Uno strumento per la salvezza dell’anima: la correzione del clero ‘indisciplinato’ tra ius vetus e ius novum

Autori

  • Andrea Massironi Università degli Studi di Milano-Bicocca

DOI:

https://doi.org/10.54103/2464-8914/19452

Parole chiave:

Decretum, decretali, correzione, clero, scomunica

Abstract

Nel Decretum di Graziano trovarono accoglienza alcuni testi (per la maggior parte scritti di Agostino di Ippona e di Gregorio Magno e canoni conciliari del VI e del VII secolo) che trattavano il tema della correzione del clero regolare e secolare da parte del superiore gerarchico, in special modo del vescovo e dell’abate. All’interno di una diocesi, infatti, il vescovo era chiamato in prima persona a intervenire per controllare i chierici sottoposti alla sua autorità. Lo stesso valeva per l’abate nel monastero che reggeva.
Quali erano gli strumenti a loro disposizione per condurre verso l’emenda chi avesse dato segni e compiuto gesti classificabili come indisciplina? Sicuramente ammonire, esortare o addirittura minacciare erano le prime strade da percorrere. Tuttavia, per quanto fossero autorevoli tali moniti, rischiavano di rimanere ignorati in mancanza di strumenti che li rendessero efficaci. La liceità e le modalità di esercizio dell’uso della violenza fisica quale strumento di correzione e punizione – comunemente accettato a tutti i livelli della società, dato che peraltro era raccomandato anche dalle Scritture –, non emergevano tuttavia in modo perspicuo dalla lettura dei capitoli grazianei. Infatti, a fronte del riconoscimento operato da alcuni di essi, altri sembravano guardarvi con titubanza e porvi limiti, se non addirittura divieti, poiché non era conveniente che uomini di Chiesa adoperassero tali mezzi o di tali mezzi fossero i destinatari. Un capitolo, in particolare, costituiva un serio ostacolo all’impiego della forza a fini disciplinari. Si trattava di un testo più tardo (almeno nella sua formulazione definitiva), cioè il celebre can. 15 (Si quis suadente) del II Concilio lateranense del 1139, che introducendo l’intangibilità fisica delle persone consacrate – pena la scomunica – ammantava la figura del chierico di un’aura di sacralità che pareva rendere assai difficile per il superiore avvalersi dei tradizionali strumenti 'educativi'. Tuttavia, numerose decretali successive (di Alessandro III, Celestino III, Innocenzo III e Gregorio IX) implementarono la materia, prevedendo una serie di eccezioni al cd. privilegium canonis. Si sollevavano così dal rischio di incorrere nella scomunica coloro che esercitavano verso i loro sottoposti una legittima potestà, che si poteva articolare pertanto anche nell’impiego della coercizione fisica. La scienza giuridica canonistica, da parte sua, svolgeva il fondamentale compito di coordinare tra loro le diverse fonti, soprattutto interpretando i testi del Decretum grazianeo alla luce dello ius novum di emanazione pontificia, cercando di definire con chiarezza i limiti, le modalità e la portata dei poteri di correzione dei soggetti che erano quindi pienamente legittimati a intervenire verso chierici e monaci per contenere la loro immoralità, distoglierli dalla propensione al peccato e contrastarne la disobbedienza e l’indisciplina. 

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Pubblicato

2022-12-22

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