Elementi per un’estetica dell’immagine egizia

Autori

  • Manuele Bellini Università degli Studi di Milano

DOI:

https://doi.org/10.13130/2039-9251/746

Abstract

L’immagine egizia, che si declina nelle forme dell’arte e nella scrittura geroglifica, non è né rappresentazione o imitazione della natura né e-spressione, ma creazione di una realtà altra parallela a quella sensibile: la sua funzione è performativa. L’immagine, lungi dall’essere phantasma, vive di per sé ed è una realtà concreta da usarsi, non una realtà trasfigu-rata da fruirsi. È un simulacro che va a supplire l’oggetto cui somiglia –un esempio è dato dalle libagioni dipinte sulle stele funerarie. Fine dell’artista non è la mimesis, ma la ricostruzione, secondo un canone, di una realtà differente, che si anima per magia. L’immagine nasce nella sepoltura e il suo fine non è solo il tramandare la memoria del defunto, ma prolungare la vita: la morte, tradotta in immagine, non solo ricorda la vita che è stata, ma torna a essere vita e l’invisibile, non più confinato nel regno degli inferi e delle ombre, si fa visibile, mostrando la sua mai perduta realtà. Ora, l’assenza di una dialettica tra immagine e realtà impedisce la fioritura di una riflessione filosofica, di un pensiero astratto, perché ciò che i geroglifici, che sono pittogrammi fonetici, indicano trapassa subito nell’oggetto senza che possa costituirsi come concetto. Tuttavia, a gli egizi questo non interessa: l’immagine, ipostatizzando ciò che designa, lo sacralizza perché essa è al servizio di un’ideologia. Ma sacralizzare non è solo propagandare, bensì inserire un oggetto nell’ordine del cosmo, prolungando l’opera di creazione del Demiurgo che la società si sforza di mantenere attraverso l’azione del Faraone.

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Pubblicato

2010-12-17

Fascicolo

Sezione

Saggi