Policronie
DOI:
https://doi.org/10.13130/2465-0137/11024Abstract
Abstract [ma anche: tastar de corde]
Quasi un secolo fa un uomo piccolo – con gli occhi grandi e straniti – chiede rifugio a una casa con tante stanze.
Assieme a un altro uomo – capace di ascoltare e vedere – iniziano allora un dialogo fatto di visioni e ospitalità. Era il franare del tempo. L’incrinarsi delle immagini. Quelle dentro e quelle fuori. Il non saper più dove mettere le cose. Che nel mondo a volte fa freddo. Quando tutto deve stare per forza come in bilico su una linea ben tirata. Allora si precipita. Giù. O là. Non so bene dove. So che fa paura. E freddo. L’equilibrismo.
Dare un luogo al sub-limo del tempo. A ciò che vi affiora. E tendere corde – anche – da finestra a finestra. E ghirlande da campanile a campanile. E catene – d’oro – da stella a stella. Danzando.
Questo – in fin dei conti – hanno fatto i due uomi. Tutto il tempo.
Questo parlottio ha poi generato Mnemosyne. E un prezioso libro sul pensiero che fugge.
Non ne parlerò di questo, ma tutto – in queste pagine – ne è debitore[1].
Keywords: tempo, policronie, mappe, György Kurtág, Samuel Beckett.
[1] I due uomini sono Aby Warburg e Ludwig Binswanger che nella clinica svizzera di Bellevue hanno provato a ripensare il tempo. E a danzare. Con Rimbaud.
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