L’inventio dell’analogia tra teologia e retorica in Garnerio di Rochefort (1140 ca.-1225 ca.)
DOI:
https://doi.org/10.54103/2035-7362/19478Parole chiave:
Retorica, Analogia, Esegesi biblica, Teofania, NeoplatonismoAbstract
Negli anni di passaggio dal XII al XIII secolo, il cisterciense Garnerio di Rochefort si dedica alla composizione di un breve trattato, il De contrarietatibus in Sacra Scriptura. L’opera, tuttora inedita, fa ricorso all’uso delle arti sermocinali per risolvere le ambiguità scritturali. Nel prologo del De contrarietatibus emerge un peculiare interesse del cisterciense verso la disciplina della retorica e, in particolare, verso l’impiego delle figure tropiche nella comprensione dei contenuti della Rivelazione. A ben vedere, tuttavia, la scelta garneriana di ricorrere all’affinamento degli strumenti della retorica per illuminare il significato della Scrittura trova una piena giustificazione solo alla luce della sua concezione della natura e della Scriptura come teofanie e/o simboli. Ora in quest’orizzonte simbolico, di impianto neoplatonico-dionisiano, è sempre all’opera nelle res, così come nel linguaggio, un meccanismo di traslazione, un’estensione della parola, oltre il suo contenuto ordinario, a un significato altro, di natura spirituale. Dunque la fattura retorica delle espressioni bibliche assume un valore conoscitivo, e non semplicemente ornamentale, perché capace di palesare, attraverso un dialettico gioco di corrispondenze e/o di rotture, una proporzionalità analogica tra il visibile e l’invisibile.
In the intervening years between the XII and XIII centuries, Cistercian Garnerius of Rochefort devoted himself to the composition of a short treatise, De contrarietatibus in Sacra Scriptura. The work, still unpublished, makes use of the sermocinal arts to resolve scriptural ambiguities. The prologue to De contrarietatibus reveals a peculiar interest of the Cistercian in the discipline of rhetoric and, in particular, in the use of tropes in understanding the contents of Revelation. On closer inspection, however, garnerian’s choice to resort to the refinement of the tools of rhetoric to illuminate the meaning of Scripture finds full justification only in light of his conception of natura and Scriptura as theophanies and/or symbols. Now in this symbolic horizon, of Neo-Platonic-Dionysian framework, there is always at work in res, as well as in language, a mechanism of translation, an extension of the word, beyond its ordinary content, to another meaning of a spiritual nature. So the rhetorical workmanship of biblical expressions assumes a cognitive, and not merely ornamental, value because it is capable of manifesting, through a dialectical interplay of correspondences and/or ruptures, an analogical proportionality between the visible and the invisible.
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