@article{Moca_2017, title={Iser, Lacan e l’ermeneutica del testo letterario come riempimento degli spazi bianchi Un’applicazione in Tommaso Landolfi e Georges Perec}, url={https://riviste.unimi.it/index.php/enthymema/article/view/8324}, DOI={10.13130/2037-2426/8324}, abstractNote={<p align="justify"><span><span>In <em>L’atto della lettura</em>, Wolfgang Iser parlando del rapporto tra un testo e il suo lettore, scrive che questa interazione assume una natura «reciprocamente limitativa e amplificante tra l’esplicito e l’implicito, tra rivelazione e nascondimento». In questi spazi vuoti, per cui Iser usa il termine «<em>blanks»</em>, si creano «asimmetrie» che diventano i luoghi dell’interpretazione. Il lettore è quindi chiamato ad interpretare un ruolo ermeneutico attivo, perché lo spazio bianco si trasforma in un luogo di riserva di senso e permette le aperture in cui si introducono le trasformazioni da lui operate. Lo spazio bianco quindi, da luogo di silenzio, si trasforma in un invito all’interpretazione attraverso il non-detto che suggerisce, come scrive Banon in <em>La lettura infinita</em>.</span></span></p><p align="justify"><span><span></span></span>Una simile visione del ruolo del lettore è assai contigua alla riflessione lacaniana sulle differenze tra la parola piena e la parola vuota. Secondo Lacan la parola piena è quella in grado di risolvere le formazioni dell’inconscio, quella che «presuppone il riconoscimento di colui al quale è rivolta. È ciò che è – ossia una parola che lega, che unisce – soltanto quando è data a un altro, che non sono <em>io</em>». Il cuore dell’analisi per Lacan sta proprio qui, nel riconoscimento di una alterità connaturata alla parola. Il <em>tu</em> è allora fondamentale per la parola piena, il <em>tu</em> e l’<em>io</em> sono necessariamente legati in quanto il secondo istituisce il suo valore solo investendo il primo della capacità di rispondere. Solo la parola piena quindi sarà, per Lacan, possibile portatrice di una vera soddisfazione del soggetto. </p><p class="western" align="justify"><span><span>In tale ottica diventa allora interessante indagare le forme che le parole di un’opera assumono, per valutare quanto la parola scritta ricalchi o meno la parola piena, anche nel suo rapporto con il fruitore diretto, il lettore, che assume un ruolo che, forzando i termini del paragone, potremmo definire quasi di psicoanalista, in quanto si mette nella posizione di ascoltatore e interprete della parola. E così come per lo psicoanalista, la sua funzione sarà quella di riempire i <em>blanks</em>, gli spazi bianchi di cui parla Wolfgang Iser, alla ricerca dell’interpretazione. In alcuni casi, lo stesso atto della scrittura sarà un tentativo di far assumere alla parola quella intersoggettività che la rende piena, in altre invece spetterà al lettore-psicoanalista lo sforzo di riempire di significato i <em>blanks</em>, gli spazi vuoti della parola perché, come suggerisce Roland Barthes, «tutta la moneta logica è negli interstizi». </span></span></p><p class="western" align="justify"><span><span>Così diviene interessante l’utilizzo di una teoria critica che, attraverso gli strumenti della psicoanalisi lacaniana e dei paradigmi di Iser, tenti un’analisi comparata dei diari di Tommaso Landolfi e del romanzo pseudo-autobiografico <em>W ou le souvenir d’enfance</em> di Georges Perec. In queste due opere infatti i confini tra i ruoli di autore, personaggio e lettore sono molto sfumati e la scrittura è scissa in due parti: una più immediatamente indagabile, l’altra invece tentativo di narrare il bianco che accompagna la memoria e la scrittura e che, attraverso questo metodo, il critico può tentare di riempire.</span></span></p>}, number={18}, journal={ENTHYMEMA}, author={Moca, Matteo}, year={2017}, month={giu.}, pages={105–120} }