Il diritto per i minori, i diritti dei minori. Itinerari nell’Italia del Novecento

Autori

  • Floriana Colao

DOI:

https://doi.org/10.13130/2464-8914/12652

Parole chiave:

La condizione giuridica del minore nel Novecento, Progetti, Legislazione, Codificazione, Il minore e la famiglia, La giustizia penale minorile

Abstract

La questione minorile è stata ripercorsa dalla storiografia soprattutto attraverso il prisma della repressione e prevenzione; nell’Italia del Novecento il bisogno di controllo sociale, ‘pensiero dominante’, ha complicato la costruzione del diritto per i minori e dei minori. La codificazione civile, ‘a misura di adulto’, assegnava infatti i diritti al soggetto razionale ed autonomo, quasi a riproporre l’impostazione del paternalismo liberale di Stuart Mill, a proposito di minori da proteggere in primo luogo da se stessi. L’ordinamento contemplava i minori soprattutto per imporgli l’‘antico onora il padre’; anche se il codice civile del 1942 non prevedeva una soggezione totale dei figli rispetto alla potestà genitoriale, prima del fascismo ed ancora negli anni Cinquanta la patria potestà era intesa come ‘rimedio’ all’incapacità di agire del figlio, ostacolo all’«azione dello Stato» nell’ordine e disordine della famiglia. Agli inizi del secolo la «protezione giuridica dei minorenni» pareva «sconosciuta al nostro diritto e fuori della legislazione», inadeguata soprattutto nell’impietoso paragone con la legislazione europea e d’oltreoceano; la comparazione con un ‘altrove felice’ – in primo luogo il Children Act del 1908 – sarebbe stata una costante nelle politiche nazionali per l’infanzia ed adolescenza, dalla Circolare del guardasigilli V.E. Orlando al Progetto di Codice per i minorenni.

Lontano dallo ‘specialismo’ – cifra della scientia iuris nazionale – il diritto minorile aveva vocazione ‘interdisciplinare’, nel poggiare soprattutto sul legame tra diritto e pedagogia; nel 1910 Orlando parlava all’Istituto pedagogico forense di Milano del diritto  ‘da sempre e per sempre’ preminente per i minori, quello alla «protezione educativa», all’«educazione, sia pure forzata». Nell’Italia liberale era ampio il dibattito e significativa la progettazione; ne era un ‘ultimo atto’ il Progetto Ferri, inteso a distinguere tra bambini e adolescenti e a costruire una giustizia penale speciale rispetto a quella per gli adulti. Negli anni del fascismo – anche in questa materia tutt’altro che parentesi – era invece serrata la legislazione, con l’istituzione dell’Opera nazionale maternità e infanzia – attiva fino al 1975 – l’Opera nazionale Balilla, il Tribunale per i minorenni (Rd. 1404/1934). Il regime intendeva marcare il passaggio della questione minorile dal campo penale a quello «sociale»; era centrale la «rieducazione», come ribadito nel 1941 dal guardasigilli Dino Grandi. Il Rd. 140/1934 si ricollegava alla codificazione penale e penal-processuale (1930), ed era ‘apripista’ della codificazione civile (1942).

Nella dottrina degli anni Cinquanta l’«autonomia» del diritto minorile nasceva con il Tribunale per i minori; cenni sporadici erano riservati alla Costituzione ed alla Dichiarazione di Ginevra dei diritti universali dei bambini (1924). Pur in un orizzonte meramente esortatorio, in seguito le fonti internazionali avrebbero avrebbero ‘incalzato’ il legislatore italiano, soprattutto sul piano, problematico, dell’attuazione dei principi. Il diritto minorile si sviluppava inoltre come sorta di judge made law – costruito sopratutto dai presidenti del Tribunale dei minori, Radaelli, Baviera, Cividali, Meucci, Moro, Vercellone, Occhiogrosso, Fadiga – profilo problematico per la prevalente cultura giuridica legalista italiana, ostile all’ampio potere discrezionale, esercitato dal giudice specializzato in materia giurisdizionale ed amministrativa. Nel 1951 nasceva inoltre l’Unione italiana giudici per minorenni, poi Associazione, motore del processo legislativo; nel 1971 era istituita la pianta organica del «giudice specializzato».

Il diritto minorile era complicato dai cambiamenti di costume, che investivano la società: nel primo Novecento il dibattito tra giuristi, giudici, politici, scienziati sociali era iscritto nell’orizzonte della autorità, paterna e/o dello Stato, non in quello della libertà ed autonomia del minore. Con un cambio di prospettiva, all’Assemblea Costituente Aldo Moro tematizzava un diritto «problematico», stante l’incapacità di agire del soggetto, ma «autentico». Quasi ad anticipare il best interest of the child, la legge 431/67 – detta dell’adozione speciale – attribuiva al Tribunale il compito di «promuovere e difendere i diritti del minore». Elia – relatore di una densa sentenza della Consulta del 1981 – sostenne che il “centro di gravità” del sistema passava dall’“interesse dall’adottante a quello dell’adottato”. Ma non mancavano problemi: davanti ai concretissimi drammi sulla destinazione del bambino – madre sola e problematica o Istituto – Jemolo si chiedeva «dov’è l’interesse del minore», interrogativo a suo avviso non sciolto dalla legge, che aveva affidato al giudice «un compito che non è suo». Anche il mondo del diritto era lambito da nuove sensibilità e trasformazioni sociali: alla metà degli anni Settanta si poneva il tema del «metodo», con la trasformazione del «diritto minorile», da «diritto dei minori a diritto dei diritti dei minori». Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 il «vecchio» diritto minorile pareva destinato a lasciare il posto ad uno «nuovo»;  per Alfredo Carlo Moro tramontava il soggetto «unificato», ed entravano in scena «Pierino, Maria»; alla luce della Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo del 1989, ratificata in Italia due anni dopo, Moro affermava che il discorso sui «diritti» doveva poggiare sulla «attuazione». D’altro canto si osservava che il legislatore non poteva stabilire per legge i contenuti dei diritti – primo di tutti quello all’educazione – se non con criteri generali e astratti, e che il minore non era considerato dall’ordinamento come soggetto di diritto, ma come destinatario di decisioni prese da altri, genitori, tutori, giudici.

Nel 1970 Cividali metteva in scena un «giudice nuovo», impegnato a promuovere i diritti del minore, empatico con la «persona», più che intento ad applicare ‘freddamente’ la legge. La polarità tra il rispetto delle norme, a tutela di tutti i bambini, e la decisione nel migliore interesse di quel particolare bambino, anche contravvenendo alla legge, irrompeva con il ‘caso celebre’ di Serena Cruz, tolta dal Tribunale per i minorenni di Torino alla famiglia, che l’aveva adottata illegalmente; quel ‘caso celebre’ metteva in scena il corto circuito tra legalità e «vera giustizia». Quanto al rapporto tra minori e istituzioni, intese alla rieducazione, la prassi mostra che, dal fascismo alla repubblica, alla «discontinuità politica» è corrisposta una «continuità istituzionale», anche nella violenza esercitata sui minori; da qui una ‘provocazione’, la creazione di un «Tribunale per la difesa dei minori». Neppure il codice di procedura penale minorile del 1988, inteso a «educare responsabilizzando», è parso assicurare ai minorenni una efficace «garanzia».

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Pubblicato

2019-12-19

Fascicolo

Sezione

Infanzia e adolescenza tra diritto e società. Passato, presente e futuro.