Doing and Allowing Harm

the Hidden Assumptions of a Moral Distinction

Autori

  • Erich Linder Universität Wien

DOI:

https://doi.org/10.54103/balthazar/16358

Parole chiave:

Doing-Allowing harm, charity, justice, merit, Ego-Ideal, Woollard, consequentialism

Abstract

C’è chi sostiene che è possibile stabilire una distinzione moralmente rilevante tra fare il male e permettere che il male venga fatto. Ammettere o meno l’esistenza e la rilevanza morale di tale distinzione ha profonde ripercussioni sia a livello teorico che pratico.

Nelle prossime pagine riproporrò e criticherò il contributo più recente e cospicuo a favore della differenza tra fare e permettere il male (d’ora in avanti DFP). Sosterrò che – nonostante sia in linea di principio plausibile tracciare tale distinzione –il cardine della discussione sta nel comprenderne la rilevanza morale. In che senso si possa parlare di rilevanza morale è infatti una questione controversa.

Sostenere che la DFP sia moralmente rilevante, ad esempio, legittima gli agenti a disporre liberamente delle proprie risorse. Ma questa legittimazione non è priva di problemi: andranno affrontate sia questioni legate all’ingiustizia implicita nella DFP che all’accezione conservatrice di identità personale sostenute dai fautori della DFP.

Per quanto riguarda il problema dell’ingiustizia sosterrò che quando ci si confronta con problemi pratici – come l’obbligatorietà di dare denaro in beneficienza – i sostenitori della DFP sembrano sostenere implicitamente che i più sfortunati si meritino di trovarsi in condizioni di miseria e povertà. Tale posizione – come si vedrà – è fortemente problematica sia da un punto di vista etico che metafisico.

Successivamente – sulla scia della psicoanalisi freudiana – sosterrò che la DFP permette all’agente di preservare e giustificare una concezione dell’identità personale ben specifica.

Legittimare il diritto di proprietà di un agente sulle proprie risorse è importante poiché gli permette di perseguire quei progetti che costituiscono e formano il proprio ideale dell’Io; la DFP incoraggia l’agente a divenire il tipo di persona cui già aspirava, a prescindere da una qualunque riflessione critica. Questa prospettiva è sintomatica di una concezione dell’etica particolarmente conservatrice cui ci si può ragionevolmente opporre. Si può, per esempio, sostenere che il ruolo dell’etica dovrebbe essere quello di incoraggiare gli agenti a mettere alla prova la propria identità e cercare di adattarla al sopraggiungere di nuovi problemi, abbandonando dunque la tendenza a preservare e cristallizzare il proprio ideale dell’Io.

Pubblicato

2022-01-19