«Il manque un anneau à la chaîne»: l’audace esperimento della ‘proprietà scientifica’

Elisabetta Fusar Poli

Università degli Studi di Brescia

elisabetta.fusarpoli@unibs.it

Abstract: Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, il tema della ‘proprietà scientifica’ incontra il vivo interesse della scienza giuridica europea. È il tratto più visibile di un percorso breve che si snoda fra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi decenni del ventesimo secolo, un percorso denso di intersezioni con temi cruciali della storia giuridica contemporanea. Protagoniste di questa vicenda sono le nuove forme di attività intellettuale che contribuiscono in modo eclatante a delineare la fisionomia della modernità, segnata dal tratto sempre più impetuoso dello sviluppo scientifico e tecnologico. Dalle prime attenzioni verso i diritti dei savants sulle loroœuvres ou découvertes scientifiques (con la proposta di convenzione internazionale redatta da Francesco Ruffini per la Société des Nations) sino al dissolversi dell’interesse per la questione, nel discorso della scienza giuridica nazionale ed europea spiccano soprattutto contrapposizioni – fra forze sociali ed economiche, ma anche fra diverse concezioni del diritto – e contrasti teorico-dogmatici, nonché politici; una conflittualità che, da un lato, ha inevitabilmente precluso alla ‘proprietà scientifica’ lo sbocco allo ius positum, dall’altro, ne ha fatto per il giurista una sorta di prezioso laboratorio sperimentale.

Parole chiave: Proprietà scientifica; storia del diritto (età contemporanea); proprietà intellettuale Società delle Nazioni; scienza giuridica italiana

Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, il tema della ‘proprietà scientifica’[1] raggiunge l’acme dell’interesse della scienza giuridica europea. È il tratto più visibile di un percorso breve (si snoda fra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi decenni del ventesimo secolo) ed appartato, che pare aver lasciato ben poche tracce di sé, soprattutto guardando al terreno normativo. Tuttavia, è un percorso denso di intersezioni con temi cruciali della storia giuridica contemporanea, dunque circoscritto nel tempo e decisamente peculiare, ma non certo angusto.

Protagonista di questa vicenda è il lavoro dello scienziato; ancor meglio: protagoniste sono le nuove forme di attività intellettuale che contribuiscono in modo eclatante a delineare la fisionomia della modernità, segnata dal tratto sempre più impetuoso dello sviluppo scientifico e tecnologico. Fra la fine dell’Ottocento e l’avvio del Novecento, clamorose scoperte e invenzioni dalle dirompenti applicazioni pratiche riscuotono, ora epidermico entusiasmo (con qualche eccesso ‘fideistico’), ora un’attenzione anche speculativa; da esse trae linfa il mito del progresso e l’aspirazione alla supremazia culturale ed economica di una nazione[2].

In un simile contesto, si affaccia all’orizzonte del giurista europeo la ‘proprietà scientifica’, con le sue implicazioni sovranazionali, i suoi profili dogmatici e al contempo pratici, le sue ingombranti ascendenze proprietarie, insieme alle ineludibili connessioni con il mondo economico e produttivo, nella nuova prospettiva dall’azienda e dell’impresa[3], del mercato e della concorrenza[4]. Si comprende così perché, dalle prime attenzioni verso i diritti dei savants sulle loro œuvres ou découvertes scientifiques, sino al dissolversi dell’interesse per la questione, nel discorso scientifico spicchino soprattutto contrapposizioni (fra forze sociali ed economiche, ma anche fra diverse concezioni del diritto) e contrasti (teorico-dogmatici, ma anche politici); una conflittualità che, da un lato, ha inevitabilmente precluso alla ‘proprietà scientifica’ lo sbocco allo ius positum, dall’altro, ne ha fatto per il giurista una sorta di prezioso laboratorio sperimentale.

Gli apici che racchiudono graficamente la locuzione ‘proprietà scientifica’ (adottati anche nei documenti ufficiali e dalla dottrina coeva) evocano quella pregiudiziale difficoltà concettuale che lo stesso Francesco Ruffini[5], promotore nel 1923 dei lavori sul tema in seno alla Società delle Nazioni[6], vuole evidenziare in via preliminare nel Rapport con il quale sorregge la sua proposta di convenzione internazionale. Accolto l’invito della Società ad occuparsi dello spinoso argomento, il senatore Ruffini solo per «amour de brièveté» impiega tale locuzione, più allusiva che definitoria, in quanto ha il pregio di semplificare e far emergere immediatamente la connessione con la più ampia e omnicomprensiva categoria dellapropriété intellectuelle di ascendenza francese[7] e, al contempo, la «opposition aux deux autres termes de propriété littéraire et artistique et de propriété industrielle»[8].

Quando le velleità latamente teoriche cederanno il passo, intorno agli anni Trenta, alle più stringenti esigenze e preoccupazioni del mondo industriale, anche le scelte terminologiche ben rappresenteranno lo spostamento del baricentro della questione. E così, si passerà dalla ‘proprietà scientifica’ ai droits des savants; ovvero: dal tentativo di identificazione di un nuovo genus ascrivibile alla variegata famiglia della proprietà intellettuale, si passerà alla preoccupazione – decisamente meno ambiziosa – di circoscrivere e dettagliare i diritti di natura patrimoniale (remunerazioni o premi) da riconoscersi allo scienziato.

Torniamo, ora, agli albori ufficiali della vicenda e al Rapport di Ruffini. Nelle righe (e fra le righe) del documento che apre la strada al dibattito, non leggiamo solo una bozza di convenzione, ma anche e soprattutto il fervore e i timori di chi ha la consapevolezza di metter mano a un ambito giuridicamente vergine, dovendo in via preliminare bilanciare gli interessi in gioco, per prescegliere quelli meritevoli di tutela.

Il tutto, con l’ulteriore difficoltà della prospettiva sovranazionale inevitabilmente avvinta a quelle nazionali: il problema da affrontare, infatti, è per sua natura ‘globale’, perché è fisiologicamente compromesso con la fluidità del mercato e condizionato dalla natura tipicamente immateriale – per impiegare un aggettivo caro a chi all’epoca guarda alla dottrina tedesca e in particolare a Joseph Kohler[9] – del suo oggetto. Una convenzione promossa dalla Società delle Nazioni è, dunque, la soluzione ideale per conciliare il piano degli eterogenei ordinamenti nazionali con quello internazionale, al fine di raggiungere un’auspicata armonizzazione normativa. Del resto, proprio nell’ambito della proprietà intellettuale si moltiplicano gli esempi di interventi di questo tipo: la Convenzione di Parigi (1883) in materia di brevetti e quella di Berna (1886) per il diritto d’autore hanno dato l’abbrivio al fenomeno.

Ruffini fa propria la via della internationalité caldeggiata dalla Società delle Nazioni, ma non abbandona la nuda questione al confronto (e scontro) fra i delegati: scansa le difficoltà di una prevedibilmente lunga e complessa ricerca di un massimo comune divisore fra i Paesi rappresentati, articolando un proprio dettagliato testo di convenzione (il Projet), che funga da avanzata bozza di lavoro. Inserisce nelRapport anche una meticolosa ricostruzione dei primi accenni d’interesse alla ‘proprietà scientifica’ (a partire dal congresso della Association Littéraire et artistique internationale, del 1878[10]) e delle ragioni concrete di tale crescente attenzione.

Il progetto normativo, presentato alla Commission de Coopération Intellectuelle della Societé, è finalizzato a colmare la grave lacuna di un intero sistema: esso è destinato a prevedere una tutela a vantaggio di quell’attività di ricerca scientifica che risulta esclusa dalla «protection assurée aux œuvres de l’industrie, de l’art et de la littérature» (articolo 3 del Projet) e sino a quel momento carente di una sua propria dimensione giuridica. La legge deve provvedere affinché allo scienziato siano garantiti i frutti economici del suo lavoro intellettuale, ovverossia una percentuale sul valore venale che alle scoperte o invenzioni – in qualunque ramo della scienza siano compiute – sia attribuibile per la loro eventuale applicazione pratica e utilizzazione in ambito industriale. Un intervento normativo in tal senso risponderebbe a una «ragione di giustizia distributiva»[11], colmando una grave lacuna del sistema giuridico: «un anneau manque à la chaîne assurant aux créateurs de l’esprit une juste reconnaissance», scrive Ruffini[12].

La fisionomia del diritto in via di costruzione si identifica con un «droit d’auteur sur les avantages économiques» derivanti dallo sfruttamento della scoperta; tale diritto, in pratica, non è che una redevance riconosciuta per tutta la vita all’autore della scoperta scientifica (e per cinquanta ulteriori anni a vantaggio degli eredi), esigibile a prescindere da formalità amministrative e pratiche burocratiche. I modelli presi a riferimento (le ‘maniglie’[13] alle quali Ruffini si appiglia) nell’elaborazione del progetto di convenzione e nelle argomentazioni giuridiche esposte sono essenzialmente due: il diritto d’autore[14] è il paradigma elettivo, ma per la definizione degli aspetti relativi ai diritti patrimoniali (decisamente prevalenti nelle preoccupazioni della Commission), la disciplina delle privative industriali offre più adeguati ed efficaci strumenti[15].

Approvati i principî di fondo esposti nel Rapport, nel corso della quarta Assemblea della Società delle Nazioni tenutasi nel settembre 1923, il progetto di Ruffini è trasmesso «a tous les gouvernements» per recepirne le osservazioni entro l’Assemblea successiva, con l’obiettivo di arrivare a un testo definitivo di convenzione da sottoporre alla ratifica degli Stati contraenti[16].

I riscontri sono, però, in larga parte scettici, se non apertamente negativi.

La piattaforma veramente comune appare essere la mera opportunità di garantire anche agli scienziati una remunerazione per il loro lavoro di natura intellettuale, ma la soluzione concreta proposta da Ruffini pare scontrarsi frontalmente con la realtà[17]. Al punto che, alla luce delle risposte pervenute al Segretariato della Società delle Nazioni, la Commission non è in grado di trarre alcuna conclusione, ma solo di rilevare che si sta discutendo della creazione di un vero e proprio nuovo diritto, l’applicazione del quale si rivela particolarmente difficile per insanabili divergenze circa la sua natura e, prima ancora, circa la sua stessa ragione d’esistenza.

Invocando l’esigenza di considerare anche gli interessi degli industriali coinvolti, è quindi convocata una Conférence d’experts[18]: è solo la prima di una serie di ripetute iniziative di consultazione che, animate dalle migliori intenzioni risolutive, si esauriscono in documenti ufficiali anodini e improduttivi[19]. Non ne darò analiticamente conto in questa sede; qui mi limito a evidenziare che, ad ogni occasione internazionale d’intervento sul testo predisposto inizialmente da Ruffini, il problema della definizione di uno status giuridico per la ‘proprietà scientifica’ diviene sempre più esornativo, quasi un impaccio nella prospettiva di una rapida soluzione condivisa, che possa essere trasfusa in un testo normativo.

Frattanto, a livello nazionale è particolarmente indicativo delle contrapposizioni anche teoriche sottese al tema della ‘proprietà scientifica’ il dibattito presso l’Accademia dei Lincei (svoltosi in quattro sedute, dal gennaio all’aprile 1924)[20], alla quale è affidato il compito di concretizzare in un documento la posizione del Governo italiano rispetto ai quesiti esplorativi posti dalla Società delle Nazioni. Partecipano al serrato confronto scienziati di chiara fama e rilevanza anche istituzionale (fra i quali, i matematici Vito Volterra e Federigo Enriques, il fisico e ministro dell’Economia Nazionale Orso Mario Corbino), economisti e, fra gli esponenti della scienza giuridica nazionale, Vittorio Scialoja[21], Cesare Vivante[22], Vittorio Polacco[23], oltre allo stesso Ruffini[24].

La «crisi del lavoro scientifico», rilevata in avvio della discussione, è ricondotta alle difficoltà economiche del primo dopoguerra: nonostante l’Italia viva un rapido e vasto processo di industrializzazione[25], resta «assai in coda per ciò che concerne i mezzi di ricerca, divenuti ormai fattori indispensabili e predominanti delle scoperte scientifiche»[26]. Emerge così l’esigenza di un diritto che sostenga i nuovi fattori produttivi e accompagni auspicabilmente la nazione verso una nuova fase di ripresa e sviluppo.

La questione pare, però, oltre che incandescente per la sua attualità, scivolosa, se valutata dai suoi sfocati e mobili contorni giuridici. Cesare Vivante, in particolare, con il suo intervento nel corso dell’adunanza plenaria del 5 marzo 1924, evidenzia le ragioni della sua opposizione al progetto, richiamandosi al suo La tutela della proprietà scientifica innanzi la Società delle Nazioni, apparso lo stesso anno sulle pagine della «Nuova Antologia» (e, immediatamente dopo, sul «Monitore dei Tribunali»)[27], quasi in un confronto a distanza col collega Ruffini. Quest’ultimo ribatte verbis di fronte ai Lincei e scriptis sempre dalle pagine della «Nuova Antologia», con Scienza ed industria[28], un contributo che sin dal titolo vuole evocare i termini essenziali del confronto-scontro di interessi e forze sottesi alla ‘proprietà scientifica’.

Vivante argomenta con vigore una posizione che appare perfettamente coerente con il suo «metodo esperienziale»[29], ove l’acuta sensibilità per il dato reale si unisce all’attenzione per gli aspetti sistematici e di raccordo fra le norme dell’ordinamento. Questo metodo, nutrito di una specifica conoscenza del settore, maturata sul campo attraverso il coinvolgimento nei progetti parlamentari d’inizio secolo per la riforma della disciplina delle privative industriali[30], lo porta ad accostarsi con spirito critico alla ‘proprietà scientifica’ e alla questione ontologica che essa sottende, dovendo ancora essere fornita una convincente risposta all’interrogativo preliminare circa l’esistenza di un vero e proprio ‘nuovo diritto’.

Al riguardo, Vivante afferma recisamente che «il rapporto che corre fra l’invenzione teorica e l’applicazione industriale manca del carattere elementare che occorre ad una protezione giuridica e cioè della possibilità di una valutazione patrimoniale»[31], oltre ad esporre l’industria italiana «all’onere di una percentuale imprevedibile» (che andrebbe ulteriormente a deprivarla) e agli effetti deleteri di un rischioso incentivo alla segretezza delle scoperte scientifiche. Pertanto, se può astrattamente condividersi, in termini di giustizia, il riconoscimento economico per l’attività dello scienziato, in concreto non parrebbe percorribile la strada della tutela normativa: «La legge non deve essere solo giusta; essa deve essere vitale, cioè capace di attuazione»[32].

Il dato storico, del resto, conferma l’impossibilità di accedere all’efficace protezione giuridica offerta dalla disciplina delle privative industriali. La legge sarda del 12 marzo 1855, n. 782 «intorno alle privative per invenzioni e scoperte industriali», divenuta legge anche del Regno d’Italia[33], esclude, infatti, dalla propria egida – e analogamente accade in tutte le leggi europee in materia – le scoperte non immediatamente suscettibili di applicazione industriale; la giurisprudenza nei decenni ha custodito gelosamente l’interpretazione restrittiva di tale esclusione.

Vittorio Polacco, che porta a riprova delle sue considerazioni la personale esperienza legislativa nell’affine materia della proprietà letteraria ed artistica, si spende a difesa del progetto di Ruffini, affermando l’innegabile «consistenza obiettiva giuridica» del «principio scientifico» e della «scoperta scientifica»[34], assimilabile a tutti quei beni (i beni immateriali) oggetto di proprietà intellettuale all’epoca disciplinati dalla legge. Se, tuttavia, può esservi accordo sul fatto che si tratti di potenziali oggetti di diritto, resta altrettanto evidente, riprendendo le argomentazioni di Vivante, che «il diritto suppone un rapporto di causa ad effetto» e tale rapporto non può reperirsi in senso biunivoco fra «l’opera dell’inventore del principio scientifico» e la sua attuazione industriale, in quanto «ad una applicazione industriale convergono infinite scoperte scientifiche che si intralciano, si intersecano, si completano».

Si parli pure, dunque, di un «interesse sociale», conclude Vivante, «ma non possiamo parlare di diritto»[35]. Il diverso trattamento riservato alle invenzioni industriali rispetto alle scoperte scientifiche, escluse dalla tutela normativa, non è un’incoerenza sistematica, infausto esito della trascuratezza (o miopia) del legislatore, bensì la naturale conseguenza di precise ragioni economiche: dei benefici del brevetto gode il «comune consorzio degli uomini», considerati i fondamentali effetti divulgativi della brevettazione, mentre diritti patrimoniali esclusivi sulle mere scoperte scientifiche incentiverebbero, semmai, la segretezza da parte dello scienziato, che per non condividere la redevance con chi perfezionerà la sua scoperta, è indotto a non mettere il suo sapere a disposizione della collettività (ivi inclusi i concorrenti)[36].

Queste le nitide posizioni espresse da Vivante.

Vittorio Scialoja (all’epoca, anch’egli delegato presso la Società delle Nazioni) si fa arbitro del contrasto e suggerisce una soluzione di compromesso fra le contrapposte tesi di Ruffini e Vivante, avanzando l’ipotesi del riconoscimento di un ‘premio’ per gli scienziati, piuttosto che di una retribuzione. Una salomonica proposta che, da un lato, vorrebbe offrire una ricompensa ai nuovi primattori della modernità, dall’altro, evita d’affossare il percorso internazionale e la buona luce che esso ha contribuito a gettare sull’Italia, protagonista con Ruffini di un dibattito di singolare ampiezza e risonanza[37].

In conclusione dei lavori dei Lincei, non può che emergere l’esiguità e genericità dei punti di contatto fra gli eterogenei interventi succedutisi nel corso delle adunanze a palazzo Corsini e, al contempo, l’evidente contrasto fra l’esigenza astratta di giustizia e la ricerca di soluzioni normative concrete e praticabili:

«La R. Accademia Nazionale dei Lincei […] riconosce conforme ai principii di equità e di giustizia il concetto fondamentale, per cui, sviluppando la tutela della proprietà intellettuale, si vuole attribuire agli scopritori di verità scientifiche una remunerazione anche patrimoniale sul reddito delle invenzioni brevettate che si fondano su quelle verità; ma rendendosi conto, al tempo stesso, delle gravi difficoltà di ordine tecnico e giuridico relative alle disposizioni legali proposte, opina che il progetto debba essere, sotto tale rispetto, ampiamente riveduto, e fa voti che, nell’attesa, il Governo del Re studii l’opportunità di provvedimenti intesi a maggiormente promuovere e compensare il lavoro scientifico nazionale»[38].

Analoghe, se non più forti, perplessità sono espresse pochi giorni dopo dalla Società italiana per il progresso delle scienze, nel corso della sua tredicesima riunione, avutasi a Napoli fra il 29 aprile e il 2 maggio 1924. La comunicazione presentata dallo stesso Ruffini suscita un dibattito irto di scontri e dissensi (fra giuristi, ma anche fra giuristi e ‘tecnici’) protrattosi per due sedute a classi riunite e una seduta della sezione giuridica. Anche qui, le attività si concludono con un prevedibilmente generico riconoscimento de «la giustizia e l’utilità sociale che allo scopritore di un principio teorico sia riconosciuto un diritto di partecipazione ai profitti delle invenzioni, che su quel principio abbiano il loro necessario fondamento»[39].

A fronte di tali vaghe e, per così dire, prudenti conclusioni sul piano nazionale, a livello internazionale l’interesse si mantiene vivo, ma muta di prospettiva. Alzato il velo sulla posizione dominante degli interessi dell’industria, l’approccio alla questione sembra ormai spostato sul piano della ricerca di un compromesso fra il riconoscimento economico per lo scienziato e lo sfruttamento della scoperta scientifica nel ciclo produttivo[40]. L’accertamento in merito all’opportunità e concreta attuabilità di una tutela (con l’individuazione delle sue specifiche modalità) per il lavoro intellettuale dello scienziato diviene pregiudiziale rispetto, non solo alle questioni terminologiche, ma anche a quelle d’inquadramento dogmatico e sistematico.

Non interessa più la definizione di precisi contorni giuridici per l’inafferrabile materia. La crescente incidenza del Comité économique della Società delle Nazioni e dei pareri espressi dalla Chambre de Commerce Internationale fanno piuttosto convergere l’attenzione sui timori delle imprese europee che guardano ai diritti economici, eventualmente assegnati agli scienziati per lo sfruttamento industriale delle loro scoperte, come a nuovi oneri economici, ulteriori rispetto a quelli già derivanti dallo sfruttamento delle invenzioni brevettate.

E così, il progetto di convenzione trova un ulteriore intralcio sulla sua strada, per una nuova e dirimente questione indicata dal Comité: la predisposizione di un’idonea tutela dell’impresa mediante assicurazione, a garanzia dei rischi economici derivanti dallo sfruttamento industriale delle scoperte scientifiche disciplinate dalla convenzione ancora da approvarsi[41].

La nuova indagine esplorativa che ne consegue, con un inevitabile e decisivo rallentamento nel cammino sempre più incerto verso la convenzione, nel 1930 giunge a conclusione, però palesando nuovi nodi da sciogliere. Da un lato, infatti, si propone un nuovo problema giuridico (qual è il rischio assicurato e quale la sua peculiare natura?), dall’altro, un’incognita di natura attuariale (come valutare in termini probabilistici il rischio?).

Per Eduardo Piola Caselli[42], sempre più coinvolto su ogni fronte aperto in materia di proprietà intellettuale, e chiamato anche ad alimentare in modo decisivo gli apporti italiani in ambito internazionale, il tema dell’assicurazione ha «spostato il problema dal campo giuridico a quello tecnico-pratico assicurativo», di fatto complicandolo, per via della aleatorietà dei rischi da affrontare «in una materia affatto nuova, nella quale mancano tavole di previsione»[43].

Nonostante gli evidenti dubbi, Piola Caselli si fa comunque promotore di un’iniziativa tutta italiana, che vede la partecipazione di Del Vecchio, Solmi, Riccobono, Anzilotti e di nuovo Scialoja[44], rilanciando una soluzione al problema assicurativo, che si regge sui capisaldi della controversa esperienza corporativa fascista[45]. Si tratta del progetto di Consorzio italiano assicuratori rischi scoperte scientifiche, articolato dalla Commissione nazionale italiana per la cooperazione intellettuale (omologo nazionale della Commission), che diviene soprattutto occasione di magniloquente celebrazione del ‘nuovo corso’ fascista. L’impostazione collettivista adottata è lontana del pensiero ruffiniano, in quanto distribuisce il costo economico della ‘proprietà scientifica’ « sur toutes les économies, soit de production que de consommation» che si avvantaggiano, anche potenzialmente, dei progressi generati dalle scoperte stesse[46]. Il meccanismo sindacal-corporativo, ovvero l’intervento delle Confederazioni e il controllo dello Stato, è suggerito quale modello ideale, idoneo a garantire un equo bilanciamento fra remunerazione degli autori di scoperte e possibilità economiche dei soggetti tenuti a pagare tale remunerazione. E la bontà del sistema corporativo appena eretto dal regime vi appare confermata: sulla carta, è dimostrata la sua adattabilità e la sua capacità di colmare le lacune delle strutture giuridiche tradizionali, soprattutto quando sono in gioco interessi collettivi di natura economica.

La proposta italiana, che pare concentrarsi eccessivamente sulle disposizioni di dettaglio relative al consorzio, non dissipa, però, alcuna ombra in relazione al rischio assicurato, per il quale rinvia all’ormai chimerica convenzione internazionale. Trascurato il dubbio circa la riconducibilità del caso specifico ad una fattispecie assicurativa, ciò che conta è realizzare, con il sistema dell’assicurazione mutualistica, un’opportunamente ampia redistribuzione dell’onere economico per le remunerazioni degli scienziati e ciò anche esulando dalle forme conosciute di assicurazione volontaria.

Gli apprezzamenti internazionali per la proposta italiana sono volti più all’impegno profuso, che alla sua sostanza, troppo circoscritta negli obiettivi e condizionata dal peculiare sistema corporativo. Ma i tenui riscontri si giustificano anche alla luce del carattere prioritario assunto nel frattempo dalla generale questione del lavoro intellettuale, che in parte si sovrappone ai nostri temi, soprattutto con riguardo alle questioni degli incentivi all’attività di ricerca e della tutela dell’attività inventiva svolta nell’ambito di un rapporto di lavoro, dipendente o autonomo[47].

Anche sul terreno nazionale, intorno agli anni Trenta, la vicenda dei diritti degli scienziati è letta ormai in questa nuova prospettiva, che comunque ben si attaglia all’impostazione fascista: lo sviluppo socio-economico della nazione diviene fine preminente, spostando l’obiettivo dal riconoscimento di un diritto individuale per lo scienziato (che ormai, sempre più frequentemente, svolge un lavoro di équipe in laboratorio) alla garanzia di un proficuo coordinamento fra mondo della scienza e mondo industriale, a tutto vantaggio della ricchezza e del ‘progresso’ nazionale. La storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche[48] è un perfetto esempio di tale attenzione e diviene parte integrante della riflessione intorno alla ‘proprietà scientifica’, quale tassello di un processo che, dalla scoperta scientifica effettuata all’interno di laboratori e centri di ricerca a ciò finalizzati, arriva al suo necessario sfruttamento industriale.

Quest’ultima fase storica, punto d’arrivo del nostro percorso, trova una perfetta rappresentazione negli scritti e nell’impegno anche legislativo di Eduardo Piola Caselli. La cosiddetta proprietà scientifica e la sua protezione pratica, edito nel 1931[49], delinea la contrastata vicenda internazionale della ‘proprietà scientifica’ e ne proietta sul contesto normativo nazionale le evanescenti ombre. Poiché – vi argomenta Piola Caselli – fra scoperta e invenzione brevettabile esiste «un rapporto di successione e di derivazione o collegamento»[50] nonché un comune denominatore, ovvero il requisito essenziale della ‘industrialità’, non può riconoscersi in capo allo scienziato un diritto nuovo e autonomo, complementare rispetto alla tutela brevettuale. Tuttavia, non può neppure trascurarsi l’esigenza di una qualche forma di protezione per le scoperte scientifiche in sé e per sé considerate, in quanto la storia dimostra come esse rappresentino, ben più delle invenzioni, una potenziale fonte di ricchezza nazionale[51]. La soluzione consiste nel «riconsiderare il problema della proprietà scientifica sotto taluni nuovi punti di vista», ovvero attraverso un inquadramento generale del tema in quello più ampio del lavoro e degli incentivi statali allo stesso.

Qualche anno più tardi, ormai imbevuto della cultura autarchica e delle aspirazioni tecnocratiche fasciste[52], nel suo Il regolamento giuridico delle invenzioni e l’autarchia (1939)[53] Piola Caselli metterà a fuoco, con efficace sintesi, la necessità della protezione dell’intero «processo creativo delle scoperte ed invenzioni»[54]. All’innovazione scientifico-tecnologica sarà riconosciuto un ruolo strategico nel sistema industriale e produttivo e sarà assegnato allo Stato il compito di incentivare e sostenere «il possesso e l’adoperamento di questa chiave di potenza»[55].

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[1] Société des Nations (SDN), Commission de Coopération Intellectuelle (CCI), doc. A. 38. 1923 XII (d’ora innanzi ancheRapport Ruffini); Reale Accademia Nazionale dei Lincei,Discussione intorno al progetto del socio Francesco Ruffini sulla proprietà scientifica (per brevità anche Discussione Lincei), Roma, 1924; N. Stolfi, La tutela della proprietà scientifica, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», IV (1924), pp. 286-299; C. Vivante, L a tutela della proprietà scientifica innanzi la Società delle Nazioni, in «Nuova Antologia di lettere scienze ed arti», CCXXXIV (1924), pp. 80-85, e in «Monitore dei Tribunali», LXV (1924), I, p. 241; E. Venezian,La tutela della proprietà scientifica, in «Studi di diritto industriale», 1924, pp. 19-25; J. H. Wigmore – F. Ruffini, Scientific Property, in «Illinois Law Review», XXII (1927), pp. 355-378; Institut International de Coopération Intellectuelle (IICI), La ‘Propriété Scientifique’ ou de le droit du savant sur l’exploitation économique de sa découverte, Paris, 1929; S. P. Ladas, The Efforts for International Protection of Scientific Property, in «The American Journal of International Law», XXIII (1929), n. 3, pp. 552-569; Commissione Nazionale Italiana per la Cooperazione Intellettuale (CNICI),La tutelle de la propriété scientifique, Roma, 1930; M. Falco, La fase più recente del movimento per la tutela della proprietà scientifica, in «Rivista del diritto commerciale», XXVIII (1930), I, pp. 726-734; A. Jannoni Sebastianini, La proprietà scientifica, Roma, 1930; A. Manes, La protection de la propriété scientifique a l’aide de l’assurance, in «La coopération intellectuelle», II (1930), pp. 97-107; E. Piola Caselli, La cosiddetta proprietà scientifica e la sua protezione pratica, in «Rivista del diritto commerciale», XXIX (1931), I, pp. 191-212; A. Giannini, Sulla tutela della scoperta scientifica, in «Rivista del diritto commerciale», LII (1954), p. I, pp. 226-237; S. P. Ladas, Patents, Trademarks, and Related Rights. National and International Protection, vol. I, Harvard, 1975, pp. 1849 ss.; D. P. Miller, Intellectual Property and Narratives of Discovery/Inventions: the League of Nations’ Draft Convention on ‘Scientific Property’ and its Fate, in «History of Science», XLVI (2008), pp. 299-342; G. Galvez-Behar, The Propertisation of Science, in « Comparativ. Zeitschrift für Globalgeschichte und vergleichende Gesellschaftsforschung», XXI (2011), pp. 80-97; A. Sciumè, Vivante e Ruffini ‘legislatori’: questioni di metodo nel progettare la migliore tutela della proprietà scientifica, in «Afferrare…l’inafferrabile». I giuristi e il diritto della nuova economia industriale fra Otto e Novecento. Atti della Giornata di studi storici e giuridici. Brescia, 11 maggio 2012, A. Sciumè – E. Fusar Poli (ed.), Milano, 2013, pp. 41-51.

[2] F. Migliorino, Ragione, probità, benevolenza. I miti borghesi di Angelo Majorana, in Il “giureconsulto della politica”. Angelo Majorana e l’indirizzo sociologico del diritto pubblico, G. Pace Gravina (ed.), 2011, pp. 69 ss.; L. Benadusi, Il Mito della scienza, in Storia d’Italia. Annali 26: Scienze e cultura dell’Italia unita, Torino, 2011, pp. 157 ss.

[3] F. Carnelutti, Valore giuridico della nozione di azienda commerciale, in «Rivista del diritto commerciale», XXII (1924), I, pp. 156-173; M. Rotondi, La nozione giuridica dell’azienda, in «Rivista del diritto commerciale», XXII (1930), I, pp. 31 ss.; M. Ghiron, Sulla dottrina giuridica dell’azienda, in «Il Foro Italiano», LIX (1934), IV, pp. 108 ss.; M. Casanova,Beni immateriali e teoria dell’azienda, in «Rivista del diritto commerciale», XLII (1945), I, pp. 76 ss.; A. Vanzetti,Trent’anni di studi sull’azienda, in «Rivista del diritto commerciale», LVI (1958), I, pp. 32 ss.; S. Amato, L’impresa nell’evoluzione storica del diritto commerciale. Strutture sistematiche e modelli normativi, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XVIII (1988), f. I, pp. 25-59; P. Grossi, Itinerari dell’impresa, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXVIII (1999), pp. 999 ss.; E. Marchisio, Sulle ‘funzioni’ del diritto privato nella costituzione economica fascista. Contratto, impresa e concorrenza, Macerata, 2007, pp. 24 ss.; F. Mazzarella, Percorsi storico-giuridici dell’impresa. Dall’ “entreprise” all’ “Unternehmen”, Palermo 2012; Id., voce L’impresa, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Ottava appendice: Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma, 2012, pp. 438-445; Id., “Afferrare” l’economia. Percezioni e proiezioni del’impresa nel diritto dell’età industriale, in «Afferrare…l’inafferrabile» cit., pp. 171 ss.

[4] T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali. Lezioni di diritto industriale, Milano, 1956; A. Jannarelli, voceMercato e concorrenza, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Ottava appendice: Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma, 2012; A. Monti, La concorrenza sleale e gli esordi del diritto industriale nell’Italia liberale: verso una teoria generale della concorrenza?, in «Afferrare…l’inafferrabile» cit., pp. 109 ss.

[5] G. Solari, La vita e l’opera scientifica di Francesco Ruffini (1863-1934), in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», XV (1935), pp. 203 ss.; G.S. Pene Vidari, Francesco Ruffini, in L’ Università di Torino: profilo storico e istituzionale, F. Traniello (ed.), Torino, 1993 pp. 431-434.

[6] G. Prezzolini, La cooperazione intellettuale, Roma, 1928; C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus publicum Europaeum, Köln, 1950, trad. it., Il Nomos della terra, Milano, 1991, pp. 306-334; G. Conetti, La costituzione delle organizzazioni tecniche nella Società delle Nazioni, Milano, 1979; Id., Società delle nazioni, Milano, 1990; I. Garzia, L’Italia e le origini della Società delle nazioni, Roma, 1995; E. Costa Bona, L’Italia e la Società delle Nazioni, Padova, 2004.

[7] E. Fusar Poli, Forme giuridiche dell’immateriale. Creazioni dell’intelletto e vis poietica del diritto, in Il diritto come forza. La forza del diritto. Le fonti in azione nel diritto europeo tra medioevo ed età contemporanea, A. Sciumè (ed.), Torino, 2012, pp. 111-149 e passim; L. Moscati, Napoleone e la proprietà intellettuale, in «Rivista di diritto civile», LII (2006), 2, pp. 179-197.

[8] Rapport Ruffini, p. 1.

[9] L. Ferrara, La concezione economica dei diritti sui beni immateriali, Napoli, 1910; M. Casanova, Beni immateriali e teoria dell’azienda cit., pp. 76 ss.; T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali cit.; P. Greco, voce Beni immateriali, in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino, 1958, pp. 356-366; M. Are, voceBeni immateriali, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, 1959, pp. 244 ss.; G. Pugliese, Dalle ‘res incorporales’ del diritto romano ai beni immateriali di alcuni sistemi giuridici odierni, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XXXVI (1982), pp. 1136-1198; B. Dölemeyer, “Das Urheberrecht ist ein Weltrecht”. Immaterialgüterrecht und Rechtsvergleichung bei Josef Kohler, in Historische Studien zum Urheberrecht in Europa. Schriften zur Europäischen Rechts- und Verfassungsgeschichte, E. Wadle (Hrsg.), vol. X, Berlin, 1993, pp. 139-150; G. Turelli, ‘Res incorporales’ e ‘beni immateriali’: categorie affini, ma non congruenti, in «Afferrare…l’inafferrabile» cit., pp. 71 ss.

[10] Rapport Ruffini, pp. 10-11.

[11] Discussione Lincei, p. 54.

[12] Rapport Ruffini, p. 1.

[13] Ivi, p. 53.

[14] L. Moscati, Sul diritto d’autore tra codice e leggi speciali, in «Rivista del diritto commerciale», (2001), 9-10/11-12, pp. 655 – 681 e in Iuris Vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, vol. V, Napoli, 2001, pp. 496-527; Ead., Alle radici del droit d’auteur, in Studi di Storia del diritto, F. Liotta (ed.), Bologna, 2007, pp. 262-341.

[15] F. Mazzarella, Diritto e invenzioni. Un’introduzione storica, in «Rivista italiana di storia del diritto», LXXXIII (2010), pp. 68-138; E. Fusar Poli, Centro dinamico di forze cit., passim; Ead., Forme giuridiche dell’immateriale cit., pp. 111 ss.

[16] SDN, CCI, doc. A. 29. 1924. XII, p. 1.

[17] Ivi, p. 7.

[18] Ivi, p. 8.

[19] IICI, La ‘Propriété Scientifique’ cit.; E. Fusar Poli, Centro dinamico di forze cit., pp. 173 ss.

[20] A. Sciumè, Vivante e Ruffini ‘legislatori’ cit., pp. 42 ss.

[21] E. Stolfi, voce Vittorio Scialoja, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Ottava appendice: Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma, 2012, pp. 397-400.

[22] A. Rocco, L’opera scientifica di Cesare Vivante, in Studi di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, I, Roma 1931, pp. XI-XIX; A. Asquini, Cesare Vivante, in «Rivista del diritto commerciale», XLII (1944), 1, pp. 109-13; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico, 1860-1950, Milano, 2001, pp. 27 ss.; A. Monti, Angelo Sraffa. Un ‘antiteorico’ del diritto, Milano, 2011, passim; A. Sciumè, voce Cesare Vivante, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Ottava appendice: Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma, 2012, pp. 446-450; Id., Vivante e Ruffini ‘legislatori’ cit., passim.

[23] P. Grossi, Scienza giuridica italiana cit., passim; Id., “Il coraggio della moderazione”. Specularità dell’itinerario riflessivo di Vittorio Polacco, in Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998, pp. 69-126.

[24] Discussione Lincei, passim.

[25] A. Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, 1992, p. 202.

[26] Discussione Lincei, pp. 4 e 21; E. Fusar Poli, Centro dinamico di forze cit., p. 163.

[27] C. Vivante, La tutela della proprietà scientifica cit., pp. 80-85.

[28] F. Ruffini, Scienza e industria, in «Nuova Antologia di lettere scienze ed arti», CCXXXIV (1924), pp. 289-301.

[29] A. Sciumè, Cesare Vivante cit., pp. 447-448; P. Grossi, Scienza giuridica italiana cit., p. 53.

[30] Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Ufficio della Proprietà Industriale, Atti della Commissione Reale, istituita con Decreto 8 ottobre 1906 per studiare e proporre le riforme da introdurre nella legislazione vigente sulla proprietà industriale, vol. I: Privative industriali, Roma, 1909.

[31] Discussione Lincei, pp. 24-26 e 28.

[32] C. Vivante, La tutela della proprietà scientifica cit., p. 241.

[33] F. Mazzarella, Diritto e invenzioni, cit.; E. Fusar Poli, Centro dinamico cit., pp. 39 ss.

[34] Discussione lincei, pp. 35.

[35] Ivi, p. 47.

[36] C. Vivante, La tutela della proprietà scientifica cit., p. 81; A. Sciumè, Vivante e Ruffini ‘legislatori’ cit., pp. 46-47.

[37] Discussione Lincei, p. 43.

[38] Ivi, p. 62.

[39] N. Stolfi, La tutela della proprietà scientifica cit., pp. 286-299; A. Casella, Di un acerbo progresso: la Sips da Volterra a Bottai, in Una difficile modernità, A. Casella – A. Ferraresi – G. Giuliani – E. Liguori (ed.), Pavia, 2000, pp. 37-89.

[40] L. Laboccetta, La protezione della proprietà intellettuale come elemento di predominio economico nel mondo moderno. Rapporto tenuto nella XIX riunione della società italiana per il progresso delle scienze. Bolzano-Trento, 7-15 settembre 1930, Roma, 1931.

[41] A. Manes, La protection de la propriété scientifique cit., pp. 97-107.

[42] C. Melloni, Eduardo Piola Caselli, magistrato e giurista, in «Le carte e la storia», XIV (2008), 2, pp. 128-148; E. Fusar Poli, Centro dinamico di forze cit., pp. 172-173 e passim.

[43] Promemoria del 12 dicembre 1929, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Piola Caselli Eduardo (PCE), scatola 6, fasc. 11.

[44] CNICI, La tutelle de la propriété scientifique cit., Roma, 1930; ACS, PCE, scatola 20. fasc. 39.

[45] C. Vivante, L’autonomia del diritto commerciale e il sistema corporativo, in «Diritto e pratica commerciale», 1929, I, pp. 115 ss. e Id., La penetrazione dell’ordinamento corporativo nel diritto privato, in «Diritto del lavoro», 1931, I, pp. 437-444; O. Abbamonte, I giuristi e l’economia corporativa. Il contributo all’affermazione dei valori economici nel ventennio fascista, in Annali 1997. Quaderni dell’Istituto giuridico della Facoltà di Economia dell’Università della Tuscia, Viterbo, 1998, pp. 18 ss.; P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Un’ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXVII (1999), pp. 175-282; G. Cazzetta, L’autonomia del diritto del lavoro nel dibattito giuridico tra Fascismo e Repubblica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXVIII (1999), t. I, pp. 511-629; G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, 2006; I Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia Fascista, Milano, 2007; S. Cassese, Lo Stato fascista, Bologna, 2010; A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, 2010, pp. 132 ss.

[46] CNICI, La tutelle de la propriété scientifique cit., p. 27.

[47] A. Giannini, Sulla tutela della scoperta scientifica cit., pp. 226-237.

[48] G. Fioravanti, Il Consiglio nazionale delle ricerche e il suo archivio (1923-1950) presso l’Archivio centrale delle Stato, in Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica. Atti del convegno internazionale, Desenzano del Garda, 4-8 giugno 1991, t. I, Roma, 1995, pp. 307-328; R. Simili, Scienza, tecnologia e istituzioni in Europa. Vito Volterra e l’origine del Cnr, Roma-Bari, 1993;Per una storia del Consiglio nazionale delle ricerche, R. Simili – G. Paoloni (ed.), Roma-Bari, 2001; R. Maiocchi, Gli scienziati del Duce: il ruolo dei ricercatori e del CNR nella politica autarchica del fascismo, Roma, 2003.

[49] «Rivista del diritto commerciale», XXIX (1931), I, pp. 191-212.

[50] Ivi, p. 201.

[51] Ivi, p. 206.

[52] A. Aquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», XI (1964), 52, pp. 109-128.

[53] E. Piola Caselli, Il regolamento giuridico delle invenzioni e l’autarchia, in «Scienza e tecnica», III (1939), f. 1, pp. 3-16.

[54] Ivi, p. 6.

[55] Ivi, p. 3.