Maurizio Pirro

(Milano)

Un malinconico nella commedia gottschediana
«Der Hypochondrist» di Theodor Johann Quistorp

[A melancholic in Gottsched’s anthology of comedy
Theodor Johann Quistorp’s «The hypochondriac»]

abstract. Theodor Johann Quistorp was among the regular contributors to Gottsched’s Deutsche Schaubühne (1741-1745). In addition to his published works as a playwright, he tried his hand at writing non-fiction, taking a stand against Baumgarten’s theories, and engaging in a heated debate with Georg Friedrich Meier. Quistorp’s comedies are actually based on a conception of the comic effect that is far removed from Gottschedian rationalism. In his Hypochondrist (1745), melancholy and depression are not represented as evil and morally deviant, but as a physiological expression of human nature, which is to be linked to all other aspects of individual identity.

Quando, nel 1745, Johann Christoph Gottsched inserisce nel sesto e ultimo volume della Deutsche Schaubühne la commedia in cinque atti Der Hypochondrist, Theodor Johann Quistorp è un giovane avvocato agli inizi della professione, che cerca con fatica di conciliare gli impegni del lavoro e gli interessi in campo estetico. Questi ultimi hanno ricevuto un impulso decisivo durante il periodo trascorso come studente a Lipsia, a partire dal 1742, nel quale è entrato in contatto con il gruppo di scrittori e intellettuali riuniti intorno allo stesso Gottsched. Da Rostock, dove era nato nel 1722 e dove rientra alla conclusione degli studi per iniziare il periodo di praticantato, riferisce il 28 novembre 1745 al maestro che l’attività forense non gli impedisce di propugnare la causa comune, difendendola – se necessario anche in modo «konspirativ»[1] – contro le sortite degli oppositori. «Daß meine letzte kleine Abhandlung das Glück gehabt hat, Eüer Magnifiz. einiger maßen zu gefallen», scrive Quistorp,

und daher dem Neüen Büchersaale eingerücket zu werden; ist mir eine neüe Anspornung gewesen, die schönen Wissenschaften beÿ der Juristereÿ nicht gäntzlich an die Seite zu setzen; sondern beÿ müßigen Stunden noch dann und wann darinnen etwas auszuarbeiten. Wie ich denn auch, jedoch nur heimlich, und unter anderm Nahmen, hier über Eüer Magnifiz. Redekunst mit ziemlich zahlreichem Beÿfalle lese: und das Versemachen noch nicht gäntzlich abweisen kann.[2]

Il «piccolo trattato» così bene accolto – che Quistorp rivendica a proprio merito insieme alle lezioni sulla Deutsche Redekunst di Gottsched che racconta di star tenendo sotto falso nome dinnanzi a un pubblico tutt’altro che disinteressato – è uno scritto augurale composto in occasione del matrimonio del cugino Theophil Christian Schwollmann, intitolato Erweis, daß die Poesie schon für sich selbst ihre Liebhaber leichtlich unglückselig machen könne. Gottsched, sempre solerte nel promuovere e nel mettere a frutto il talento saggistico dei propri collaboratori, fa prontamente uscire lo scritto nel quinto fascicolo della prima annata del Neuer Büchersaal der schönen Wissenschaften und freyen Künste (novembre 1745). In questo breve lavoro, Quistorp formula un attacco nei confronti delle teorie di Baumgarten, mettendo in dubbio che le idee sviluppate dal filosofo nelle Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (1735) potessero realmente essere di orientamento per la comprensione e l’apprezzamento di testi letterari[3]. Quistorp muove dall’osservazione dello stato di malessere e infelicità che è solito affliggere i poeti, con una frequenza assai più elevata che gli individui ordinari. La malinconia legata all’esercizio della letteratura sarebbe la conseguenza diretta di una concezione suggestiva, fondata sull’ingannevole presupposto che la forza dell’effetto si misuri sull’intensità dei sentimenti generati nella psiche del lettore. Per Quistorp le speculazioni di Baumgarten, affidando all’arte il compito di suscitare passioni energiche e incontrastabili, pongono le premesse sia per l’indebolimento della ragione, sia per la diffusione di affetti spiacevoli e insani[4]:

Denn man folge nun entweder dem Begriffe, und den übrigen Lehr­sätzen des Hrn. Prof. Baumgartens von der Poesie: so geht dieselbe ihrem Wesen nach nur mit dunkeln, oder zum wenigsten doch nur verwirrten Vorstellungen um: und die Erregung der Leidenschaften ist eine ihrer Hauptvollkommenheiten. Und da eben die Fertigkeit hier­innen den Poeten ausmachet: so muß ein Liebhaber der Poesie sich eine Fertigkeit in dunkeln und verwirrten Vorstellungen, und in Erregung der Affecten erwerben. Die dunkeln und verwirrten, oder undeutlichen Vorstellungen sowohl, als auch die Affecten, entstehen nach den bekanntesten Sätzen der Seelenlehre, von den Sinnen und der Einbildungskraft. Ein Dichter muß sich daher eine Fertigkeit erwerben, seine Sinnen und seine Einbildungskraft wirken zu lassen; und in Affecten sich eine gleiche Fertigkeit angewöhnen. Denn das glaube ich doch, giebt mir ein jeder ohne einen weitläuftigen Beweis unschwer zu, daß derjenige, der jemand in Affect setzen will, ihm vielerley Gutes oder Böses auf einmal undeutlich vorstellen muß. Aus einer solchen Vorstellung nämlich entspringt eben ein Affect. Nun aber kann ich ja natürlicher Weise keinem andern etwas vorstellig machen, wofern ich es mir nicht zuvor selbst vorgestellet habe, und es mir noch itzt also vorstelle. Da nun aber eben aus einer solchen undeutlichen Vorstellung vieles Guten oder Bösen auf einmal, ein Affect entspringt: so kann niemand einen andern in Affect setzen, der ihn nicht zuvor selbst empfunden hat, und noch wohl itzo empfindet. Und aus diesem Grunde hat man denn auch diese Hauptregel in der Lehre von Erregung der Affecten erfunden: daß man sich zuvor selbst in den Affect setzen solle, den man bey einem andern erregen will. Folglich muß denn derjenige, der eine Fertigkeit besitzen will, andere in Affect zu setzen, nämlich hier ein Poet; auch eine Fertigkeit haben, sich selbst in Affect zu setzen. Kann ihn aber diese seine Fertigkeit, seine Sinnen und seine Einbildungskraft wirken zu lassen; und diese seine Fertigkeit in Affecten, nicht gar leichtlich mit seinem Verstande und Willen unter die Herrschaft der Sinne, der Einbildungskraft und der Affecten bringen? Darinn besteht aber eben die sittliche Sklaverey […]. Folglich kann denn die Poesie, auch dieser ihrer angeblichen Natur nach, ihre Liebhaber leichtlich in eine sittliche Sklaverey stürzen.[5]

La «schiavitù morale» a cui è esposto chi pratica la poesia come eccitante si basa sull’idea, del tutto estranea al classicismo gottschediano, che l’artista debba provare in prima persona le emozioni che aspira a suscitare mediante la sua opera. Questa logica dell’immedesimazione, lontanissima dal concetto di mimesi come è elaborato nella Critische Dichtkunst di Gottsched, obbliga il poeta a sperimentare prima di tutto su di sé il turbamento, l’alterazione e in generale lo stato di eccezione che intende promuovere attraverso la finzione. L’estetica di Baumgarten, così concepita, avrebbe come fine il mantenimento dell’uomo in una condizione di squilibrio e dipendenza dalle passioni, in quello stato di subordinazione che Quistorp riassume nei termini di una perdita di sovranità su se stessi, di «Sklaverey» appunto[6].

Il saggio di Quistorp avrebbe suscitato di lì a poco la reazione di Georg Friedrich Meier, l’allievo di Baumgarten che in questi stessi anni, a partire dalla Theoretische Lehre von den Gemüthsbewegungen überhaupt (1744), è impegnato nel tentativo di fondare le intuizioni del maestro su una ricostruzione sistematica del funzionamento della psiche umana. Benché gli sia chiaro, così Meier in un opuscolo pubblicato nel 1746, che «der vernünftige Theil der Welt, wider Streitschriften über critische Sachen, ungemein eingenommen zu seyn pflegt»[7], nondimeno la questione sollevata da Quistorp chiama in causa aspetti di interesse generale, che trascendono la portata circoscritta di una contesa fra dotti, e merita pertanto una replica articolata. Meier innanzi tutto contesta l’idea di Quistorp che ogni forma di rappresentazione sensibile sia di per sé confusa e indistinta: «sinnliche Vorstellungen sind nicht nur überhaupt dunckele und verworrene Vorstellungen, sondern auch alle Vorstellungen aller untern Erkenntnißkräfte, als da sind die Vorstellungen des Witzes, der Dichtungskraft, der Scharfsinnigkeit, und wie sie alle Namen haben mögen»[8]. Di più. La natura sensibile della poesia non esclude affatto che in un’opera, accanto alle rappresentazioni derivate dalle “facoltà inferiori”, possano trovare collocazione anche rappresentazioni della ragione. Poiché l’obiettivo del poeta è sempre la raffigurazione di una totalità umana, «siehet er sich genöthiget, einen ieden Theil lebhaft vorzustellen. Folglich ist es natürlicher Weise nothwendig, daß der Begriff des Gantzen deutlich werde. Die Deutlichkeit ist also eine nothwendige Folge der poetischen Malerey, die von selbst entstehet, und die der Dichter ohne Schaden nicht hindern kann»[9]. È di fatto l’argomento decisivo: l’estetica di Baumgarten, conclude Meier, non si risolve in una banale apologia dell’irrazionale, ma punta a una restituzione integrale dell’umano che, in quanto tale, deve necessariamente comprendere anche le inclinazioni degli affetti e le disposizioni della sensibilità.

Quistorp si riserverà l’ultima parola nello scontro con Meier, con alcune brevi note pubblicate nell’aprile 1746 nelle Pommersche Nachrichten, che richiama nella lettera a Gottsched del 4 luglio 1746[10]. A parte questi ultimi fuochi di una polemica che oramai si andava spegnendo, Quistorp prenderà poi ancora una volta posizione in materia di poetica – per quanto senza lo spirito militante del saggio del 1745, visto che nel frattempo il dominio del gruppo di Lipsia era stato sottoposto a colpi sempre più duri dal montare delle tendenze avverse, e lo stesso Quistorp si andava concentrando quasi in modo esclusivo sul mestiere legale – in un singolare scritto stampato ancora nel Neuer Büchersaal der schönen Wissenschaften und freyen Künste (aprile 1750). Si tratta di un colloquio immaginario con il poeta Friedrich Rudolph Ludwig von Canitz, nel solco di quei Totengespräche che intorno alla metà del Settecento costituiscono un genere di scrittura assai popolare e tipicamente legato allo svolgimento di polemiche intellettuali[11]. Quistorp difende ironicamente le ragioni del gusto antigottschediano, divertendosi a disorientare lo spirito del poeta defunto con massime oracolari che dovrebbero chiarirgli la profondità delle trasformazioni intervenute dal tempo della sua morte. Il punto debole delle opere di Canitz, dice con ostentata condiscendenza, è che «ihre Worte nur Worte; und ihre Gedanken nur Gedanken sind». E di fronte allo sconcerto del suo interlocutore, chiarisce: «Lauter Creaturen, Bilder, und Gemälde müssen es, nach dem heutigen neuesten Geschmacke seyn […]. Heutiges Tages schreibt man mit lauter hieroglyphischen Bildern, wie die alten Aegyptier; und unsre Gedanken sind lauter Schöpfungen. Das heißt die bilderreiche, die malerische, die schöpferische Schreibart; worin wir heutiges Tages schreiben; und welche die altdeutsche in einem großen Absatz übertrifft»[12]. Segue una lunga raccolta di versi ed espressioni conformi ai dettami del nuovo gusto, che Quistorp snocciola con l’obiettivo di mostrare le assurdità alle quali deve necessariamente indulgere una poetica dell’artificio non temperata da criteri di ragione. Al giorno d’oggi, constata, «ist die Poesie nur für die Sinnen und für die Einbildungskraft»[13]. Alle proteste di Canitz, Quistorp oppone tutto l’armamentario delle categorie dell’estetica di Baumgarten, che viene per così dire scomposta e destrutturata mediante l’evocazione delle sue parole chiave, strappate al contesto originario. Se anche un’immagine non è afferrabile dalla ragione, essa può tuttavia essere perfettamente legittima in termini poetici, senza soggiacere ad alcun criterio di verità empirica: «in der heterokosmischen Malerey besteht eben das Hauptwerk unserer neuesten Poesie»[14]. Privata di ogni linearità espressiva e di qualunque naturalezza, questo il senso delle accuse di Quistorp, la poesia del presente decade a gioco autoreferenziale, a divertimento di pochi ingegni sublimi intenti a confermarsi a vicenda nel senso della propria elevatezza. «Für wen schreibt ihr Leute denn?», domanda infine Canitz. E la risposta getta luce su ciò che a Quistorp appare come il tratto irrimediabilmente monologico ed esoterico dell’estetica contemporanea: «Für uns selbst, und für unsre Brüder: wie die Freymäurer; wie die Goldmacher; und Herrenhuter»[15].

Questi interventi pubblicistici configurano Quistorp come un fedele seguace di Gottsched e al tempo stesso come un intellettuale non privo di originalità e inventiva. Un pensatore senz’altro disinteressato ad assumere posizioni fuori dal campo di riferimento, quello del cenacolo di Lipsia, e tuttavia in grado di declinare i propri convincimenti con buon senso e creatività. La sua partecipazione al lavoro di riforma del teatro intrapreso da Gottsched si concretizza nella stesura di tre commedie e una tragedia, lavori tutti pubblicati nella Deutsche Schaubühne. Le commedie iniziano ad apparire nel quarto volume della collezione (1743), che riporta un atto unico di una certa sapidità, anche se drammaturgicamente poco lineare, intitolato Die Austern[16]. Il testo giustappone in un montaggio non particolarmente brillante alcuni luoghi comuni della tradizione comica: uno studente vuole avvicinarsi a due sorelle e, per compiacerle, incarica il suo domestico Peter di allestire un pranzo a base di ostriche. Quando, dopo vari incidenti, il pasto viene finalmente servito, si scopre che alcune ostriche sono avariate, il che fornisce il destro sia per una scenata nei confronti di Peter, sia per una beffa ai danni dell’avarissimo Krummfuß, il quale tuttavia, contro tutte le previsioni, sorbisce il piatto come si trattasse di una rara squisitezza, vanificando lo scherzo.

Nella quinta parte della Deutsche Schaubühne (1744) si legge Der Bock im Processe, una commedia in cinque atti che è già una prova più matura delle capacità di Quistorp[17]. La figura del giudice concentrato in modo così maniacale sull’esercizio formale dei propri compiti da disapplicare la sostanza del proprio mandato prefigura in particolare un espediente che sarà molto popolare nel teatro tedesco qualche decennio dopo, e cioè la sovrapposizione tra dramma e dibattimento processuale (basta pensare al caso più noto, Der zerbrochene Krug di Heinrich von Kleist, con cui la commedia di Quistorp non ha ovviamente nulla in comune). Il vecchio Zankmann pretende di deliberare in casa propria sulle più insignificanti vicende della vita quotidiana, affastellando codici e fascicoli e convocando scalcinatissime corti a ogni piè sospinto, per esempio per condannare una gatta colpevole di aver divorato la propria cucciolata. Quando Zierlich, il fidanzato di sua figlia Suschen, si presenta di ritorno da un viaggio con un caprone, e l’animale, oltre a insozzare la casa del giudice, distrugge o rende inservibili gli atti processuali, Zankmann apre un procedimento nei confronti del futuro genero. La cosa è vista con particolare favore da Scheinklug, un consigliere che – facendo leva sulla fissazione del vecchio – vuole insinuarsi nelle sue grazie per sposare Suschen. Fra dettagliate memorie difensive, minuziosissimi interrogatori condotti personalmente da Zankmann e un grottesco dispiegamento di categorie giuridiche del tutto sproporzionate rispetto alla materia, si dipana un processo interminabile, che si apre verso sviluppi imprevisti ogni volta che i giurati sembrano avvicinarsi a una sentenza. Alla fine, si decide di lasciare la ragazza a Zierlich e di assegnare il caprone a Scheinklug che, oltre a dover rinunciare alle sue aspirazioni matrimoniali, deve anche congedarsi in tutta fretta da casa Zankmann, e così rinunciare alla nefasta influenza esercitata sul bizzarro magistrato.

Il ciclo delle commedie di Quistorp ammesse nella Deutsche Schaubühne si conclude con Der Hypochondrist, che appare nel sesto e ultimo volume (1745)[18]. Già nel quarto volume, insieme a Die Austern, era uscita anche la tragedia Aurelius, oder Denkmaal der Zärtlichkeit[19]. Nel presentarla al pubblico, Gottsched le aveva attribuito la capacità di avvincere il lettore con «heftige Affecte» e «unvermuthete Begebenheiten»; se Herrmann di Johann Elias Schlegel, che la precede nel prospetto del volume, si rivolge di preferenza all’ingegno e all’intelletto, così Gottsched, «so wird hier das Herz beschäfftiget, ja bezaubert und hingerissen werden»[20]. L’opera, in realtà, più che su una sequenza motivata di fatti coerenti, è costruita su una serie di variazioni intorno ai temi della giustizia e della facoltà dei sovrani di imporre il diritto anche se un crimine è stato commesso in difesa dello Stato. Aurelius, uno dei più stretti confidenti dell’imperatore Traiano, ha ucciso l’amico Valerius perché ha scoperto un complotto da lui ordito e già sul punto di scatenarsi. Per non offendere la memoria del defunto, Aurelius non racconta il vero motivo dell’omicidio se non a Maximinus, un altro influente cortigiano e suo intimo sodale. Frattanto la madre di Valerius, Fulvia, invoca la condanna a morte del responsabile e per le strade infuria la rivolta preparata dai congiurati. Quando per Aurelius sembrerebbe non esserci più scampo, Maximinus rende pubblico un documento che prova la colpevolezza di Valerius, legittimando così Traiano sia a soffocare i disordini sia a risparmiare la vita di Aurelius. Fulvia si riconcilia con l’assassinio del figlio in un finale non tragico, nel quale Quistorp mette in scena non tanto la lungimiranza e la capacità di governo dell’imperatore come singolo individuo, quanto la moderna plasticità dell’esercizio del potere così come si incarna nella sua condotta, aperta fino all’ultimo – in nome dell’interesse collettivo – al perdono come alla repressione.

Quistorp è tra i contributori più assidui della Deutsche Schaubühne. La sua partecipazione come autore di opere originali è inferiore per quantità solamente a quella prestata da Luise Gottsched, che – come inesausta collaboratrice di tutte le attività promosse dal marito – mette a disposizione dell’impresa, oltre che commedie e tragedie, anche diverse traduzioni. È noto come l’intendimento di Gottsched, con l’avvio della collezione, fosse mettere insieme una base di versioni da opere canoniche del teatro antico e moderno, che potessero fungere da innesco per l’avvio di una produzione di buon livello in lingua tedesca[21]. La centralità del riferimento alle dottrine aristoteliche, già codificate – a partire dal 1730 – nelle varie edizioni del Versuch einer critischen Dichtkunst, sarebbe stata ulteriormente confermata mediante una traduzione commentata della Poetica che, nel programma di Gottsched, avrebbe dovuto introdurre il volume inaugurale della raccolta. Un progetto la cui realizzazione viene impedita dalla concomitanza di altri impegni assai gravosi (soprattutto la versione tedesca del Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle, che apparirà nel 1744), e che Gottsched sostituisce con un testo di dimensioni minori, cioè alcune osservazioni di Fénelon sul genere tragico, integrate a loro volta da un breve saggio dello stesso Fénelon sulla commedia. I due scritti appaiono a capo del primo volume, che in realtà viene dato alle stampe come terzo, nel 1742, quando Gottsched si persuade definitivamente dell’irrealizzabilità del piano riguardante la Poetica.

I due lavori di Fénelon collimano tanto quanto il trattato di Aristotele con la concezione gottschediana del teatro. Se le note sul genere tragico, originariamente contenute in una sezione della Lettre écrite à l’Académie fran­çaise sur l’eloquence, la poésie, l’historie (1714) e volte da Gottsched in tedesco già nel 1732 in appendice alla prima edizione dello Sterbender Cato, adombrano un modello di purezza stilistica desumendolo dalla costruzione linguistica delle tragedie greche, lo scritto sul comico – pure proveniente dalla Lettre del 1714 – insiste su un ideale di decoro espressivo molto vicino a quel lavoro di normalizzazione e innalzamento dell’ordine formale degli spettacoli che Gottsched aveva iniziato a praticare nel teatro comico fin dalla seconda metà degli anni Venti. Fénelon tocca soprattutto un punto che verrà sistematicamente ripreso nella teoria gottschediana del comico, e che è strettamente legato alla priorità dell’azione sul carattere individuale stabilita da Aristotele come una condizione fondamentale per la buona riuscita di una rappresentazione drammatica: l’eccesso di caratterizzazione del personaggio, con l’obiettivo di enfatizzarne gli aspetti ridicoli e suscitare così il divertimento incontrollato del pubblico, è una manifestazione di insipienza e cattivo gusto meritevole di una drastica censura. Il risentimento di Fénelon si appunta in particolare sulle commedie di Molière, nelle quali ritrova non solo un’inclinazione al cedimento della dignità stilistica, bensì anche e soprattutto una tendenza all’iperconnotazione delle figure comiche che è evidentemente espressione della sua vicinanza alla tradizione della “commedia dell’arte”[22]. La luce eccessivamente favorevole nella quale Molière avrebbe collocato le espressioni dell’immoralità è un argomento che dal saggio di Fénelon si estende al giudizio complessivo nutrito dalla scuola di Lipsia nei confronti del commediografo. Per Gottsched, la sopravvivenza di forme di comicità propense al corporeo e all’osceno non può che esercitare di per sé una resistenza insuperabile nei confronti del decoro e, più ancora, di quella universalità dell’effetto comico che può essere garantita soltanto dal rispetto di una morale generale e umana, non vincolata da culture locali e credenze particolari.

Il punto è che questa compostezza stilistica, lontana dalla grevità e dalla sguaiatezza del repertorio popolare, finisce per perseguire, nella commedia riformata, la medesima finalità di dileggio che pervadeva il teatro delle maschere. La risata è per Gottsched con tutta evidenza un dispositivo di esclusione sociale, che si attiva nel momento in cui una certa attitudine del personaggio si rivela incompatibile con la sua partecipazione alla vita organizzata della comunità. La ridicolizzazione del non omologabile produce per Gottsched un effetto morale perché, stigmatizzando ciò che si sottrae al controllo collettivo, per contrasto attira l’attenzione sulle condotte conformi all’interesse generale. Il personaggio difforme merita la sanzione del ridicolo del tutto indipendentemente dalla reale pericolosità e finanche dalla stessa immoralità delle sue azioni. La commedia gottschediana – che in questo senso non rinuncia affatto al meccanismo della maschera, ma si limita a trasportarlo fuori dalla dimensione atemporale in cui la “commedia dell’arte” lo esercitava, ancorandolo a un ambiente sociale vicino alla prospettiva dello spettatore – tende implacabilmente alla difesa di un ordine simbolico e materiale che possiamo ben definire dominante, disponendo con una vera e propria procedura di soppressione l’oscuramento del “paria”, la cacciata impietosa del non integrato. Così si conclude, per fare solo un esempio, l’adattamento della commedia di Ludvig Holberg intitolata Jean de France eller Hans Frandsen (1722), che appare a cura di Georg August Detharding nel secondo volume della Deutsche Schaubühne (1741)[23]. Messo alla berlina da due domestici che fanno leva sulla sua fissazione filofrancese, disprezzato dal futuro suocero, rinnegato dal padre, Jean abbandona la scena conciato in abiti grotteschi, non rimpianto da alcuno e accompagnato dai lazzi di tutta la città: la sopravvivenza della comunità nel suo complesso si basa sul sacrificio del gruppo ristretto dei diversi, dei non assimilabili. E Luise Gottsched, nella Hausfranzösinn (1744, nel quinto volume della collezione)[24], chiarirà la questione in termini ancora più netti, rappresentando gli agenti del traviamento – il personale francese impiegato nella casa dei Germann – come dei criminali, che non si limitano a vivere secondo le loro discutibili inclinazioni, ma perseguono un lucido piano di sfruttamento della credulità e dell’irresolutezza del padrone di casa, arrivando a mettere in atto il rapimento di una bambina[25].

Nell’Hypochondrist di Quistorp la prospettiva è più articolata. Gli aspetti genuinamente ridicoli sono quasi irrilevanti, ed è vero che il protagonista si abbandona a comportamenti irragionevoli e patologici, ma la pervasività del suo disturbo è tale da non poter essere presentata come la conseguenza di una deviazione occasionale o di un deliberato errore della volontà. Il giovane Gotthard è malato, e l’impalpabilità di questo male produce effetti tanto più disastrosi sugli altri personaggi, i quali – di fronte all’inafferrabilità della sofferenza mentale – non possono che avvertire l’inadeguatezza dei paradigmi di esclusione tradizionalmente alla base dell’ordine di valori della commedia. Il disagio intride per intero la sua vita di relazione, coagulandosi in particolare nel rapporto col padre, il quale appare allo spettatore in una condizione di inermità che non ha nulla a che fare con l’insipienza del vecchio Germann nella commedia di Luise Gottsched, ed è attraversata dalla disperazione del solido uomo di mondo che deve toccare con mano, nel vivo dell’affetto più caro, la completa insufficienza dei suoi strumenti di dominio della realtà davanti all’irrefrenabile impulso autodistruttivo che presidia la mente del figlio. Questo Gotthard è un commerciante di pellami, vedovo da qualche tempo. Suo figlio, l’ipocondriaco, è assalito da violente crisi di angoscia, trascorre lunghi periodi in uno stato di totale inazione e riesce a immaginare soltanto il suicidio come via di uscita dalla ristrettezza nella quale è precipitato. Dopo numerosi dottori, i cui sforzi si sono sempre rivelati inutili, adesso è il turno di due luminari, Krebstein e Muscat[26]. Al termine di complesse disquisizioni sulla natura della malattia, i due medici propongono l’uno una cura a base di acque minerali, l’altro una terapia di costose sostanze medicinali, per poi accusarsi l’un l’altro di volere così favorire alcuni loro congiunti che lavorano rispettivamente in una stazione termale e in una farmacia. Il nuovo fallimento non scoraggia il padre, che, insieme al fedele domestico Heinrich, pensa a un rimedio differente da quelli già sperimentati: con l’aiuto di un altro commerciante, Fröhlich, cercherà di favorire un fidanzamento tra la figlia di costui, che è dotata di un temperamento lieve e spensierato, e il giovane Gotthard, sperando così di sottrarlo alle sue tetre fantasticherie. I due ragazzi si intrattengono a lungo insieme: lei non arriva ad afferrare la natura profonda della sua depressione, ma il piglio sfrontato e la naturale gaiezza del suo carattere producono in lui un vivissimo effetto. Il colloquio è ulteriormente movimentato dalla presenza della vedova Kreuz, che conosce bene i sintomi descritti da Gotthard, perché ne è affetta lei stessa. Il malinconico si trova diviso tra la muta comprensione manifestata dalla signora Kreuz, la quale minaccia però di sprofondarlo ancora più in basso nella sua patologia, e il gioioso scetticismo della Fröhlich. Al culmine del loro avvicinamento, la ragazza regala a Gott­hard un nastro e gli lascia capire chiaramente che, se solo lui si risolvesse a chiederlo, accetterebbe di sposarlo. Gotthard, confuso e indifeso di fronte a un nuovo attacco della malattia, confida a Heinrich che è innamorato della giovane amica, ma che ha commesso un irrimediabile passo falso: ha perduto il nastro e oramai non gli resta che uccidersi. Un attimo prima che si impicchi, il domestico riesce a salvarlo. Il nastro, in realtà, era rimasto per tutto il tempo intorno al collo di Gotthard, ma costui si era convinto di essersene disfatto e di non meritare per questo che una punizione estrema. La Fröhlich accorre al capezzale di Gotthard e i due riescono a spiegarsi: il matrimonio verrà celebrato.

La patologia depressiva che affligge il protagonista viene rappresentata come un inesplicabile intreccio di condotte insondabili e di misteriose manifestazioni della psiche. La malinconia è notoriamente uno dei grandi campi di interesse della Popularphilosophie a partire dalla metà del Settecento[27]. Il dibattito sulle cause e sulle espressioni del temperamento saturnino si sviluppa in particolare intorno a due assi: l’interdipendenza tra la vita della mente e quella del corpo e il danno in termini di socievolezza che il malinconico patisce e al tempo stesso infligge ai propri vicini per la violenza della sintomatologia dalla quale è colpito. Le stravaganze del giovane Gotthard sono percepite dagli altri personaggi come un caso clinico solo molto labilmente legato agli effetti di una erronea disposizione dell’animo. Quando Heinrich accenna alla possibilità che il ragazzo abbia contratto la sua malattia durante i periodi trascorsi presso varie università, suggerendo così l’ipotesi che la malinconia discenda da un amore eccessivo per lo studio e prosperi con la lontananza dalla vita pratica, il padre lo zittisce liquidando un’insinuazione del genere come del tutto priva di fondamento. Da questo punto di vista, il comportamento del giovane Gotthard infrange lo schema tipologico che sta a fondamento del modello comico gottschediano, destrutturando quella linearità nella relazione tra le cause e gli effetti della condotta umana che, nel paradigma fondamentale della Typenkomödie, a certe attitudini radicate nella natura del personaggio fa invariabilmente corrispondere certe conseguenze sul piano dell’azione. La malattia dell’ipocondriaco è così illeggibile nelle sue motivazioni profonde e così incontenibile nelle sue manifestazioni da non poter essere interpretata nei termini morali propri della commedia riformata[28]. Il corpo dell’ipocondriaco si muove sulla scena secondo una logica autonoma, estranea ai codici comuni. L’anarchia della maschera, che il rigoroso determinismo della morale gottschediana aveva espulso dall’orizzonte della commedia, ritorna in una versione ancora più libera ed eccedente attraverso il corpo sofferente dell’ammalato. Lo sconcerto che la sua apparizione provoca negli altri individui è sì accompagnato dall’indignazione che in Gottsched connota tutte le manifestazioni dell’asociale e del non omologabile, ma è soprattutto segnato dallo sconforto e dall’incomprensione. Come di regola nella commedia del Settecento, è il domestico, dal suo punto di osservazione laterale, a sintetizzare nel modo più efficace gli aspetti decisivi della situazione. Al padre, che vuole informarlo sul piano che sta per perseguire (curare la depressione del figlio accendendo in lui l’attrazione per la figlia di Fröhlich), Heinrich risponde assemblando una rassegna dettagliata della sintomatologia visibile sul corpo dell’ammalato:

[…] Ich wollte Ihnen nur melden, daß ich meinen Herren werde anbinden, ihm Messer, Gabel, Degen, Hirschfänger, Strumpfbänder, Halstücher, ja Lichtputzen, Tabackspfeifenräumer, Schuhschnallen, Nehnadeln, und alles was ich nur finden kann, wegnehmen müssen.

Herr Gotthard. Und warum das?
Heinrich. Darum, daß er sich damit nicht umbringen könne.
Herr Gotthard. Was das nun für Einfälle sind!

Heinrich. Ja Herr Gotthard, Sie glauben es nimmermehr! Es ist ein ganz anders mit Leuten, die im hitzigen Fieber oder in einer Raserey liegen, und mit Ihrem Herren Sohne. Er ist gar nicht krank; er steht und geht; er ißt und trinkt. Er kriegt nur zuweilen eine Karbatsche zu packen; und dann tauget er den Teufel nicht. Dann muß ich ihm nur alles aus den Augen schaffen, was nur einigermaßen einer Spitze, oder Schärfe, oder einem Bande ähnlich sieht; daß er sich nur kein Leid damit thue. Und auch dann fürchtet er auch noch, er möchte irgend mit dem Kopfe wider die Wand laufen: daher hat er mich oft selbst gebethen, ich sollte ihn nur im Bette anbinden.

Herr Gotthard. Wie? Heinrich, könnt ihr meiner und eures Herrn so spotten? Ist es nicht genug, daß sich die ganze Stadt mit allerhand Lügen von ihm herumträgt? Ihr dürft wahrhaftig keine neue darzu erdenken! Wie kann doch ein Mensch, der nur nicht eine Unze gesunde Vernunft im Kopfe hat, solch närrisches Zeug anfangen?

Heinrich. So wahr ich lebe, Hr. Gotthard, es ist die lautere Wahrheit! Sie wissen meines Herren Zustand noch lange nicht recht; und wer wollte es Ihnen auch so gut sagen können, als ich? Ich weiß wohl, wie sauer mir mancher Tag bey ihm wird. Bald muß ich ihm das Fenster zunageln; aus Furcht daß er Lust kriegen möchte, herunter zu springen. Herr Gotthard schlägt die Hände zusammen. Bald sitzt er in tiefen Gedanken wie ein Stock, und dann fährt er auf und fragt mich: ob er auch was gesprochen hätte? Wenn ich ihm nun genug zugeschworen, daß dieß nicht geschehen ist; so glaubt er mir es doch kaum. Schreibt er irgend einen Brief, so bricht er ihn wohl zehnmal wieder auf, und sieht nach, ob er auch was unrechtes hinein geschrieben, oder ihn mit Dinte begossen habe.
Herr Gotthard. Das ist ja entsetzlich
[29].

La commedia è presidiata dalla tangibilità delle alterazioni che l’ipocondriaco esibisce nella propria condotta, nei rapporti con gli altri, perfino nella postura del corpo, resistendo a ogni tentativo di normalizzazione e imponendosi tanto più allo sguardo dei vicini quanto più costoro cercano di renderlo invisibile. La morbosità dell’immaginazione che agita le fantasie del giovane Gotthard, producendo in lui deliri improvvisi e inarrestabili, prende forma attraverso una gestualità sovraccarica, che riprende l’inclinazione della maschera a una semantica distorta e non convenzionale, ma riformula questa stessa semantica in un assetto perturbante, che negli interlocutori genera non la censura noncurante del motto ingiurioso, ma penoso imbarazzo e profonda apprensione. Sentendosi minacciato da un accesso del male, Gotthard invoca il soccorso del domestico, pregandolo di rimanergli accanto e chiedendogli di sorvegliare attentamente ogni sua espressione, avvertendolo nel momento in cui sul suo volto dovessero iniziare a disegnarsi delle smorfie deturpanti. Il corpo segnato dalla patologia assume una vitalità propria, si sottrae al controllo di chi lo abita e a maggior ragione di coloro che hanno a che fare con lui. L’alterazione fisionomica non si basa, come per la maschera, su un’uscita temporanea e revocabile dagli ordini di senso condivisi, ma presuppone l’inversione e la sovversione del comune regime di vita, al quale l’ammalato non è in grado di aderire e al quale non è dunque nemmeno capace di sottrarsi consapevolmente, perché la frenesia con la quale in lui le rappresentazioni della mente subentrano vorticosamente l’una all’altra impedisce ogni ragionevole distinzione tra ciò che è reale e ciò che è immaginato. Così, una inquietudine appena accennata («Sagt mir doch Heinrich, habe ich nicht heute bey Tische meinem Vater ein schiefes Maul gemacht?»)[30] dà luogo a una sequenza interminabile di pensieri ossessivi e di supposizioni maniacali, la cui crescente gravità riaccende nel personaggio il suo onnipresente desiderio di morte:

Heinrich. […] Gesetzt nun, Sie hätten es auch getan …
Gotthard, sehr erschrocken. Wie? Was?
Heinrich. Ich sage ja nur, gesetzt! Gesetzt nun, Sie hätten dem Herren Vater ein schiefes Maul gemacht: wer weis, ob er es auch gesehen hat?
Gotthard, ängstlich. Ach! ich muß doch besorgen, daß ers gesehn hätte!
Heinrich, lachend. Und wenn ers nun auch gesehen hätte; wer weis, ob er sich’s zu Gemüthe gezogen?
Gotthard, ängstlich. Ach! ich müßte doch besorgen, daß er sichs zu Gemüthe zöge!
Heinrich. Gesetzt nun, daß er sichs auch zu Gemüthe gezogen hätte; wer weis, ob ers Ihnen nicht schon wieder vergeben hat?
Gotthard. Ach! wie wollte er mir das vergeben?
Heinrich. Je warum denn nicht? und wenn er es Ihnen auch nicht vergäbe, wollten Sie sich denn darüber gleich erhenken?
Gotthard, ängstlich. Ja freilich! was wollte ich anders machen? Mein Vater würde mich doch gewiß enterben. Wenn er mich nun enterbte; so würde ich hier aller Menschen Spott. Kein Mensch würde sich meiner annehmen. Civildienste kriegte ich nicht; und zum Kriege tauge ich nicht. Ich müßte also betteln gehen. Wenn ich betteln ginge, könnte ich leicht Hunger leiden: wenn ich Hunger litte; könnte ich leicht stehlen: wenn ich stöhle; könnte ich leicht aufgehangen werden: und ehe ich mich von einem Scharfrichter hängen lasse, eher…
[31]

Il montare delle angosce più inverosimili ha evidentemente l’effetto di stigmatizzare il malinconico come un personaggio ridicolo e di presentare la sua maniacale fissazione nei termini di un’attitudine insostenibile e molesta, ma la disperazione che si genera nel suo animo all’annunciarsi di una crisi arriva a precipitarlo in uno stato di tale indifesa primordialità da chiamare in causa, come risposta di fronte al suo smarrimento, non il dileggio (una disposizione, questa, che non a caso Lessing condannerà decisamente come del tutto inadeguata alla natura “universale umana” della commedia)[32], ma la compassione – vale a dire un affetto eminentemente tragico. Come Aurelius applica solo formalmente i requisiti della tragedia, ridimensionando la drasticità del sistema di valori che sostiene il classicismo gottschediano e rappresentando le incertezze e le ambiguità che pervadono l’esercizio del potere, così Der Hypochondrist sottopone a una tale pressione i termini della morale alla base del ridicolo da invalidarla o comunque da chiarirne gli aspetti ideologici e meno sostenibili in un’ottica di universalità.

Domina in questa commedia una spinta alla comprensione reciproca, un clima di vicendevole empatia che disattiva la semantica dell’esclusione teorizzata da Gottsched. La signora Kreuz, che presenta sintomi paragonabili a quelli del protagonista, è tutt’altro che un personaggio ridicolo e la sua pura e semplice vicinanza conforta il giovane Gotthard con il calore di un istintivo, reciproco intendimento. La Fröhlich poi, cioè la figura che con la sua leggerezza dovrebbe più incisivamente mettere in luce le incongruenze e le stravaganze del comportamento dei due malinconici, è in realtà animata da un afflato di spontanea generosità che elimina ogni possibile malanimo dalle manifestazioni di incredulità e sorpresa con le quali segue l’esposizione dei sintomi della depressione. Lo scetticismo della ragazza non è affatto l’espressione di un convincimento morale, ma la pura e semplice conseguenza della sua naturale condizione di buona salute, nonché del possesso di un intatto senso comune. L’ilarità con cui accompagna le minuziose descrizioni degli attacchi di malessere che amareggiano l’esistenza dei suoi interlocutori, non implica in alcun caso una sanzione nei loro confronti, poiché l’amabilità che connota il suo comportamento costituisce di per sé un principio di inclusione e indica una possibilità di risanamento non tanto nel matrimonio come strumento di normalizzazione[33], quanto nella pratica di una ginnastica degli affetti destinata a risensibilizzare l’ammalato ricostruendo in lui il senso della realtà.

Nel complesso, Quistorp mira a spostare la rappresentazione del male che pregiudica la vita del protagonista dal piano della morale a quello della fisiologia. Il corpo, in accordo con l’empirismo della Popularphilosophie, va assumendo una consistenza autonoma e riconoscibile, in una relazione sempre più stretta di interdipendenza e di scambio con la psiche. Da sintomo di una disposizione al vizio, la depressione inizia a essere letta come una debolezza dell’animo inserita nel sistema generale della personalità di chi ne è affetto e coerente con tutti gli altri segmenti che concorrono a comporre questo stesso sistema. Quistorp intende l’esistenza dell’uomo in termini di totalità e inclina a vedere anche nella malinconia e nell’ipocondria i tasselli di una costruzione complessiva, agganciati in modo sinergico al mosaico dell’identità individuale. L’uscita da una concezione riprensiva dell’umano guida il drammaturgo a una interpretazione incisivamente culturalizzata della patologia psichica[34], nella quale rifluiscono anche altri suoi interessi e altri oggetti di speculazione, come il legame tra la creatività e la depressione, che parallelamente andava approfondendo in una dimensione estetica nell’Erweis, daß die Poesie schon für sich selbst ihre Liebhaber leichtlich unglückselig machen könne rivolto contro i sostenitori delle teorie di Baumgarten. Gott­hard, quando è libero dagli assalti del male, compone poesie nelle quali cerca con tutta evidenza una forma simbolica di compensazione rispetto allo sconforto della malattia e allo stato di privazione nel quale si ritrova a languire. I versi che, credendosi da solo e non sapendosi osservato dalla Fröhlich, recita all’inizio del quarto atto («Ihr stillen Lüfte hört mein Klagen: / Denn was mir auf dem Herzen liegt, / Das darf ich keinem Menschen sagen: / Als nur, ich lebe misvergnügt. / Und dieß vermehret meine Pein. / Daß ich muß stumm und stille seyn»)[35], presuppongono una visione terapeutica dell’esercizio dell’arte assai più complessa rispetto alle finalità di edificazione e ammaestramento morale tipiche del razionalismo gottschediano. L’espressione allusiva del male contenuta nel canto del ragazzo, pur con l’avvertenza che quanto è possibile dire dietro il velo dell’arte non è che una parte minima del dolore nel quale il personaggio si dibatte, adombra la forma estetica come principio dotato di una capacità di rigenerazione mediante l’esonero dalla sofferenza che si accende nell’uomo a contatto con il primitivo, il non rielaborato, il riemergente.

 

 

 

Bibliografia

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[Theodor Johann Quistorp]: Der Bock im Processe, ein Lustspiel von fünf Aufzügen, in Die Deutsche Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Fünfter Theil, darinn sechs neue deutsche Stücke enthalten sind, Nebst einer Fortsetzung des Verzeichnisses deutscher Schauspiele, ans Licht gestellet von Joh. Christoph Gottscheden, Leipzig 1744, pp. 244-380 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745. Hrsg. von Horst Steinmetz, vol. 5, Stuttgart 1972).

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Riccarda Suitner: I dialoghi dei morti del primo Illuminismo tedesco, Pisa 2021.

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Rita Wöbkemeier: Erzählte Krankheit. Medizinische und literarische Phantasien um 1800, Stuttgart 1990.

Carsten Zelle: Lachen, Literatur und Lebensordnung in zwei Lustspielen der Frühaufklärung: Christlob Mylius: «Die Ärzte» (1745) und Theodor Johann Quistorp: «Der Hypochondrist» (1745), in Christlob Mylius. Ein kurzes Leben an den Schaltstellen der deutschsprachigen Aufklärung. Hrsg. von Nacim Ghanbari und Michael Multhammer (numero monografico di Aufklärung, 31, 2019), pp. 127-149. 



[1] Gabriele Ball: Moralische Küsse. Gottsched als Zeitschriftenherausgeber und literarischer Vermittler, Göttingen 2000, p. 259.

[2] Johann Christoph Gottsched: Briefwechsel. Historisch-kritische Ausgabe. Im Auftrage der Sächsischen Akademie der Wissenschaften zu Leipzig hrsg. von Detlef Döring und Manfred Rudersdorf, vol. 11: Oktober 1745 – September 1746. Hrsg. von Caroline Köhler, Franziska Menzel, Rüdiger Otto und Michael Schlott, Berlin-Boston 2017, p. 105.

[3] Sul clima di forte conflitto tra le posizioni dei gottschediani e quelle di Baumgarten, nonché per un confronto fra i due sistemi, cfr. Dagmar Mirbach: Gottsched und die Entstehung der Ästhetik, in Johann Christoph Gottsched (1700-1766). Philosophie, Poetik und Wissenschaft. Hrsg. von Erich Achermann, Berlin 2014, pp. 113-127.

[4] Secondo Theodor Verweyen, la polemica di Quistorp si appunta su alcuni margini della teoria di Baumgarten semanticamente ancora non presidiati in modo stabile, con l’obiettivo «durch eine sprachlich unscheinbare, semantisch aber weitreichende Umformulierung der Definition den Grundgedanken der Ästhetik, die Aufwertung der ‘Sinnen’, zu verdächtigen» («Halle, die Hochburg des Pietismus, die Wiege der Anakreontik». Über das Konfliktpotential der anakreontischen Poesie als Kunst der «sinnlichen Erkenntnis», in Zentren der Aufklärung 1. Halle – Aufklärung und Pietismus. Hrsg. von Norbert Hinske, Heidelberg 1989, pp. 209-238, qui p. 221).

[5] Theodor Johann Quistorp: Erweis, daß die Poesie schon für sich selbst ihre Liebhaber leichtlich unglückselig machen könne, in Neuer Büchersaal der schönen Wissenschaften und freyen Künste, 1, 1745, 5, pp. 433-452, qui pp. 445-446.

[6] Sulla progressiva integrazione nel corpo dell’estetica di Baumgarten di tali rilievi, che riflettevano obiezioni assai diffuse nella discussione dell’epoca, cfr. Stefan Borchers: Die Erzeugung des «ganzen Menschen». Zur Entstehung von Anthropologie und Ästhetik an der Universität Halle im 18. Jahrhundert, Berlin-New York 2011, pp. 143 ss.

[7] Georg Friedrich Meier: Vertheidigung der Baumgartischen Erklärung eines Gedichts, wider das 5 Stück des 1 Bandes des neuen Büchersaals der schönen Wissenschaften und freyen Künste, Halle 1746, p. 3 (lo scritto di Meier è ripubblicato nello stesso 1746 in Critischer Versuch zur Aufnahme der Deutschen Sprache, 3, 1744-1746, 15, pp. 234-267).

[8] Ivi, p. 11.

[9] Ivi, pp. 19-20.

[10] «Was ich dem Mag. Meier geantwortet habe, das werden Dieselben aus den Pommerschen Nachrichten ersehen haben. Und, da man nunmehro in den critischen Versuchen eine umständlichere Erklärung von mir gefordert hat; so soll auch die mit dem künftigen Stücke erscheinen» (Johann Christoph Gottsched: Briefwechsel, vol. 11, cit., p. 474. La sollecitazione a cui Quistorp allude era contenuta nella versione del saggio di Meier apparsa nel Critischer Versuch zur Aufnahme der Deutschen Sprache. Questa ulteriore replica di Quistorp non potrà essere pubblicata perché le Pommersche Nachrichten cesseranno la loro attività).

[11] Cfr. Christoph Schmitt-Maass: Gestorben werden. Totengespräche als Literaturkritik von Gottsched bis Goethe, in Essen, töten, heilen. Praktiken literaturkritischen Schreibens im 18. Jahrhundert. Hrsg. von Barry Murnane – Ritchie Robertson – Christoph Schmitt-Maass – Stefanie Stockhorst, Göttingen 2019, pp. 86-108 e Riccarda Suitner: I dialoghi dei morti del primo Illuminismo tedesco, Pisa 2021.

[12] Theodor Johann Quistorp: Gespräch im Traume, mit dem Hrn. v. Canitz, über die neumodische hieroglyphische Schreibart, in Neuer Büchersaal der schönen Wissenschaften und freyen Künste, 9, 1750, 4, pp. 301-320, qui pp. 304-305.

[13] Ivi, p. 306.

[14] Ivi, p. 313. Di «veritas heterocosmica» Baumgarten parla nel par. 441 dell’Aesthetica.

[15] Ivi, p. 320.

[16] [Theodor Johann Quistorp]: Die Austern, Ein Nachspiel, in Die Deutsche Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Vierter Theil, darinn sechs neue deutsche Stücke enthalten sind, Nebst einer Fortsetzung des Verzeichnisses deutscher Schauspiele, ans Licht gestellet von Joh. Christoph Gottscheden, Leipzig 1743, pp. 445-504 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745. Hrsg. von Horst Steinmetz, vol. 4, Stuttgart 1972).

[17] [Theodor Johann Quistorp]: Der Bock im Processe, ein Lustspiel von fünf Aufzügen, in Die Deutsche Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Fünfter Theil, darinn sechs neue deutsche Stücke enthalten sind, Nebst einer Fortsetzung des Verzeichnisses deutscher Schauspiele, ans Licht gestellet von Joh. Christoph Gottscheden, Leipzig 1744, pp. 244-380 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 5, Stuttgart 1972).

[18] [Theodor Johann Quistorp]: Der Hypochondrist. Ein deutsches Lustspiel. In fünf Aufzügen. Von Theodor Johann Quistorpen, Beyder R. Licentiaten, in Der Deutschen Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Sechster und letzter Theil, darinnen sechs neue deutsche Stücke ent­halten sind, ans Licht gestellet von Johann Christoph Gottscheden, Leipzig 1745, pp. 277-396 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 6, Stuttgart 1972).

[19] [Theodor Johann Quistorp]: Aurelius, oder Denkmaal der Zärtlichkeit, ein Trauerspiel von Theodor Joh. Quistorp, in Die Deutsche Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Vierter Theil, cit., pp. 185-262 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 4, cit.). Cfr. Heide Hollmer: Anmut und Nutzen. Die Originaltrauerspiele in Gottscheds «Deutscher Schaubühne», Tübingen 1994, pp. 166 ss.

[20] Johann Christoph Gottsched: Vorrede, in Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 4, cit., pp. 3-27, qui pp. 11-12.

[21] Cfr. Marina Doetsch: Konzeption und Komposition von Gottscheds «Deutscher Schaubühne». «Eine kleine Sammlung guter Stücke» als praktische Poetik, Frankfurt am Main 2016.

[22] «Noch ein andrer Fehler des Moliere, den ihm viel kluge Leute verzeihen, und den ich ihm durchaus nicht verzeihen mag, ist, daß er dem Laster ein angenehmes, und der Tugend ein verhaßtes und allzustrenges Ansehen gegeben hat. Ich sehe wohl, daß seine Vertheidiger behaupten werden: er wäre der wahren Gottesfurcht mit aller Ehre begegnet, er habe nur eine mürrische Tugend, und eine verfluchenswürdige Heucheley angetastet. Allein, ich behaupte, ohne mich in einen so weitläuftigen Streit einzulassen, daß Plato und die andern Gesetzgeber des heydnischen Alterthums niemals in ihren Republiken ein solches Spiel über die Sitten zugelassen haben würden» ([Fénelon]: Gedanken von den Lustspielen, in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 1, Stuttgart 1972, pp. 34-38, qui p. 38).

[23] [Ludvig Holberg]: Jean de France oder Der deutsche Franzose. Ein Lustspiel in fünf Aufzügen. Aus dem Dänischen des Herrn Professor Hollbergs übersetzt von M. George August Detharding, in Die Deutsche Schaubühne nach den Regeln der alten Griechen und Römer eingerichtet, und mit einer Vorrede herausgegebenen von J. C. Gottscheden, zweyter Theil, Leipzig 1741, pp. 427-503 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 2, Stuttgart 1972).

[24] [Luise Adelgunde Victorie Gottsched]: Die Hausfranzösinn, oder die Mammsell. Ein deutsches Lustspiel, in fünf Aufzügen, in Die Deutsche Schaubühne, nach den Regeln und Mustern der Alten, Fünfter Theil, darinn sechs neue deutsche Stücke enthalten sind, Nebst einer Fortsetzung des Verzeichnisses deutscher Schauspiele, ans Licht gestellet von Joh. Christoph Gottscheden, Breitkopf, Leipzig 1744, pp. 67-190 (ristampa in Johann Christoph Gottsched: Die Deutsche Schaubühne. Faksimiledruck nach der Ausgabe von 1741-1745, vol. 5, cit.).

[25] Sulla francofobia nella Deutsche Schaubühne e in particolare nei lavori di Luise Gottsched, cfr., tra gli altri, Bernd Blaschke: Anleihen und Verachtung. Luise Gottscheds französischer Komödienimport als Arbeit an einem deutschen Theater, in Deutsch-französische Literaturbeziehungen. Stationen und Aspekte dichterischer Nachbarschaft vom Mittelalter bis zur Gegenwart. Hrsg. von Marcel Krings und Roman Luckscheiter, Würzburg 2007, pp. 71-85.

[26] Cfr. Tanja van Hoorn: «Verachte alle vernünftigen Ärzte». Komödiantische Medizindiskurse um 1750, in Heilkunst und schöne Künste. Wechselwirkungen von Medizin, Literatur und bildender Kunst im 18. Jahrhundert. Hrsg. von Heidi Eisenhut, Anett Lütteken und Carsten Zelle, Göttingen 2011, pp. 137-144.

[27] Mi limito a rimandare al canonico Hans-Jürgen Schings: Melancholie und Aufklärung. Melancholiker und ihre Kritiker in Erfahrungsseelenkunde und Literatur des 18. Jahrhunderts, Stuttgart 1977.

[28] Mi pare che Christian Neuhuber (Das Lustspiel macht Ernst. Das Ernste in der deutschen Komödie auf dem Weg in die Moderne: von Gottsched bis Lenz, Berlin 2003) sottostimi questi aspetti, là dove, pur riconoscendo il carattere esclusivo e totalitario della concezione gottschediana di morale, considera la commedia di Quistorp come perfettamente conforme a tale concezione, poiché il protagonista non avrebbe un tratto di identità individuale abbastanza forte da sottrarsi alla griglia tipologica nella quale lo costringerebbe la sua condizione (cfr. pp. 23 ss.).

[29] Theodor Johann Quistorp: Der Hypochondrist, cit., pp. 291-292.

[30] Ivi, p. 306.

[31] Ivi, pp. 308-309. Cfr., su questo passaggio e sulle fantasie di declassamento economico e sociale che vi sono tematizzate, Rita Wöbkemeier: Erzählte Krankheit. Medizinische und literarische Phantasien um 1800, Stuttgart 1990, pp. 144-145.

[32] Nel celebre attacco del capitolo XXIX della Hamburgische Dramaturgie: «Die Komödie will durch Lachen bessern; aber nicht eben durch Verlachen; nicht gerade diejenigen Unarten, über die sie zu lachen macht, noch weniger bloß und allein die, an welchen sich diese lächerliche Unarten finden. Ihr wahrer allgemeiner Nutzen liegt in dem Lachen selbst; in der Übung unserer Fähigkeit das Lächerliche zu bemerken; es unter allen Bemäntelungen der Leidenschaft und der Mode, es in allen Vermischungen mit noch schlimmern oder mit guten Eigenschaften, sogar in den Runzeln des feierlichen Ernstes, leicht und geschwind zu bemerken» (Gotthold Ephraim Lessing: Hamburgische Dramaturgie, in Werke und Briefe in zwölf Bänden. Hrsg. von Winfried Barner et al., vol. 6: Werke 1767-1769. Hrsg. von K. Bohnen, Frankfurt am Main 1985, p. 323).

[33] In questo senso mi pare eccessiva l’enfasi che sul matrimonio come atto di reinserimento nella comunità viene posta da Edward T. Potter: Hypochondriacal Homoeroticism: Sickness and Same-sex Desire in Theodor Johann Quistorp’s «Der Hypochondrist», in Seminar, 44, 2008, pp. 6-20. Molto più pertinenti mi sembrano le osservazioni di Stephanie Bölts: Krankheiten und Textgattungen. Gattungsspezifisches Wissen in Literatur und Medizin um 1800, Berlin-Boston 2016, pp. 322-323, in particolare lì dove la studiosa indica in una strategia metateatrale, perseguita attraverso una specie di ‘test del ridicolo’ (secondo la nota categoria risalente a Shaftesbury, che ha largo corso nella cultura tedesca a metà del Settecento), il fulcro della terapia praticata dalla Fröhlich a vantaggio del protagonista.

[34] Cfr. Carsten Zelle: Lachen, Literatur und Lebensordnung in zwei Lustspielen der Frühaufklärung: Christlob Mylius: «Die Ärzte» (1745) und Theodor Johann Quistorp: «Der Hypochondrist» (1745), in Christlob Mylius. Ein kurzes Leben an den Schaltstellen der deutschsprachigen Aufklärung. Hrsg. von Nacim Ghanbari und Michael Multhammer (numero monografico di Aufklärung, 31, 2019), pp. 127-149.

[35] Theodor Johann Quistorp: Der Hypochondrist, cit., p. 347.