternati: da una parte vi è lo zio Franz-Karl, fratello del padre di Krug, nato nel 1926, arruolato giovanissimo nelle SS, caduto in Italia nel 1944 e divenuto, attraverso una catena di silenzi e omissioni di generazione in generazione, un vero e proprio tabù nel discorso famigliare; dall’altra vi è il nonno materno, Willi, morto quando l’autrice aveva poco più di dieci anni, la cui posizione durante il dodicennio nero rappresenta un altro vero e proprio “vuoto” nella storia della famiglia[16].

Così come avviene in molti Familienromane contemporanei, anche Heimat erge a ideale interlocutore della generazione dei nipoti quella dei testimoni diretti, cercando così di superare il muro di silenzio e reticenza eretto fra quest’ultimi e i cosiddetti Nachgeborene; tuttavia, la loro assenza fisica, il non poter più rispondere in prima persona a quelle “domande difficili” che l’autrice vorrebbe loro porre[17], impone anche in questo caso il ricorso, così come tipico nel genere letterario, a una «natura ibrida, a metà tra la ricerca documentaria e costruzione romanzesca» che stimola la «ricerca di tracce ulteriori che vadano a integrare l’immagine incompleta da loro fornita degli antenati»[18]. Una ricerca, questa, che nel caso di Heimat, acquisisce una dimensione visuale concreta: se, infatti, sulla scia di A. Schmidt prima, e Kluge, Kempowski, Sebald (e altri) poi[19], il nesso fra immagine e parola, spesso inteso anche come traduzione di quest’ultima in materiale verbale, ha rappresentato, anche per la più giovane generazione di autori, un fruttuoso espediente per dare forma al ricordo e colmare la memoria lacunosa ereditata dai propri avi[20], Krug, servendosi di una forma intermediale che unisce, giustapponendole e combinandole fra loro, fotografie e illustrazioni con porzioni di testo, offre una concretizzazione visuale della tecnica del «Fotoalbum» di A. Schmidt[21], ampliando però l’individualità e soggettività del ricordo (Erinnerung) alla prospettiva plurale e intergenerazionale del Familiengedächtnis e dando così vita a quel Familienalbum evocato dal sottotitolo.

Questa singolare struttura dell’opera, che alterna visualità e verbalità, fa tuttavia sì che la pur lasca ma ormai canonica definizione del graphic novel quale «libro figurativo che racconta una storia lunga o molte storie brevi, in modo seriale o autoconcluso, rispettando le convenzioni tipiche del fumetto o veicolando istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche»[22] non risulti esauriente: Heimat non si limita a raccontare – e tantomeno in maniera autoconclusa – una storia, quella di Krug e della sua famiglia, né rispetta le convenzioni tipiche del fumetto, impiegate quasi esclusivamente per dare espressione all’immaginazione dell’autrice, bensì realizza, attraverso la giustapposizione di differenti immagini e testi, un atto di ri-scrittura e ri-visualizzazione – dunque di ricordo ma anche di manipolazione – del passato[23]. Questo procedimento, che mostra lampanti somiglianze all’attività dello scrapbooking[24], prende letteralmente forma davanti gli occhi del lettore e sfocia così in una «material manifestation of memory»[25] che, come già anticipato, rende visibili alcune strategie che guidano il lavoro mnestico portato avanti dalle giovani generazioni, come il principio della post-memory e quello di Erzählcollage, inteso come rimaneggiamento, spesso con intento eroicizzante e assolvente[26], delle testimonianze dei “nonni”.

2. Opa war (k)ein Nazi = Ich bin kein Nazi – fra post-memory ed eroicizzazione cumulativa

Il concetto di post-memory, elaborato dalla studiosa americana di origini rumene Marianne Hirsch a partire dall’attenta osservazione di varie prassi di trasmissione intergenerazionale della memoria famigliare, nello specifico in relazione al trauma della shoah, indica non tanto un specifico tipo di memoria, quanto piuttosto una procedura di (ap)percezione dell’esperienza altrui – nello specifico della/e generazione/i precedente/i – e di sua trasformazione in una «witness by adoption»[27], vale a dire in uno (pseudo-)ricordo sentito e a sua volta successivamente tràdito come proprio. I prodotti della post-memory sono sì «distinct from the recall of contemporary witnesses and participants»[28] a livello di veridicità oggettiva ma allo stesso tempo del tutto simili al ricordo originale nella loro forza affettiva[29]. Secondo Hirsch, la post-memory costituisce quindi quella «struttura» mnestica e allo stesso tempo creativa che definisce il rapporto

that the generation after those who witnessed cultural or collective trauma bears to the experiences of those who came before, experiences that they “remember” only by means of the stories, images, and behaviors among which they grew up. But these experiences were transmitted to them so deeply and affectively as to seem to constitute memories in their own right. Postmemory’s connection to the past is thus not actually mediated by recall but by imaginative investment, projection, and creation.[30]

Nell’appropriarsi, seppur solo su un piano ideale, delle esperienze dei propri avi e nell’organizzarle secondo schemi cognitivo-narrativi differenti, la giovane generazione opera nella maggior parte dei casi altresì una riattivazione e reiterazione del trauma che accentua punti di rottura e fratture radicali da esso causati[31] nella storia collettiva e in primis famigliare, alla quale corrisponde d’altro canto un «work of […] attempted repair»[32] e di successiva trasmissione intergenerazionale della memoria che mira a tramandare un’immagine “ripulita” e intatta del passato, cancellandone così importanti aspetti che dovrebbero invece essere preservati anche per il loro intrinseco valore di monito per il futuro.

Fra i supporti mediali che più favoriscono il funzionamento della post-memory, Hirsch mette in risalto le fotografie e, nello specifico, la loro organizzazione negli album di famiglia[33]. Le immagini fotografiche assolvono infatti in tale contesto a una duplice funzione: da un lato, nella loro capacità di evocare nell’osservatore un nesso affettivo – un amore folle e doloroso, direbbe Barthes[34] – nei confronti delle figure e delle situazioni ritratte, rafforzano ancor di più i rapporti fra le generazioni di uno stesso nucleo famigliare, permettendo agli eredi, assenti al momento dello scatto, un (illusorio) accesso all’evento stesso che ne facilita così l’appropriazione a livello memoriale; dall’altro contribuiscono, grazie alla loro disposizione secondo paradigmi predefiniti che rispecchiano l’influsso della cultura collettiva e delle sue «Erinnerungsfiguren»[35], al consolidamento non solo dell’immagine pubblica della famiglia[36], ma anche di determinati schemi “tradizionali” di trasmissione della storia[37], reiterandoli (o ricusandoli) talora anche inconsciamente.

Sebbene lo studio di Hirsch nasca prendendo in considerazione le vittime della shoah e i meccanismi di trasmissione delle esperienze legate a questo preciso avvenimento, diviene plausibile, considerando altresì la tendenza di testimoni tedeschi dell’epoca a servirsi di modelli di rappresentazione del proprio passato plagiati da quelli delle reali vittime[38], ricorrere al concetto di post-memory per illustrare anche il processo di trasmissione della memoria che avviene all’interno delle famiglie dei “perpetratori” e di cui Heimat offre una rappresentazione grafica. Infatti, «[b]y oscillating between factual artifact and historically unverifiable scene, Krug creates the feeling of presenting the reader with an autobiographical story but this illusion in fact reflects the ways that she is forming her own subjective reading of the past and shaping it in the way that she wants and in turn sharing that with the reader»[39]. Riproducendo fotografie e documenti originali, sia privati che d’archivio – a partire dai temi scolastici di Franz-Karl, in cui lo zio, allora tredicenne, paragona gli ebrei a funghi esteticamente piacevoli ma terribilmente velenosi e dunque da evitare con accuratezza[40], sino ad arrivare ai Fragebogen compilati nel 1946 dal nonno Willi[41] –, e inserendoli, secondo un ordine ben preciso, all’interno di un collage fatto di giustapposizioni, sovrapposizioni e ritagli che sulla pagina non conosce confini netti fra materiale autentico e illustrazioni nate dalla sua fantasia creatrice, Krug inscena, a livello grafico-visivo, proprio il principio della post-memory. Sintomatici a tal proposito sono sia la grafia utilizzata per le parti testuali (il cosiddetto lettering) che lo stile impiegato nelle illustrazioni. In relazione alla prima è significativo come le testimonianze orali di terzi vengano riportate con il lettering orginale dell’autrice, che in questo modo fa “proprie” le parole altrui. Per quanto concerne invece la dimensione squisitamente visiva, l’appropriazione del ricordo risulta del tutto palese anzitutto in quelle tavole nelle quali Krug rappresenta singoli momenti della vita dei suoi avi per la cui narrazione non ha a disposizione alcun documento fotografico o d’archivio ma solo testimonianze orali[42] oppure, in assenza anche di quest’ultime, si abbandona a presupporre quanto sia o meno accaduto[43]: è infatti perlopiù in questi casi che l’autrice fa ricorso alla struttura classica del fumetto, dividendo la pagina in vignette e facendo uso di nuvolette e didascalie. In aggiunta a ciò, queste parti sono contraddistinte da uno stile che rievoca «il tratto infantile o le illustrazioni di un libro di fiabe»[44] e che appunto “visualizza” una tendenza tipica degli appartenenti alla generazione della post-memory, vale a dire quella di percepire (e in seguito riprodurre) quando accaduto ai propri avi e giunto loro solo in maniera frammentaria come una «enigmatic but real fairy tale»[45], dunque come una finzione che, tuttavia, si comporta, almeno nei suoi risvolti affettivi, come una memoria “originale” da trasmettere ai futuri eredi della famiglia[46].

La ricerca dell’autrice della propria Heimat e del passato (nascosto) della propria famiglia è dunque leggibile come una storia, intesa come narrazione, in questo caso grafica, che è al tempo stesso memoria e costruzione attiva della stessa. I frequenti e palesi interventi dell’autrice nell’organizzazione dei materiali originali e a loro commento, quali, ad esempio, didascalie, riquadri di testo posizionati sui documenti come post it, parole in libertà scribacchiate su fotografie, configurazioni testo/immagine che, chiaramente, rispecchiano le sue intenzioni artistiche ma anche, potremmo dire, morali, esemplificano di fatto quell’azione manipolatrice che si compie nel passaggio del ricordo fra una generazione e l’altra e che segue finalità consce ed individuali ma, al contempo, anche collettive e subconsce poiché ereditate sia dalla memoria famigliare che da quella collettiva – esplicitate in questo caso dall’impiego di alcune convenzioni tipicamente tedesche del processo mnestico che, dietro l’apparente volontà di lasciare il giudizio in sospeso, guidano invece il lettore[47] a emettere una implicita sentenza di assoluzione nei confronti dei protagonisti delle vicende narrate.

A tal proposito l’opera è interpretabile come un tentativo di riparazione della storia famigliare e non solo – tentativo che viene esplicitato anche a livello sia visivo che strutturale: la parabola narrativa di Heimat si apre e si chiude infatti con due pagine tratte dal già citato «catalogo delle cose tedesche» sulle quali sono riprodotti, accompagnati da un breve commento, rispettivamente il cerotto Hansaplast (in apertura) e la colla Uhu (in chiusura). Se al primo, nelle parole della stessa Krug, è assegnata la simbolica funzione di rievocare non tanto la ferita quanto piuttosto la cicatrice lasciata dall’esperienza del Nazionalsocialismo e della guerra nella popolazione tedesca sino ad oggi[48], il famoso attaccatutto si erge invece a metafora del percorso intrapreso all’interno dell’opera, a livello anche formale, attraverso la tecnica del collage, indiscutibilmente contraddistinto dalla volontà di “aggiustare” il passato riunendo vari “pezzi” della storia sparpagliati qua e là e di riportare l’oggetto di rappresentazione, vale a dire la famiglia, alla sua unità e “bellezza” originaria.

Tuttavia, come ammette la narratrice stessa, «[a]nche se la Uhu è la colla più forte che esista, non riesce a nascondere le crepe»[49]: le fratture del passato non possono essere cancellate e continuano – riprendendo così anche le immagini iniziali del cerotto e della cicatrice e dando forma ciclica all’opera – a rimanere visibili, assumendo però un valore differente. Ciò non impedisce a Krug di dare vita, attraverso il suo lavoro di attenta selezione e ricomposizione dei frammenti del passato dove la sua inventività artistica funge da “colla”, a una nuova immagine della famiglia che, grazie all’impiego, come già accennato, a meccanismi di trasmissione della memoria famigliare tipici della popolazione tedesca, sgrava le future generazioni dal peso della colpa e della vergogna. È proprio in questo frangente, nell’operazione di “pulitura” del passato famigliare, che Heimat unisce la già citata funzione riparatrice della post-memory, di cui di solito si avvalgono i discendenti delle vittime di eventi traumatici come la shoah, a topoi comunicativi e interpretativi che tendono a “relativizzare’ il passato e che sono invece specifici degli eredi dei perpetratori, in questo caso dei “nipoti” tedeschi.

È infatti innegabile riconoscere in Heimat una concretizzazione di quell’ideale “album” del Terzo Reich caratterizzato da «Krieg und Heldentum, Leiden, Verzicht und Opferschaft, Faszination und Größenphantasien»[50] che i testimoni diretti hanno contribuito a creare con i loro racconti e che si è consolidato nel passaggio di generazione in generazione sino a creare un’immagine distorta, spesso addirittura implausibile del passato famigliare e tuttavia accettata senza riserve dagli eredi in quanto incline a rappresentare gli antenati – spesso conosciuti in prima persona come persone amorevoli e premurose – più come innocenti vittime che come brutali carnefici.

La ricostruzione (grafico-testuale) delle vicende famigliari esibisce difatti tutti quegli aspetti che lo studioso Harald Welzer e il suo team hanno constatato, sulla base di ricerche empiriche, essere caratteristici della trasmissione intergenerazionale dei ricordi relativi all’epoca del nazionalsocialismo all’interno delle famiglie tedesche: una certa frammentarietà e apertura all’interpretazione dei materiali e delle testimonianze a disposizione[51]; un forte valore emozionale degli avvenimenti trattati[52], reso più intenso laddove essi abbiano come protagonisti membri della propria famiglia non più in vita e perciò già avvolti da un’aura di dolore e lutto; una spiccata disponibilità degli eredi ad accettare ciò che viene loro trasmesso, senza confrontarvisi in maniera critica[53]. Quella “nebbia” che solitamente avvolge i racconti dei testimoni e li rende «in höchstem Maße deutungsoffen»[54] è presente anche all’interno di Heimat; anzi, essa viene in una certa misura resa ancora più fitta dall’amplificazione di dubbi e giustificazioni che mirano ad “assolvere’ (e quindi quasi a eroicizzare) gli avi, in particolare lo zio e il nonno. Così Franz-Karl, che si era fatto arruolare nelle SS senza alcuna resistenza, viene descritto, tramite le parole di un vecchio amico, riportate dall’autrice, come un giovane «Alto. / Biondo. / Atletico. / Un vero leader!»[55], come «Franz-Karl il buono»[56], un “eroe” caduto che nelle lettere spedite dall’Italia sottolineava la gentilezza della popolazione occupata e riportava i titoli dei film visti al cinema[57] tacendo chissà quali orrori compiuti al di fuori di quei «rari momenti per riposare»[58]. Allo stesso modo, la posizione di Willi di fronte agli avvenimenti della Notte dei cristalli rimane avvolta in un alone di mistero, quasi a suggerire l’idea di una sua poco plausibile totale estraneità alla vicenda. La sua adesione al partito nazionalsocialista, da lui stesso certificata nei Fragebogen che dovette compilare per gli alleati dopo il 1945 e inseriti nell’opera[59], viene invece sottoposta – anche questo un tipico atteggiamento sia dei testimoni diretti che degli eredi[60] – a un procedimento di giustificazione: che il nonno sia stato “obbligato” dalle circostanze a entrare nel partito non è sostenuto solo dalle lettere, sue e di alcuni testimoni, che egli stesso produsse al fine di essere classificato come “semplice” Mitläufer, bensì anche ex post, seppur implicitamente, dalla stessa Krug, che decide di inserire subito dopo questi documenti, anch’essi fedelmente riprodotti, un ulteriore oggetto dal suo «catalogo delle cose tedesche» – una fetta di pane – a suggerire l’inevitabilità della scelta del nonno, che aveva «giocoforza»[61] dovuto entrare nel partito per poter continuare a sostentare la propria famiglia. E anche in un altro punto dell’opera si trova un ulteriore tentativo di discolpa dall’afflato mitizzante: nel ricordare l’attività del nonno in qualità di istruttore di guida, l’autrice fantastica sulla provenienza del denaro con il quale Willi era stato in grado di rilevare la sua autoscuola, denaro che l’uomo sosteneva di aver ottenuto dalla latteria della moglie, ma in realtà forse proveniente dal suo ex datore di lavoro, un ebreo, che l’autrice vuole credere «gliel’avesse dato in cambio di un nascondiglio in un capanno appartato»[62]. Attraverso l’esposizione di quest’ipotesi – della cui plausibilità Krug non si occupa in nessuna misura – la figura del nonno subisce una palese eroicizzazione, che viene potenziata anche dalle parole di Walter, rappresentante della generazione degli “altri” Nachgeborene, figlio di un ebreo, quell’Albert che in una sua lettera aveva deposto a favore di Willi: «I miei avevano molti amici che si opponevano al regime e che fecero di tutto per aiutarli. Sono sicuro che anche suo nonno era tra loro»[63]. Questa affermazione – dotata di una certezza che Walter ostenta ma che non può essere ontologicamente supportata – “assolve”, seppur simbolicamente, Willi, che entra di diritto a far parte della schiera di quei “tedeschi buoni” che si erano in un certo senso “ribellati” al regime e avevano supportato gli ebrei. Un’assoluzione, quella profferta da Walter, che non si limita a “ripulire” l’immagine di Willi ma si estende anche all’autrice («– Non deve sentirsi in colpa, – dice Walter con tono sommesso e, con queste parole […] firma una testimonianza a mio favore»[64]) e a tutto il popolo tedesco: «Ho l’impressione che chi ha lasciato presto la Germania abbia finito col detestarla di più di chi ci è rimasto più a lungo e ha visto che anche i tedeschi hanno sofferto. La Germania ha pagato un caro prezzo con le riparazioni»[65]. La transizione da perpetratori a martiri, già spesso rivendicata dai testimoni diretti tedeschi nei racconti delle loro esperienze, è qui avvallata addirittura da una voce facente parte del gruppo delle vere “vittime”, aspetto che le conferisce maggiore autorevolezza e attendibilità. Così come la colpa – inflitta inizialmente dagli alleati occidentali ai tedeschi tutti – anche la sua revoca deve infatti arrivare dall’esterno; con le parole di Walter non è solo la coscienza di nonno Willi o della protagonista ad essere ripulita come attraverso un colpo di spugna e di Gallseife che, come ricordato nella tavola ad essa dedicata, agisce anche «contro le macchie più resistenti»[66], ma tutta la coscienza collettiva tedesca, di cui Krug si erge qui a portavoce e rappresentante, e per la quale l’opera, pur tentando di mantenere un’illusoria imparzialità, rappresenta una sorta di enorme Persilschein.

3. Conclusioni

È dunque necessario riflettere brevemente su due ulteriori concetti fondamentali per la lettura e interpretazione dell’opera, vale a dire quello di archivio e quello, evidenziato anche dal titolo, di Heimat. Per quanto concerne il primo è palese che il lavoro di selezione e organizzazione dei documenti in forma di album di famiglia sia, come tipico per questo “genere”, guidato da una rigida «Gestaltungswille»[67] che manifesta a livello visivo il principio basilare dell’archivio stesso, vale a dire la sua funzione di luogo, fisico o astratto, nel quale si esprime un dominio[68] che si esplicita non solo nei confronti del materiale che in esso viene (o meno) conservato ma anche del suo valore per le future generazioni. Come sostiene Derrida, «la funzione tecnica dell’archivio archiviante determina anche la struttura del contenuto archiviabile nel suo stesso sorgere e nel rapporto con l’avvenire»[69]. L’atto dell’archiviare risulta, proprio come la post-memory stessa, un gesto di presa di possesso e di messa a disposizione per il futuro del suo stesso contenuto che prevede quindi non solo una conservazione della memoria, bensì anche una sua parziale modifica e in taluni casi addirittura la rimozione di sue parti: l’archivio creato dall’autrice – e che l’opera aspiri a riprodurre la struttura di un archivio è desumibile dal fatto che la narrazione sia delimitata da due tavole che riproducono graficamente la copertina di un faldone – trascegliendo materiali e inserendoli in una cornice finzionale dà vita a una Vergangenheitsbewältigung che da un lato, come visto, impiega modelli e topoi interpretativi talora volti all’idealizzazione ed eroicizzazione delle gesta dei membri della propria famiglia, e dall’altro, pur servendosi di elementi che ne riprendono la rappresentazione, tende alla rimozione sistematica dell’altro lato della medaglia della memoria collettiva tedesca, vale a dire della shoah[70], di fatto allontanandola dall’orizzonte del ricordo. Ad esclusione del prologo e del primo capitolo, infatti, nel resto dell’opera, salvo alcuni sporadici riferimenti, Krug pare quasi evitare con accuratezza questo argomento.

Di conseguenza la volontà dell’autrice di ricercare le proprie origini collettive e famigliari, che pur nasce dal diffuso senso di colpa per il ruolo di “carnefici” che i tedeschi ricoprirono, porta al raggiungimento e al riconoscimento di una Heimat che, nel suo ambivalente iter di costruzione fra apertura e chiusura[71], omette quasi deliberatamente proprio quella parte del passato tedesco, la cui memoria – o meglio, per quanto concerne i nipoti, la responsabilità di tale memoria – dovrebbe costituirne una parte fondante. In questo modo l’opera, che pone la parola Heimat in primo piano, ergendola addirittura a titolo[72], si inserisce appieno anche in quel complesso dibattito relativo a questo concetto che ha ripreso vigore in Germania negli ultimi anni, specie dopo la discesa in campo di Alternative für Deutschland, definitosi con orgoglio una Heimatpartei, o ancora, la ridenominazione, nel 2018, del Bundesministerium des Innern in Bundesministerium des Innern für Bau und Heimat, andando così a rafforzare un’interpretazione “tedescocentrica” di questo termine, che esclude l’“altro” – un’esclusione che nell’opera avviene all’interno della dimensione mnestica, ma che rischia, inevitabilmente, di riflettersi anche nel presente, reiterando modelli di estromissione dalla società cosiddetta maggioritaria già rivelatisi catastrofici in passato.

In ultima analisi Heimat può quindi considerarsi appieno ciò che il sottotitolo evoca, ossia un «ein deutsches Familienalbum», dove l’aggettivo deutsch non indica tanto la provenienza della famiglia, quanto piuttosto il sostrato culturale di cui l’opera stessa nella sua conformazione si nutre, non solo dal momento che si occupa di cose tedesche, ma in primis perché inscena, a un livello che potremmo definire performativo, la dimensione processuale del ricordo e l’instaurazione di un dialogo fra il passato, la cui insistente e innegabile esistenza erompe dalle fotografie riprodotte, che attestano per loro natura che ciò che si vede «è effettivamente stato»[73], e una dimensione temporale altra, che scaturisce sì dal presente, dalle ricerche dell’autrice stessa, ma che, nel suo concretizzarsi, rimane sempre finzionale e in grado di manipolare in maniera sostanziale la contestualizzazione delle immagini e dei documenti fattuali. Heimat, dunque, non riproduce solo un atto di post-memory tout court, bensì una ben precisa declinazione, tutta tedesca, di appropriazione del ricordo famigliare e di sua metamorfosi in supporto mediale della memoria culturale e collettiva che nel tentativo dell’autrice, senza dubbio scaturito dalle migliori intenzioni, di ristabilire una connessione emotiva con la propria Heimat rimane, per riprendere una metafora impiegata nell’opera, troppo focalizzata sull’osservazione e la “cura” delle proprie cicatrici, che divengono quasi segni distintivi di un passato eccezionale, distogliendo del tutto lo sguardo dalle ferite inflitte all’“altro”. In questo senso l’opera non è da condannare a priori in quanto funge da significativa testimonianza culturale che rimarca come alcune errate impostazioni del processo di Vergangenheitsbewältigung – quali, ad esempio, l’attribuzione di una colpa collettiva ai tedeschi dai vincitori della Seconda guerra mondiale, soprattutto occidentali, ai tempi già aspramente criticata da figure come Hannah Arendt e Karl Jaspers – sprigionino un effetto latente ancora oggi, a distanza di decenni, nella coscienza delle nuove generazioni, le cui conseguenze, fra le quali è da evidenziare appunto una propensione all’idealizzazione del passato, sono pronte a riemergere come un fiume carsico e a riversarsi sia sul presente che sul futuro della nazione tedesca compromettendo il lavoro di confronto con la Storia sin qui compiuto.

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[1] Volker Hage, Die Enkel wollen es wissen, in «Der Spiegel», 12 (2003), p. 170.

[2] Si veda a tal proposito il discorso di Angela Merkel tenuto in occasione del decennale della fondazione della Stiftung Auschwitz-Birkenau: «Auschwitz war ein deutsches, von Deutschen betriebenes Vernichtungslager. Es ist mir wichtig, diese Tatsache zu betonen. Es ist wichtig, die Täter deutlich zu benennen. Das sind wir Deutschen den Opfern schuldig und uns selbst. An die Verbrechen zu erinnern, die Täter zu nennen und den Opfern ein würdiges Gedenken zu bewahren – das ist eine Verantwortung, die nicht endet. Sie ist nicht verhandelbar; und sie gehört untrennbar zu unserem Land. Uns dieser Verantwortung bewusst zu sein, ist fester Teil unserer nationalen Identität, unseres Selbstverständnisses als aufgeklärte und freiheitliche Gesellschaft, als Demokratie und Rechtsstaat». Angela Merkel, Rede von Bundeskanzlerin Merkel zum zehnjährigen Bestehen der Stiftung Auschwitz-Birkenau am 6. Dezember 2019 in Auschwitz, LINK (ultimo accesso: 3 giugno 2021).

[3] Se la quasi totalità dei “nipoti” attivi in campo letterario e dediti al Familienroman nel primo decennio del nuovo millennio era nata negli anni Sessanta, i protagonisti di questa “nuova” compagine sono invece venuti alla luce negli anni Settanta.

[4] Goffredo Fofi, L’unica forma d’arte figlia del nostro tempo, in «Tirature», 12 (2012), p. 10.

[5] Christian Hardinghaus – Markus Freise, Großväterland. Zeitzeugen erzählen vom Zweiten Weltkrieg, Panini Comics, Stuttgart 2016.

[6] Barbara Yelin, Irmina, Reprodukt, Berlin 2014.

[7] Nora Krug, Heimat. Ein deutsches Familienalbum, Penguin, München 2018.

[8] Monika Schmitz-Emans, Das visuelle Gedächtnis der Literatur. Allgemeine Überlegungen zur Beziehung zwischen Texten und Bildern, in Das visuelle Gedächtnis der Literatur, a cura di Manfred Schmeling – Monika Schmitz-Emans, Königshausen & Neumann, Würzburg 1999, p. 31.

[9] Erika Fischer-Lichte – Gertrud Lehnert, Einleitung. Der Sonderforschungsbereich “Kulturen des Performativen”, in «Paragrana», 9 (2000), 2, p. 14.

[10] Marianne Hirsch, The Generation of Postmemory, in «Poetics Today», 29 (2008), 1, pp. 103-128, passim.

[11] Harald Welzer – Sabine Moller – Karoline Tschuggnall, Opa war kein Nazi. Nationalsozialismus und Holocaust im Familiengedächtnis, Fischer, Frankfurt am Main 2015, p. 64.

[12] Si vedano, ad esempio, le tavole d’apertura – che costituiscono una sorta di prologo alla narrazione vera e propria – in cui è rievocato l’incontro con una donna scampata alla shoah, nei confronti della quale la protagonista ammette di provare un profondo senso di vergogna (Krug, Heimat, cit., prologo, tav. 4-5), o ancora le vignette dove, ricordando le proprie esperienze all’estero, Krug mostra come il “confessare” la sua identità di donna tedesca venisse spesso accolto dall’imitazione del saluto nazionalsocialista (ivi, cap. 1, tav. 11).

[13] Cfr. ivi, cap. 2, tav. 7: «Dopo dodici anni che vivo in America […] mi sento più tedesca che mai». Tutte le citazioni tradotte provengono dall’edizione italiana dell’opera: Nora Krug, Heimat, trad. it. Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2019.

[14] Ivi, cap. 2, tav. 19-20 (maiuscolo nell’originale).

[15] Lars von Törne, Familienaufstellung, in «Der Tagesspiegel», 10.09.2018, LINK (ultimo accesso: 3 giugno 2021).

[16] Questo vuoto è concretato anche a livello visuale, attraverso differenti espedienti grafici, come l’atto di ritagliare viso del nonno da una sua fotografia, a dimostrare la difficoltà della nipote a individuare il vero “volto” dell’uomo (Krug, Heimat, cit., cap. 4, tav. 3).

[17] Un’eccezione è rappresentata dalla zia paterna Annemarie, nata nel 1932 e dunque testimone diretta, seppur giovanissima, del secondo conflitto mondiale, la quale, dopo essersi allontanata dalla famiglia nel dopoguerra e aver rifiutato per lungo tempo di parlare con la nipote, rompe infine il silenzio e offre alla protagonista perfino un’illusoria (ri)conciliazione con parte della propria famiglia: «Mentre guardiamo insieme le foto la vita di Franz-Karl torna a emergere davanti a noi. E nel nostro silenzio, per un istante, siamo una famiglia perfettamente unita» (ivi, cap. 15, tav. 11).

[18] Simone Costagli, Autobiografia collettiva di una nazione. L’onda lunga dei Familienromane tedeschi, in «Enhtymema» XX (2017), p. 72.

[19] Cfr. Raul Calzoni, Walter Kempowski, W.G. Sebald e i tabù della memoria collettiva tedesca, Campanotto, Pasian di Prato 2005, pp. 61-63.

[20] Si pensi al significato ricoperto dalle fotografie nel romanzo di Tanja Dückers Himmelskörper (2003) o in Ein unsichtbares Land (2003) di Stefan Wackwitz.

[21] Si veda la descrizione di questa tecnica narrativa in Arno Schmidt, Berechnungen I in Id., Bargfelder Ausgabe der Werke Arno Schmidts Bd. III/3: Essays und Aufsätze I, Arno-Schmidt-Stiftung im Haffmans Verlag, Bargfeld 1995, p. 164: «[…] man erinnere sich eines beliebigen kleineren Erlebniskomplexes, sei es «Volksschule», «alte Sommerreise»– immer erscheinen zunächst, zeitrafferisch, einzelne sehr helle Bilder (meine Kurzbezeichnung: «Fotos»), um die herum sich dann im weiteren Verlauf der «Erinnerung» ergänzend erläuternde Kleinbruchstücke («Texte») stellen: ein solches Gemisch von «Foto=Text=Einheiten» ist schließlich das Endergebnis jedes bewußten Erinnerungsversuches».

[22] Stefano Calabrese – Elena Zagaglia, Che cos’è il graphic novel, Carocci, Roma 2017, p. 8.

[23] Cfr. Matt Reingold, Heimat Across Space and Time in Nora Krug’s Belonging, in «Monatshefte», 11 (2019), 4, p. 564: «By using visuals to anchor and guide her text, Krug not only rewrites history but she also revisualizes it. These revisualizations fill in gaps where the historical record is either blank or incomplete. Like the textual jumps that Krug makes throughout the book, her juxtaposition of different images creates new meaning for how she makes sense of her family’s past. Concurrent with her artistic and creative license, however, is the reality that Krug’s work also manipulates the past through her selection of what is included and what is excluded, in addition to the ways she purposefully builds suspense by jumping across time and space as she tells her story».

[24] Con questo termine si intende l’attività di creazione di uno scrapbook, vale a dire «a book with empty pages where you can stick newspaper articles, pictures, etc. that you have collected and want to keep»; Cambridge Dictionary, scrapbook, LINK (ultimo accesso: 3 giugno 2021).

[25] Susan Tucker – Katherine Ott – Patricia Buckler, An Introduction to the History of Scrapbooking, in The Scrapbook in American Life, a cura di Susan Tucker – Katherine Ott – Patricia Buckler, Temple University Press, Philadelphia 2006, p. 3.

[26] Welzer – Moller –Tschuggnall, Opa war kein Nazi, cit., pp. 34s.

[27] Geoffrey Hartman, The Longest Shadow. In the Aftermath of the Holocaust, Indiana University Press, Bloomington, 1996, p. 9.

[28] Hirsch, The Generation of Postmemory, cit., pp. 106. Corsivo in originale.

[29] Ivi, p. 109.

[30] Ivi, p. 106s. Corsivo in originale.

[31] Ivi, p. 111.

[32] Marianne Hirsch, Surviving Images. Holocaust Photographs and the Work of Postmemory, in «The Yale Journal of Criticism», 14 (2001), 1, p. 13.

[33] Marianne Hirsch, Family Frames. Photography, Narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge/London 1997, p. 8.

[34] Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p. 116.

[35] Cfr. Jan Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, C.H. Beck, München 2018, p. 37ss.

[36] Cord Pagenstecher, Private Fotoalben als historische Quelle, in «Zeithistorische Forschungen», 6 (2009), 3, p. 453.

[37] Ivi, p. 463.

[38] Cfr. Welzer – Moller –Tschuggnall, Opa war kein Nazi, cit., p. 16.

[39] Reingold, Heimat Across Space and Time in Nora Krug’s Belonging, cit., p. 566.

[40] Krug, Heimat, cit., cap. 3, tav. 10-11.

[41] Ivi, cap. 13, tav. 2-7.

[42] Come, ad esempio, le vicende riguardanti il nonno paterno Alois, narratele dalla zia Annemarie (ivi, cap. 15, tav. 5-6).

[43] Si veda la tavola nella quale viene ipotizzato il luogo in cui avrebbe potuto trovarsi nonno Willi – il cui ufficio era ubicato nelle immediate vicinanze della sinagoga di Karls­ruhe – la mattina seguente la Notte dei Cristalli –; tavola che, con una perfetta divisione della superficie della pagina in quattro porzioni di uguale grandezza che offrono a livello sia verbale che visivo differenti possibilità («Ero in un’altra parte della città» / «Ero a casa» / «Ero nel mio ufficio» / «Ero presente quando successe») non impone un giudizio definitivo sulla partecipazione attiva o meno dell’uomo agli eventi, senza dunque condannarlo né assolverlo in toto (ivi, cap. 10, tav. 10).

[44] Paolo Simonetti, Krug, un exploit formale per l’eredità del dolore, in «Il Manifesto», 13.10.2018.

[45] Eva Hoffman, After such Knowledge. Memory, History, and the Legacy of the Holocaust, Public Affairs, New York 2004, p. 6.

[46] Proprio nelle battute finali dell’epilogo l’autrice lascia intendere di essere incinta, aspetto che rende l’”album di famiglia” creato nelle pagine precedenti una vera e propria eredità per le generazioni future.

[47] Questa intenzione di “pilotare” la ricezione e interpretazione da parte dei lettori, apparentemente non riconoscibile a un primo sguardo, è invece ben percepibile da un pubblico dotato di una certa dimestichezza nella lettura di fumetti e graphic novel e dunque avvezzo a una partecipazione attiva alla costruzione del senso attraverso la closure che permette di collegare i singoli elementi e di «costruire mentalmente una realtà continua ed unificata» (Scott McCloud, Capire il fumetto, Vittorio Pavesio Production, Torino 1999, p. 75).

[48] Cfr. le parole dell’autrice in Frank Meyer – Nora Krug, Heimat – ein Begriff in steter Veränderung, in «Deutschlandfunk Kultur», 27.08.2018, LINK (ultimo accesso: 3 giugno 2021): «Ho utilizzato il cerotto in quanto, come tedesca della mia generazione, mi sento ancora ferita dalla guerra e dai ricordi di questa, che sono di fatto stati tramandati di generazione in generazione, e per questo faccio rifermento anche all’esistenza di un processo di cicatrizzazione e all’atto di togliere il cerotto e di osservare la cicatrice».

[49] Krug, Heimat, cit., epilogo tav. 4.

[50] Welzer – Moller –Tschuggnall, Opa war kein Nazi, cit., p. 10.

[51] Ivi, p. 196.

[52] Ibidem.

[53] Ivi, p. 208.

[54] Ivi, p. 41.

[55] Krug, Heimat, cit., cap. 11, tav. 11.

[56] Ivi, cap. 15, tav. 17.

[57] Ivi, cap. 15, tav. 13.

[58] Ivi, cap. 15, tav. 14.

[59] Ivi, cap. 12, tav. 2-5.

[60] Welzer – Moller –Tschuggnall, Opa war kein Nazi, cit., p. 52s.

[61] Ivi, cap. 12, tav. 9.

[62] Ivi, cap. 12, tav. 12.

[63] Ivi, cap. 14, tav. 16.

[64] Ivi, cap. 14, tav. 18.

[65] Ivi, cap. 14, tav. 16.

[66] Ivi, cap. 12, tav. 13. La tavola dedicata alla Gallseife è peraltro inserita poco dopo i documenti forniti da nonno Willi per comprovare la sua “innocenza”.

[67] Pagenstecher, Private Fotoalben als historische Quelle, cit., p. 454.

[68] Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005, pp. 11-13.

[69] Ivi, p. 28.

[70] Cfr. Welzer – Moller –Tschuggnall, Opa war kein Nazi, cit., p. 210.

[71] Cfr. Gunther Gebhard – Oliver Geisler – Steffen Schröter, Heimatdenken: Konjunkturen und Konturen, in Heimat. Konturen und Konjunkturen eines umstrittenen Konzepts, a cura di Gunther Gebhard – Oliver Geisler – Steffen Schröter, transcript, Bielefeld 2007, p. 44s.

[72] In questo senso il titolo dell’edizione americana – Belonging: A German Reckons With History and Home – lascia una maggiore apertura all’interpretazione, senza scomodare il denso concetto di Heimat (scelta in realtà effettuata per ragioni “pratiche”, ossia non confrontare il pubblico statunitense con un termine poco conosciuto).

[73] Barthes, La camera chiara, cit., p. 83.