Il lavoro minorile nelle miniere calabresi in età borbonica tra antiche regole e nuovi “diritti”

Autori

  • Carmela Maria Spadaro Università di Napoli

DOI:

https://doi.org/10.13130/2464-8914/12645

Parole chiave:

Miniere, Minorenni, Siderurgia, Calabria, Bizantini

Abstract

Lo sfruttamento dei minori impiegati negli stretti cunicoli del sottosuolo da cui si estraggono i  minerali utilizzati dalla grande industria, ha sempre rappresentato un capitolo amaro nel  dibattito sulla tutela del lavoro. L’utilizzo di minori in mestieri non adatti alla loro età e, comunque, in assenza di regole o a dispetto delle  leggi  che  reprimono gli abusi,  è ancora oggi un dramma vissuto in  molti Paesi, come emerge quotidianamente dalle numerose inchieste condotte  anche negli ultimi anni. 

     Speciale oggetto di attenzione è stato  soprattutto l’impiego di minori nelle miniere da cui si estraggono materiali, come il coltan, largamente utilizzati  nell’industria high tech. Lo scenario è spesso devastante,  rivelando  condizioni disumane, sia in Paesi ad alto tasso di industrializzazione, come la Cina,  sia nei paesi più poveri  del Terzo Mondo, come il Congo.

      A partire dal 1861, nell’Italia appena unificata, il problema del lavoro minorile non fu affrontato  in maniera diretta, ma si pose quale corollario nel dibattito parlamentare che concentrò i suoi sforzi nell’ unificare le legislazioni vigenti negli ex Stati preunitari in tema di miniere, cave e torbiere, configurando un regime proprietario valido per tutto il Paese (dominio usque ad inferos o res nullius). L’opzione capitalistica, che infine prevalse, non manifestò, per evidenti ragioni, grande entusiasmo verso l’introduzione di una disciplina del lavoro che, fissando limiti e divieti nel rapporto di lavoro, avrebbe limitato il vantaggio per l’impresa di potersi avvalere di “materiale umano” a basso costo (e tali erano specialmente i lavoratori minorenni).

      Nel 1876 l’inchiesta parlamentare condotta dai deputati Franchetti e Sonnino,  faceva emergere la vicenda dei cd. carusi, minori di appena  7-8 anni di età  utilizzati  come forza lavoro nelle miniere di zolfo siciliane.  Il Paese prendeva atto dell’urgenza di disciplinare la materia, anche sotto la spinta dei movimenti sindacali che  nascevano proprio in quegli anni,  ma il percorso  fu  ancora lungo. Dieci anni più tardi, nel 1886 la legge Berti  stabiliva  alcuni  principi  importanti,  come l’età minima per accedere al lavoro o il limite orario; tuttavia la normativa  rimase di fatto  non attuata e fu necessario attendere  la  nuova legge, proposta dal ministro Carcano nel 1902 per vedere realizzate le prime forme di tutela per i lavoratori minorenni.

     Se tale è l’orizzonte normativo entro il quale si snoda la vicenda della disciplina del lavoro minorile in Italia, può  destare stupore che già nel  1845 in uno sperduto villaggio di minatori della Calabria, Pazzano,  l’attività di estrazione del ferro, che alimentava la Regie officine di Mongiana, la più  grande industria siderurgica della penisola italiana prima dell’unificazione del Paese, l’organizzazione del lavoro in miniera  fossero  state compiutamente tradotte in apposito regolamento, che stabiliva l’età  minima di  14 anni per l’accesso al lavoro, limitava ad 8 ore la giornata lavorativa,  escludeva i   lavoratori minorenni  dalle attività considerate pericolose o pesanti.  

     Il Regolamento per le miniere di ferro dei Reali stabilimenti di Mongiana, ispirato dalla logica militare borbonica  che dirigeva e coordinava l’organizzazione del ciclo produttivo nella  grande industria statale de resa  fiorente negli anni Trenta dell’ 800, non impose  tuttavia regole contrarie all’indole della popolazione, ma si  innestò nelle tradizioni esistenti, armonizzandosi con la cultura presente in quel territorio:  una cultura fortemente influenzata dalla spiritualità bizantina dei monaci eremiti,  che da secoli popolavano la  “Valle Santa”,  inculcando nelle popolazioni consuetudini e mentalità ben lontane dalla logica del profitto; una cultura che  aiutò le popolazioni a prendere precocemente  coscienza dell’importanza di rispettare il territorio , utilizzandone le risorse con equilibrio e nel rispetto dello stesso,procurandosi   l’essenziale per vivere in una “dignitosa povertà”.

     Certamente, questo stile di vita mal si conciliava con il modello capitalistico, che l’Italia liberale e borghese stava  cercando di realizzare,  con il quale, di fatto, entrò immediatamente in conflitto.

     La chiusura degli stabilimenti, che nel 1876  furono venduti ad asta pubblica unitamente a tutto il compendio  di beni  che entravano nel circuito produttivo dell’azienda (foreste, boschi, miniere), determinò il massiccio fenomeno dell’emigrazione e lo spopolamento del territorio.          

     La vicenda delle miniere calabresi, oltre a restituire l’immagine di una terra industriosa ed operosa,  verso cui si emigrava in cerca di lavoro, consente di riscoprire pagine inedite della storia del lavoro minorile, che a punte di avanzato sfruttamento contrappone  esperienze di corretta e disciplinata organizzazione.

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Pubblicato

2019-12-19

Fascicolo

Sezione

Infanzia e adolescenza tra diritto e società. Passato, presente e futuro.