Tortura, confessione e pena di morte: un tragico caso di violenza sessuale minorile deciso dalla Rota di Lucca nel XVI secolo

Autori

  • Fulvio Mancuso

DOI:

https://doi.org/10.13130/2464-8914/12609

Parole chiave:

tortura, pena di morte, confessione, XVI secolo, violenza sessuale, criminalità minorile

Abstract

Questo contributo ha ad oggetto lo studio di una decisio del tardo '500 della Rota di Lucca, uno dei Grandi Tribunali istituiti in età moderna in Italia e in Europa.

Autore fu Giuseppe Ludovisi, giudice e giurista originario di Assisi, che nel corso della sua carriera ricoprì importanti incarichi, fra i quali quello di auditore delle Rote di Perugia, Lucca e Firenze. Le raccolte delle sue decisiones perugine e lucchesi furono edite per la prima volta, rispettivamente, nel 1572 e nel 1577. Andarono altresì a stampa le sue Conclusiones communes (1581) e le Receptae sententiae (1584).

La diciassettesima delle sue decisioni lucchesi concerne un tragico caso di violenza sessuale seguita da morte, reso ancora più drammatico dall'età dell'accusato – un ragazzo di quindici anni – e  soprattutto della vittima – una bimba di soli due anni di età. La pronuncia affrontò, con ampia mole di citazioni dottrinali, consiliari, normative e di precedenti giudiziari, due questioni rilevanti nell'ambito della giustizia criminale minorile del tempo. La prima era relativa alla validità della confessione raccolta a seguito di tortura di un minore senza l'assistenza del curatore. La seconda concerneva la pena da infliggere e, in particolare, l'irrogazione della pena capitale nei confronti di un minorenne pubere.

Un ragazzo quindicenne era stato accusato di aver violentato la sua nipotina di circa due anni, poi morta a causa delle  lesioni subite nelle parti intime. Sulla  base degli indizi di colpevolezza il giudice aveva ordinato che il giovane fosse sottoposto a tortura. In conseguenza dei “tormenti” l'adolescente aveva confessato non solo di aver violentato più volte la bambina, ma anche altre condotte illecite (lo stupro di un'altra bambina di sei anni, rapporti sessuali di vario genere, anche sodomiciti).

Il Ludovisi, pur attestando che secondo il diritto comune sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore in favore del minore, così come stabilito da una costituzione imperiale, si pronunciò per la validità della confessione sulla base di una consuetudo, di fatto contra legem, seguita dalla prassi e anche da molte opinioni dottrinali. A tale conclusione doveva giungersi anche tenuto conto dell'assistenza, nel processo, di due rappresentanti del Senato di Lucca: la loro presenza, infatti, equivaleva a quella del princeps, che de iure suppliva a qualsiasi requisito necessario.

Per la punibilità dell'adolescente era data per scontata la sua imputabilità in quanto minorenne pubere e dunque doli capax. In teoria, in considerazione dell'età, il ragazzo sarebbe stato comunque meritevole di una diminuzione di pena ad arbitrio del giudice, fatte salve le fattispecie di crimini dolosi atrocissimi, per i quali si poteva irrogare la pena di morte.

Il giudice evidenziò che la natura e l'entità della sanzione andavano valutate alla luce dello statuto della città di Lucca, che regolava la punibilità dei minori degli anni diciotto. Nei loro confronti, infatti, se accusati di un crimen per il quale era prevista una pena corporale, il giudice poteva emettere sentenza di condanna ad una sanzione più mite, considerando la condizione personale, l'età e ovviamente la qualitas facti. Tuttavia, il trattamento di miglior favore non poteva aver luogo per i delitti di lesa maestà, di macchinazione contro la pace e la libertà della città di Lucca e di omicidio doloso. In particolare, poi, secondo il giudice assisano, a quest'ultima fattispecie criminosa andavano assimilate in via di interpretazione estensiva altre ipotesi delittuose in quibus est eadem et maior ratio.

Il Ludovisi asserì a tal proposito che per i delitti in questione sembrava ricorrere l'eadem ratio dell'omicidio doloso, anzi una maior ratio avuto riguardo alla gravità della pena e degli altri reati confessati. Su tali presupposti, l'applicazione della norma statutaria lucchese in materia di omicidio doloso pareva ineludibile. Ma, come per la questione relativa alla confessione, il ragionamento del giudice rotale si capovolse: la pena capitale, prevista per l'omicidio doloso non doveva e non poteva essere inflitta nei confronti del ragazzo proprio sulla base della normativa in vigore a Lucca. Diversamente da quanto potesse apparire, in realtà, a dire del magistrato, l'eadem ratio difettava nella sostanza, non sussistendo l'elemento soggettivo dell'omicidio doloso. Infatti, pur essendo seguita allo stupro la morte della bambina, il giovane accusato aveva agito non animo occidendi ma explendi libidinem. Del resto, anche a prescindere dalla disciplina dello statutum lucchese, la dottrina e la prassi si erano attestate da tempo su una posizione piuttosto chiara: l'omicidio doloso, quanto all'irrogazione della pena capitale, non poteva essere equiparato a quello colposo, neanche in caso di lata culpa.

Nel seguito della decisio, il magistrato e giurista umbro si soffermò anche sulla posizione, sostenuta da autorevole dottrina, secondo la quale la pena di morte non poteva essere irrogata nei confronti di un minorenne, nemmeno per gravissimi reati dolosi commissivi. Il Ludovisi enumerò a questo proposito una vasta casistica ma, nonostante ciò, definì falsissima e infondata questa opinione. Il magistrato rotale, in definitiva, affermò che per i minori ultraquattordicenni il giudice disponesse di un arbitrium tale da consentirgli di mitigare la pena ordinaria ma anche di infliggere la condanna a morte.

In conclusione, gli ritenne di doversi comunque attenere al ius proprium, vale a dire agli statuti lucchesi. E poiché questi espressamente vietavano l'irrogazione della pena capitale nei confronti dei minori degli anni diciotto, tranne che per la commissione dei tre suddetti generi di delitti, dei quali, tuttavia, il ragazzo non era imputato, l'adolescente ebbe salva la vita.

La dotta, motivata e per certi versi originale decisio del Ludovisi – dalla quale emerge ancora una volta la stretta connessione tra legislazione, scienza e prassi nel sistema del ius commune - non venne smentita dal dispositivo della sentenza. L'adolescente evitò la pena di morte ma subì una condanna estremamente severa: quattro anni di carcere e, soprattutto, la destinazione successiva ad triremes perpetuas. Anche la famiglia del ragazzo non uscì indenne da quel processo, visto che il padre fu condannato a pagare una somma di duemila scudi da versarsi a favore dell'Ospedale della Misericordia di Lucca.

Si chiuse così un caso giudiziario inquietante e tragico – per la piccola vittima, per il giovane autore del crimine e sicuramente anche per le rispettive famiglie – rispetto al quale, al di là di ogni considerazione di merito della sentenza, il giudice e giurista Giuseppe Ludovisi dimostrò di non voler risparmiare, oltreché la sua competenza tecnica, anche tutto il suo impegno di uomo delle istituzioni.

Il tema dell'imputabilità dei minori, del loro trattamento giudiziario e punitivo in genere è certamente complesso e delicato, qualunque sia l'approccio che ad esso si intenda dedicare. Per lo storico del diritto, esso rappresenta senz'altro un campo ancora meritevole di ricerche e di scavi, nella scienza giuridica, nella legislazione e soprattutto nella prassi giudiziaria, ove più concretamente possono indagarsi trasformazioni e dinamiche sociali da cui dipende l'evolversi  della risposta sanzionatoria nei confronti dell'essere umano non ancora pienamente maturo.

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Pubblicato

2019-12-17

Fascicolo

Sezione

Infanzia e adolescenza tra diritto e società. Passato, presente e futuro.